In una nota del 31 agosto 1971, inclusa in Nero su nero, descrive un altro lavoratore che non usa le braccia, il bibliotecario di Erice, Antonio Amico, prete e canonico, che di fatto faceva lo storico, perché ha scritto «tanti fascicoli che riguardano la storia della città», «che forse nessuno pubblicherà mai, che pochissimi leggeranno», che «offrono un vivace affresco della vita» del paese. In essi si nota: «leggerezza ed arguzia», «divertimento» nel trattare di questioni pruriginose. Egli era «molto intelligente, libero e tagliente nei giudizi, vivace, spregiudicato», di fatto un illuminista settecentesco. Lo scrittore lo definisce: «un uomo che ha fatto bene il proprio lavoro».2 Questo lavoro fatto bene, con serietà e piacere, non è stato pensato per qualcuno, è disinteressato, i suoi tratti sono solamente amore per la storia e passione, l’attività (scrivere di storia) di chi l’ha svolto non è una professione.
Scrivere non è un’attività normale, non basta praticarla come fosse una professione qualsiasi, per potersi fregiare del titolo di scrittore; Sciascia lamenta: è facile trovare «qualcuno che è disposto a riconoscere talento a chi non ne ha, a proclamare scrittore o pittore o filosofo chi scrittore o pittore o filosofo non è».3 Se non hai talento, non sei uno scrittore.
Altre caratteristiche sono proprie dello scrittore, secondo Sciascia, ma nessuna ha a che fare con un lavoro regolarmente inteso. Del 27 luglio 1973 sono due note, la prima prende Voltaire come modello per una sua affermazione su fanatismo e stupidità. Le «“gens de lettres”», secondo il siciliano, devono inevitabilmente confrontarsi con esse (ormai sempre accoppiate), almeno cercando di ricavarne «piacere»: già scrivendo «un libro, un articolo, una nota», i letterati pregusteranno le reazioni future di «dieci o diecimila fanatici che vi si imbatteranno», poi ne avranno conferma. Ciò «non è piacere da poco». In più, anche l’illuministica categoria «gens de lettres», non solo non si presta a diventare qualcosa di avvicinabile ad una categoria professionale, ma neanche un titolo affidabile, dal momento che in un inciso tra parentesi lo scrittore precisa: «a meno che non ci siano, come ci sono, casi di “gens de lettres” stupida».4
La seconda nota sostiene la necessità di affermare la superiorità dell’idea, oltre che con le parole, anche «coi fatti», dandone «dimostrazione ed esempio», «a rischio dell’impopolarità e del dileggio», perché sempre «stiamo confrontandoci» con idee «inferiori», in quanto appoggiate «agli istinti invece che alla ragione, agli appetiti invece che all’intelligenza, al torto e al sopruso invece che al diritto e al rispetto, all’avarizia invece che alla generosità – e così via». Viene chiarito in che cosa consiste il dover avere a che fare con stupidi e fanatici e connotato in chiave dichiaratamente illuminista.5
La conflittualità è un altro tratto presente nell’immagine dello scrittore, non solo in questi passi, ma anche in altri a proposito del rapporto con il potere. In Nero su nero viene tematizzato tale aspetto particolare della più generale concezione negativa, sciasciana, del potere. In una nota del 24 marzo 1970 racconta della scarsa considerazione che i compaesani di un suo amico scrittore, Bonaviri, nutrono per il concittadino. Si chiede Sciascia alla fine se all’origine di ciò vi sia «l’avversione per colui che osa rompere il silenzio». Lo scrittore dice la verità e quindi inevitabilmente attira gli attacchi. Da ciò l’origine degli inevitabili strali che il potere immancabilmente gli lancia. Nella nota, dello stesso giorno, subito successiva, per tematizzare appunto la questione, Sciascia prende spunto da un episodio. Lo storico Isidoro La Lumia rifiutò un buon incarico offertogli dal «regime borbonico» e avrebbe chiesto che non tentassero più di blandirlo, altrimenti sarebbe stato costretto all’esilio. Sciascia commenta: «c’è stato un tempo in cui un intellettuale poteva dire: “Se mi accarezzate me ne vado, se mi maltrattate resto”» e il maltrattamento, secondo il siciliano, era, per quanto grave, meno grave di quelli che egli stesso aveva visto compiere. L’intellettuale deve dunque guardarsi bene dall’avere a che fare col potere, non solo quando esso lo perseguita, ma anche quando gli offre qualcosa per comprarselo.6
Il 12 ottobre 1974, parlando della condizione del «letterato» nel Seicento, gli viene da paragonarla a quella che ha «nei moderni regimi autoritari»: se vuole «uscire dalla dolce segregazione subito entra nella dura, da cui può ritornare alla prima attraverso autocritiche, ritrattazioni e abiure». Il meccanismo degli allettamenti ritorna, ma più spietato. Non era, per Sciascia e per quei tempi, possibile evitare il rapporto tra scrittori e regimi dittatoriali dell’Europa orientale. Il 13 ottobre 1974, parlando di Kundera, il siciliano riconosce la capacità dell’arte di nascere e resistere forte, anche in condizioni di estrema oppressione: «un vero artista, un vero scrittore, riesce sempre a dire quello che vuole»; qualche volta, anzi il potere ottiene l’effetto opposto, proprio perché lo scrittore è costretto: «con più intensità e più durevolmente vengono ad essere rivelati, anche se non gridati, quegli stati di fatto e d’animo, quelle condizioni umane» che si voleva tener nascoste. Il siciliano è sempre accorto ad avvertire i rischi a cui va incontro, nell’Europa orientale come in quella occidentale, uno scrittore che voglia essere libero e che potrebbe illudersi di esserci riuscito senza pagare un sovrappiù di pena inatteso, oltre a quella ingiusta già patita. Solženicyn è stato esiliato, ma «se già non lo sa, si accorgerà quanto sia stato illuso dall’Occidente, come l’Occidente farà presto a consumare il suo destierro [l’esilio]» (15 febbraio 1974).7
Nell’aprile 1978, quindi dopo il rapimento Moro, a seguito delle polemiche sulle presunte responsabilità degli «intellettuali», cioè anche contro di lui, lo scrittore osserva come in realtà gli intellettuali in Italia, «non hanno contato mai nulla», per questo motivo le polemiche sulle loro mancanze sono pretestuose, piacerebbe allo scrittore che gli intellettuali potessero avere una reale influenza, se lo augura, ma così non è.8
Vi sono alcune note di Nero su nero che seguono L’affaire Moro e vanno dall’estate all’autunno del 1978, nelle quali lo scrittore esprime giudizi negativi sui giornali italiani, riconosce la letteratura come strumento per arrivare alla verità e si confronta con Bocca, si scontra con Scalfari.9 Due passi in particolare rilevano qui. Sciascia spiega come concepisce il lavoro di scrittura, come un non lavoro, come vacanza che dà piacere, tratti già trovati: «ogni anno, qui in campagna, scrivere un libro – un piccolo libro – è per me riposo e divertimento: quale ne sia l’oggetto, la materia. Il riposo e il divertimento della scrittura, il piacere di fare un testo».10 Bocca riconosce a Sciascia l’esattezza di un suo precedente giudizio sulle Brigate rosse e quest’ultimo si chiede come mai solo lui, «in un paese in cui tanta carta stampata quotidianamente si muove, tante analisi si fanno e tanti ingegni vi si provano», avesse intuito un dato che gli pareva evidente. «Bocca dice: “per intuito di letterato”. Ma non sono il solo letterato, in Italia». Per poter esercitare un’esatta lettura dei fatti contemporanei sono necessari: «l’indipendenza, l’isolamento, il nessun legame con qualsiasi forma di potere comunque costituito, l’indifferenza ad ogni ricatto economico, ideologico, culturale, sentimentale persino. Quella che una volta, solennemente, si chiamava noncuranza dei beni terreni».11 L’attività scrittoria come piacere, e mai come lavoro, è garanzia di libertà dello scrittore. Egli vede fallire in un’occasione così grave, come il caso Moro, i giornali, quella carta stampata che è il luogo deputato all’espressione degli intellettuali da fine Ottocento in poi; richiama la responsabilità di questa grave mancanza. Scoprendosi l’unico, tra quelli che dovrebbero farlo, a dare una lettura esatta della realtà, illustra quali siano le condizioni necessarie perché ciò avvenga; in poche righe si ritrovano i tratti di indipendenza, già evidenziati nei vari passi precedenti.
Parallelamente, in un passo dell’Affaire Sciascia sostiene che quanto lui e Pasolini avevano scritto – e pareva, durante il caso Moro, esserne prefigurazione – era semplicemente «una sintesi, una tirata di somma», ma esse «nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta» appaiono «profezie; se non addirittura istigazioni». Per questo motivo «uomini politici del potere, o al potere vicini» accusano, per il caso Moro, «gli uomini di lettere (preferibile “uomini di lettere” – di Voltaire e del suo tempo – a “intellettuali”, termine di generica e imprecisa massificazione)».12 Di nuovo torna l’opposizione tra potere e letterati. L’inciso ha uno scopo molto preciso e risponde a un’urgenza. La vicenda di Moro mette in discussione l’attività letteraria sciasciana. Con Todo modo e Il contesto intendeva criticare il potere democristiano, ma dopo il rapimento Moro sembra aver contribuito involontariamente, attraverso quei libri, alla realizzazione di quel delitto. Si ritrova accusato e da solo in un isolamento in cui, come osserva anche in Nero su nero, pare essere l’unico ad aver capito cose lampanti. Sono mancate la riflessione, la critica, che dovrebbero essere la normale attività degli intellettuali. In questa situazione diventa un’ancora di salvezza richiamare esplicitamente il modello al quale da sempre egli si è rifatto: gli illuministi francesi.
L’anno dopo, sollecitato da una domanda di Padovani, ribadisce: «io ho lavorato soltanto quando facevo l’impiegato o il maestro», scrivere è piacere, divertimento, non è lavoro perché non vi è «fatica, sofferenza, dolore», «pena»: «felice vacanza» è partire per la campagna e iniziare a riordinare il materiale per poi scrivere. A seguito della domanda successiva, chiarisce: «con la disciplina che potrei impormi, sarei in grado di scrivere un libro ogni sei mesi, e sarebbe vero allora che non mi divertirei più».13 Rifiuta la scrittura come lavoro organizzato moderno, non vuole sottoporla e sottoporsi a regole di produzione. Quanto dice della scrittura ha a che fare con la sua personale esperienza di vita (il primo passo citato dalle Parrocchie), ma vista la vicinanza di questi ultimi brani all’Affaire e alle note di Nero su nero, è probabile che il rifiuto della scrittura come lavoro sia rafforzato anche dalla cattiva esperienza che ha appena fatto di un tipico luogo della professione intellettuale, che risponde a regole e a scadenze fisse: i giornali, che nel caso Moro, come gli altri organi di informazione, gli paiono completamente uniformi e appiattiti e colpevoli di aver decretato la morte del politico democristiano; tutto ciò potrebbe spiegare l’accusa di «massificazione» che al termine «intellettuali» rivolge.14
Ritroviamo l’immagine dell’intellettuale illuminista, la «gioia», la «leggerezza» anche quando ci si occupa di cose serie, nel saggio Il secolo educatore, a proposito di Diderot; egli «ha inventato una professione: la più libera che si potesse immaginare – e per non averne alcuna», quella dell’intellettuale, ne è nata l’Enciclopedia: «tentativo di dare agli uomini la gioia del proprio lavoro». Emerge anche qui, però, un nemico opposto all’uomo, all’uomo di lettere illuminista francese e ai suoi valori, come nell’Affaire: non viene chiamato «massificazione», ma gli è molto vicino: «la macchina – la meccanizzazione dell’industria è già come il cavallo di Troia, dentro la cittadella dell’Enciclopedia».15
Ribadire nell’Affaire Moro e in seguito l’estraneità del proprio scrivere a una professione regolare e regolata16 è anche una presa di distanza dalla realtà nella quale non ci si riconosce e nella quale non si riconosce un modello di intellettuale illuminista e ottocentesco (Zola e l’affaire Dreyfus, al quale l’opera sciasciana si richiama). Ripetere, anche, che la letteratura è fonte di accesso alla verità assume rilevanza rispetto alla definizione della figura dell’intellettuale sciasciano. Secondo Bauman, il ruolo dell’intellettuale in età moderna è «fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni» e tale autorità è «legittimata dalla conoscenza superiore (oggettiva) alla quale gli intellettuali hanno un accesso più facile rispetto alla parte non intellettuale della società».17 Se l’autorità dell’intellettuale deriva dal sapere, chiarire che il vero sapere è nella letteratura, esclude altre fonti, altre figure di intellettuali non letterati dall’orizzonte autodefinitorio sciasciano.18
Sciascia non solo illustra più volte quale sia la figura dell’intellettuale-scrittore a cui si ispira, ma con la sua opera intende realizzarla. Per esempio, in un volumetto della metà degli anni Ottanta, La strega e il capitano, si ritrovano le caratteristiche del lavoro intellettuale sciasciano. Il libro si occupa del caso (cui si fa riferimento nei Promessi sposi) di un processo per stregoneria a una domestica, Caterina Medici, la quale avrebbe praticato le sua arti magiche ai danni del ricco e nobile padrone di casa, senatore Luigi Melzi. Secondo Sciascia, ella, in realtà amante del senatore, sarebbe stata fatta processare dal figlio di lui, Ludovico, che, a conoscenza della relazione, temeva per l’eredità.
Sciascia desidera che prima che esca in volume, l’opera venga pubblicata a puntate nel «Corriere della Sera». Anche se non si tratta di un caso di cronaca, ma di un fatto giudiziario del Seicento, esso viene dunque trattato come l’Affaire, stralci del quale erano stati pubblicati, prima dell’uscita in volume, nel «Corriere della Sera» e nell’«Espresso».19 Nell’opera si inseriscono comunque riferimenti critici alla realtà italiana del tempo presente (due al pentitismo, uno alla presenza di «professionisti dell’occulto»), ma vi è anche l’affermazione della superiorità conoscitiva della letteratura.20
Infine, nella Strega e il capitano Sciascia trasferisce la punizione del colpevole del reato contro la vita di Caterina all’interno di una realtà letteraria atemporale. Ludovico Melzi sarà vicario di provisione durante i tumulti per il pane, di cui si racconta nei Promessi sposi, una carica, secondo Sciascia, «travagliata in vita dal tumulto di San Martino, in morte dall’attenzione di Alessandro Manzoni». Più avanti Ludovico appare come chi, per interesse economico, ha voluto liberarsi di Caterina, è il maggior responsabile della sua tortura e morte. A questa altezza del testo Sciascia fa un secondo riferimento manzoniano, allo stesso capitolo XIII dei Promessi sposi:
L’ironia sciasciana dei due riferimenti al capitolo è sottile ironia di chi gusta il testo manzoniano come una giusta vendetta riparatrice: l’uomo che ha fatto torturare e ammazzare, senza colpa, Caterina, senza colpa, poi, subisce un processo di piazza con condanna a morte, che sarebbe stata una morte tanto orribile quanto quella di Caterina, bruciata (un vecchio lo vorrebbe inchiodare al battente della porta di casa sua).25 Come immagina, lungo tutto il volumetto, Caterina presa dalla paura e poi dal terrore e dal dolore per la tortura, così Sciascia legge in Manzoni il terrore di Ludovico, ritratto per giunta con ironia. Il secondo riferimento manzoniano si complica, perché costruito su un gioco ripetuto di fantasia scrittoria, come un gioco di intelligenza tra Sciascia e Manzoni. Lo scrittore prova quel divertimento cui spesso ha fatto riferimento. L’operazione di fantasia di Sciascia è la seguente: immagina che Ludovico abbia iniziato a soffrire di quei problemi digestivi (di cui dice Manzoni) anni prima dei tumulti milanesi del romanzo, a causa della preoccupazione per lo stato di salute del padre e per l’eredità. A partire dalle carte del processo, immagina che nei fatti lì raccontati abbiano origine quei mali, frutto anch’essi dell’invenzione, che Manzoni racconta nel romanzo. Poi ipotizza che Manzoni abbia scritto di Ludovico sofferente di stomaco perché in realtà pensava al mal di stomaco del padre, di cui Caterina è accusata di essere la responsabile. Il siciliano attribuisce un meccanismo interpretativo-creativo suo tipico, sia saggistico sia narrativo, a Manzoni: associare situazioni, oggetti e fatti storici diversi, per somiglianza o per più imprevedibili sfagli di memoria. Non c’è più confine tra letteratura e realtà. In questa dimensione Ludovico è condannato in eterno a soffrire, da Manzoni-Sciascia, il mal di stomaco del padre, del quale aveva accusato ingiustamente Caterina, e per il quale ella è morta. Si insiste su Manzoni che borghesianamente “travaglia” Ludovico, travagliare è sinonimo di tormentare, torturare. Sciascia quasi si vendica di lui.26 Secondo lo scrittore, dunque, anche fare giustizia fa parte dei compiti dell’uomo di lettere, con i mezzi che gli sono propri.
L’immagine e la pratica del lavoro intellettuale in Sciascia, lo scrivere, ha notevoli costanti,27 al contatto con la realtà si arricchisce, non sempre in maniera perfettamente coerente al suo interno, ma sempre coerentemente rispetto all’obiettivo dell’impegno morale.
1 L. Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2004, p. 112.
2 L. Sciascia, Nero su nero, in Id., Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2004, pp. 652-653. P. Squillacioti, Note ai testi, in L. Sciascia, Opere, II, Inquisizioni, Memorie, Saggi, I, Inquisizioni e Memorie, Milano, Adelphi, 2014, p. 1394.
3 Id., Nero su nero, cit., p. 695. La nota è del 14 marzo 1973 (Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1395).
4 Sciascia, Nero su nero, cit., p. 734. Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1396. Secondo Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 12, 37, essere intellettuale non è una questione di professione, anzi per essere tale ci si è sempre posti «al di sopra degli interessi settoriali della propria professione o del proprio genere artistico» e si sono fatti «i conti con le questioni globali di verità, giudizio e gusto dell’epoca»; i philosophes francesi in particolare erano «non legati ad alcuna istituzione e liberi da lealtà particolari».
5 Sciascia, Nero su nero, cit., p. 735. Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1396. Il richiamo ai valori pare risuonare i frequenti riferimenti ai valori dei chierici, presenti in J. Benda, Il tradimento dei chierici. Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, prefazione di D. Cadeddu, Torino, Einaudi, 2012; così, la figura su nominata di Antonio Amico assomiglia al chierico bendiano. Sciascia nomina l’opera di Benda, in una replica a Scalfari che lo aveva accusato di aver offerto un esempio di trahison des clercs. Lo scrittore inizia così: «La trahison des clercs. Ma intendeva proprio parlare del libro di Julien Benda, nel suo articolo su “la Repubblica” del 2 agosto, Eugenio Scalfari?», si chiede, in alternativa, se con lo stesso titolo il giornalista ne avesse scritto o stesse per scriverne una «contrapposizione, rifacimento o parodia». Nel corso dell’articolo il siciliano tiene più volte a ribadire di aver sempre seguito la verità: rivendica dunque di essere dalla parte di Benda e rinfaccia invece all’avversario di non esserlo (L. Sciascia, A futura memoria, in Id., Opere 1984-1989, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2002, pp. 886-889). Il racalmutese cita l’autore francese nell’epigrafe del Teatro della memoria, non dall’opera che qui ci interessa, ma da Belphégor.
6 Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 622-623. Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1393. Esempi di indipendenza e amore per la verità, di contro a dei regimi dittatoriali e a dispetto di ideologie o fedi religiose, per Sciascia sono Bernanos e Gide, l’uno con il franchismo, l’altro con l’Unione Sovietica (Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 804-805; qui viene citato un passo di Bernanos, che testimonia il suo amore per la verità, poi ripreso nell’epigrafe di A futura memoria).
7 Id., Nero su nero, cit., pp. 714, 718-719, 757-758. Squillacioti, Note ai testi, cit., pp. 1395-1397. L’impressione che in Europa occidentale, monumentalizzando un poeta, lo si controlli post mortem, e quindi lo si faccia prigioniero, come in Unione Sovietica si fa con i poeti vivi, si affaccia in una nota dell’8 giugno 1978 (Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 806-807, Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1399). Sul dissenso per Sciascia, A. Schembari, Tra dissenso e testimonianza: il segno degli scrittori polacchi nell’opera di Leonardo Sciascia, in G. Traina (a cura di), Il punto sulla scrittura di Leonardo Sciascia, I. Esordi, documenti, immagini, nuove prospettive metodologiche, in I cantieri dell’Italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Padova, 10-13 settembre 2014, a cura di G. Baldassarri, V. Di Iasio, G. Ferroni, E. Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016
8 Sciascia, Nero su nero, cit., p. 793, Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1392 nota 2.
9 Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 814-815, 818, 822-823, 826-830, 832-836. Squillacioti, Note ai testi, cit., pp. 1399-1401.
10 Sciascia, Nero su nero, cit., p. 827.
11 Ivi, pp. 833-834. Benda, Il tradimento dei chierici, cit., p. 175, sostiene che tradizionalmente, dai Greci in poi, i pensatori considerano l’attività intellettuale positiva «prescindendo da qualsiasi attenzione ai vantaggi che può procurare». E.W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, 2014, traccia un profilo di intellettuale indipendente, avvicinabile alla figura dell’esiliato, dell’emarginato, del dilettante, che appare consentaneo al sentire sciasciano. J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, Firenze, Firenze University Press, 2012, sulla figura di Sciascia come intellettuale è forse troppo critico: ne riconosce l’importanza per la storia degli intellettuali italiani del ventesimo secolo, ma tende a ridimensionarne alcuni tratti.
12 L. Sciascia, L’affaire Moro, in Id., Opere 1971-1983, cit., pp. 479-480. Secondo R. Castelli, «Contradisse e si contraddisse». Le solitudini di Leonardo Sciascia, Firenze, Cesati, 2016, p. 14, la definizione di intellettuale deve risultare a Sciascia «segnata da una sostanziale indistinzione che finisce con l’accomunare figure eterogenee, legate tra loro da un malinteso senso di compromissione con la realtà».
13 L. Sciascia, La Sicilia come metafora [1979], Milano, Mondadori, 1989, pp. 78-80.
14 Ad esempio si veda Id., L’affaire Moro, cit., p. 506. Forse Sciascia si confronta consciamente, ovviamente in una prospettiva moralistica, come sempre, e cioè nei termini di conseguenze sulla vita o la morte di una persona, anche con gli effetti di un fenomeno complesso che già era stato osservato per esempio da A. Gramsci, in Quaderni dal carcere, III, Quaderno 21, Torino, Einaudi, 2014, p. 2133, il fatto che «nel mondo moderno […] la razionalizzazione coercitiva dell’esistenza colpisce sempre più le classi medie e intellettuali, in una misura inaudita». Sciascia già nei primi anni Cinquanta cita Gramsci, a proposito di Pirandello, e lo dice «l’uomo più libero […] nell’Italia del fascismo […] nella più ampia e sconfinata libertà intellettuale» (L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, in Id., Opere 1984-1989, cit., pp. 1028-1029).
15 Id., Il secolo educatore, in Id., Cruciverba, ora in Id., Opere 1971-1983, cit., pp. 1015-1016. L’opposizione tra illuminismo (invenzione del diritto, delle regole, delle proporzioni, delle simmetrie, delle buone maniere) e uomo odierno, assenza di gioia, scienza pericolosa per la vita, crescita di bambini come in pollaio, viene sviluppata poi in Id., Il cavaliere e la morte, in Id., Opere 1984-1989, cit., pp. 460-461, romanzo nel quale i giornalisti e i giornali fanno una pessima figura.
16 A proposito dei fatti minimi da indagare, parla di «qualcosa di simile alla vacanza», «riposo e divertimento», «un giuoco», con «spesso […] un senso di puntiglio» e «qualche volta […] una sorta di pietà», Id., Mata Hari a Palermo, in Id., Cronachette, ora in Id., Opere 1984-1989, cit., p. 150. Il testo appare singolarmente nel 1972, è incluso poi con gli altri in volume nel 1985. Il piacere come origine di Cronachette è riaffermato da Sciascia in un’intervista francese nel 1987 (Squillacioti, Note ai testi, cit., pp. 1356, 1346).
17 Bauman, La decadenza degli intellettuali, cit., p. 15.
18 Secondo B. Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 127, 131, nell’Affaire Moro Sciascia pone «il primato assoluto, aprioristico, della parola letteraria intorno a un tema che letterario non è» e opta per «un “realismo” antivolterriano, estraneo a Bayle e Diderot».
19 Squillacioti, Note ai testi, cit., pp. 1364-1365, 1327 note 1 e 2.
20 L. Sciascia, La strega e il capitano, in Id., Opere 1984-1989, cit., pp. 213, 251, 215, 207. Vi è anche un riferimento alla contemporanea grande diffusione, non apprezzata dall’autore, del termine «professionalità»: «chi ama questa parola oggi in moda […] se la tenga anche per la stregoneria di ieri e di oggi». L’autore che ama il dilettantismo (anche per la letteratura) perché in esso vi è il piacere, stigmatizza la mania della professionalità, ivi, p. 241.
21 Ivi, pp. 206, 235.
22 A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di S. S. Nigro, Milano, Mondadori, 2002, p. 248.
23 Ivi, p. 254.
24 Ivi, pp. 266-267.
25 Ivi, pp. 255-256.
26 Sciascia reinventa anche Manzoni, egli diventa un personaggio d’invenzione proprio come lo sono gli scrittori dei racconti e delle Inquisiciones di Borges. Ce lo assicura l’attenzione che il siciliano ha dedicato al capitolo XIII dei Promessi sposi tra gli anni Settanta e Ottanta. In una recensione a un volume (L. Sciascia, Manzoni e l’assassinio del Prina, in «Corriere del Ticino», 8 giugno 1974, ora in Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, a cura di R. Martinoni, Firenze, Olschki, 2011, pp. 118-119) Sciascia rileva che nell’episodio della scampata morte di Ludovico si rifletterebbero i fatti milanesi della morte per linciaggio del ministro napoleonico delle finanze Prina, nel 1814, del quale lo scrittore fu testimone. Egli avrebbe poi provato rimorso per quella morte. Di ciò sarebbe prova, prima, la versione più seria, dei fatti occorsi a Ludovico Melzi, scritta nel Fermo e Lucia, e poi, trascorsi parecchi anni dal 1814, la versione più ironica, più distaccata degli stessi fatti del Seicento, nei Promessi sposi. Stessa tesi è poi sostenuta in L. Sciascia, Il capitolo XIII. Manzoni e il linciaggio del Prina, in Id., Opere 1984-1989, cit., pp. 929-939, comparso parzialmente in italiano nel 1985, poi inserito intero nella versione francese di Cronachette, nel 1986 (Squillacioti, Note ai testi, cit., p. 1349). La cronachetta in questione è all’incirca contemporanea alla Strega e il capitano, Sciascia, però, non cade in contraddizione scrivendo i due testi. Nel secondo, infatti, compie un’operazione non filologica e di studio, per questo l’ironia manzoniana su Ludovico diventa consapevolmente altro, nella finzione. M. Onofri, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 230, 241, per la concezione della letteratura.
27 A margine, la stragrande maggioranza dei personaggi sciasciani non scrive o non svolge un’attività artistica come professione principale, per vivere: l’abate Vella in un modo del tutto particolare, il pittore di Todo modo, Cusan, Galano e Nocio del Contesto sono eccezioni.