Dovuto a Sereni,
dovuto a Fortini
Una testimonianza
Andrea Gibellini

Cosa mi spinge di nuovo ancora a parlare di Vittorio Sereni della sua poesia e di ritornare su suoi luoghi, di certo le risorse della sua poesia per me non sono esaurite. Ritornano proprio a vampate, c’è la voglia di stare con la sua poesia – e di ascoltarlo: voce parlante viva e vera –, di una poesia che non smette di interrogarci e di destare meraviglia. Dai suoi luoghi di vacanza si ritorna pensando all’estate da lui trascorse a Bocca di Magra. Inevitabile accostare al suo nome quello di Franco Fortini, che da Fiumaretta, sull’altra sponda del fiume, nel corso degli anni si era costruito il suo eremo a Montemarcello sopra alla Tellaro di Attilio Bertolucci, altro luogo eletto di vacanza. Rimane intatta in Sereni la sua inesauribile integrità etica come la sua musicale bellezza lirica. Mai mi sarei aspettato di ritrovare un’energia poetica così elegante, così autenticamente esatta, nel rileggere dopo anni Frontiera. Non parlo tanto dei molti suoi versi che risuonano ancora adesso, ma del suo modo di scrivere poesia. Sereni ha la capacità di armonizzare in intensità poetica situazioni drammatiche dovute all’abbandono di un attimo rimasto impigliato nella memoria. Il suo bisogno di renderlo vivo in poesia lo fa diventare un momento unico, luogo ammissibile, varco di luce, nel suo essere evento essenziale. Sereni ha la capacità stilistica di non estenuare liricamente e musicalmente in troppa melodia quella cosa, evento, fenomeno, che ha scavato dentro lui nel corso di anni. Il suo modo di fare poesia ce lo rende ancora oggi compagno di strada. Mi interessa ancora ripensare la poesia di Sereni, perché nella sua poesia anche se per poco, anche se appesa a un filo, la vita ancora tiene, resiste, non è svaporata nell’incanto, dalla seduzione, della poesia, le coincidenze con la realtà resistono. Insomma, la poesia di Sereni è un fantasma che ritorna, sempre nelle stesse fattezze poetiche, sempre con la stessa intensità. Intensità che ritrovo nella poesia e nella figura intellettuale di Fortini. E non sto parlando del sentimento poetico ma di tensioni che aspirano alla poesia, a un nuovo dire delle cose che la poesia per sua intima natura richiede. La poesia è possibile ma non è data una volta per sempre, evocando un titolo di Fortini. La poesia è possibile quando è fatta per concentrazione e non per dilatazione dei suoi temi. Si cerca la poesia in una ricerca di costruzione se si vuole ossessiva degli emblemi di natura e per natura resistenti al fluire alternato, spasmodico, degli eventi legati alla storia. Di una storia che non sia soltanto cronaca. Ma che la cronaca possa trasmettere l’impulso della storia. Il porcospino di Montale che si abbevera ad un filo di pietà ha un valore simbolico quanto L’animale di Fortini, tra le sue poesie più memorabili. Nella poesia di Fortini c’è un che di spettrale, di vitalmente non risolto, lo stile non smaterializza nella composizione un’energia che è fuoco della materia poetica. La circostanza dove è nata la poesia non viene annullata. La scrittura nasce dall’effetto minaccioso della pressione storica che la poesia non equilibra, armonizza, mai fino in fondo.

Ho amato di Fortini Paesaggio con serpente, che uscì alla metà degli anni Ottanta, con in copertina la bella immagine neoclassica e allegorica di un quadro di Poussin. Poesia razionale che scava dentro a una ferita irrazionale come di sangue psichico. La sua lingua poetica riesce a distanziarsi dalla propria mente sollecitando un discorso poetico dalle venature oniriche. I due amici Sereni e Fortini sul luogo di vacanza, Bocca di Magra, Fiumaretta, intrapresero l’inizio del loro legame poetico e intellettuale. Un giorno sono andato a far visita alle ceneri di Fortini e della moglie Ruth Leiser nel cimitero di Montemarcello. Luogo intimo e aperto al vento, al boscoso verde che impera là in alto sovrastando il mare ligure. Lassù, in quell’isolamento finale, Fortini ha meditato sulle sue idee, ha di nuovo combattuto. Se c’è una cosa che risplende tuttora nei versi sia di Sereni e Fortini, pur tanto diversi fra loro, è la loro fierezza e franchezza direi di esserci stati, di non aver svenduto la propria interiorità. Sono passati tanti anni dal mio primo incontro con la loro poesia. Si è cresciuti pensando a loro, si è scritto pensando a loro, si sono viste e riviste le loro immagini, e proprio come in una sequenza d’immagini il loro ricordo poetico non ci ha mai abbandonato. Se il nostro Novecento è stato un rinascimento poetico lo si deve alla loro poesia. Alla loro continua, di Sereni, di Fortini (ma almeno si aggiungano oltre a Montale e Bertolucci: Luzi, Zanzotto, Giudici, Pasolini, Rosselli, Raboni) inesausta riflessione sul proprio fare poetico. Dovrebbe essere sempre una premessa per chi scrive questo atteggiamento. Se questo nostro “rinascimento novecentesco” deve qualcosa alla parola del poeta, sta proprio nel non lasciarsi sfuggire un’inquisitoria analisi sul proprio fare poesia. Che in Fortini raggiunge il proprio massimo furore inquisitorio. Sereni non era da meno. Più portato verso sé e alle estreme conseguenze della sua poesia. Non penso che un atteggiamento di questo tipo sia fuori luogo. È nel fare poesia, nel suo essere e si potrebbe aggiungere nella sua verità d’essere un fatto artistico non transitorio. La poesia dovrebbe essere come un albero dalle radici forti e lunghe e che sappia fronteggiare il tempo avverso, come gli anni lunghi di non ascolto, di protratto silenzio. Attraverso la scrittura ne intravediamo le arborescenze, la natura che ce lo rende visibile. Ma tutto quello che è forte e così invisibile sta sotto nelle fibre delle sue radici; e queste invisibili e strenue radici sono per questi poeti un carattere fondativo, una cosa che doveva, come per natura, stare nella poesia.

Ecco che allora Sereni e Fortini s’incontrano in questo luogo del sentire prediletto pur nelle rispettive diversità di vedute: in Sereni la poesia si costruisce attraverso esistenziali tremori, atmosfere, luoghi dapprima interrogati e poi conosciuti, si fa, ripetiamo, pure se la parola lascia ambiguità, in bellezze armoniche del verso, in musicalità, in tonalità che vogliono rinsaldare una realtà interiore andata distrutta. Sereni riattiva fenomeni interiori con la poesia sollecitando gli oggetti, i significati della natura, il suo sguardo. Sereni introduce nella poesia un tono comunicativo dalle sprezzature liriche. Lo possiamo definire una musica scandita dal tempo esistenziale; di un canto dentro una memoria invasa da pensieri in negativo, dove si può ancora scrivere con il bianco su di uno sfondo nero. Fortini appare a prima vista più diretto: esemplifica una situazione di riflessione morale, rivela in poesia un ricordo attraverso documenti che lo hanno ferito. In Fortini la poesia è un fatto del passato che ha una difficile congiunzione con la memoria. Tra presente e memoria pare esistere un’incolmabile diversità. La ragione (che penetra un canto possibile della poesia) viene alla luce in Fortini per una mancanza di fiducia nella certezza lirica. Fortini con le eccellenti traduzioni di Brecht (a cui collaborò la moglie Ruth) si appropria di una lingua non sua e di una ferma e direi ferrea cantabilità delle cose che così devono stare dentro un componimento che non deve tradire. Gli esiti della poesia non devono tradire gli esiti di un rispecchiamento che si richiama ai valori di un vissuto. Ma in Fortini ci deve essere stato qualcosa di più, molto di più, direi di oltre, che un ragionare per poesia. Attitudine classica del verso, cadenza metrica, studio acuto delle cose, non danno la riuscita di una poesia. Ci sono in Fortini ferite aperte, sanguinanti, malgrado l’autocontrollo formale. Lo stesso riattraversare la poesia di Saba riscopre uno stato di innocenza mai veramente perduto. C’è una corporalità che si ravviva, che tocca le corde di un sapere appassionato. Fortini quando parla di poesia, lo fa sempre in maniera mai astratta. Lo stile come la lingua del poeta entrano nel vivo di una preda storica. Fortini ha una sua sorta di empirismo anglosassone nella scrittura critica, le sue ragioni dialettiche sono ragioni formali agite dentro al vissuto (all’umanità) del poeta. La poesia non vive di una vita propria come un pezzo archeologico, una cosa staccatasi dalla vita reale. Per Fortini non esiste un’autobiografia immaginaria, esiste la poesia con la vita degli uomini; soggetto e oggetto desiderano un tipo di unità esistenziale tanto più drammatica quanto profonda. La realtà, per Sereni, per Fortini affrontata in modi differenti, è il vero specchio di ritorno della poesia, e qui due poeti non possono che confrontarsi. Il loro pensare poesia si definisce in un agire prima dell’evento della poesia stessa. È una riflessione continua, un corpo a corpo, con ciò che è la poesia in tutte le sue infinite situazioni può vivere.

Sul posto di vacanza, Fortini e Sereni, finalmente s’incontrano. Sono estati, lo raccontano alcune fotografie rimaste e le molte lettere di cui si attende una completa pubblicazione, dove i due amici-poeti trascorrono il tempo a dialogare sulla foce del fiume. E qui dove il fiume incontra il mare – sarà nostalgia, sarà il ricordo di versi che riappaiono nella memoria, sarà quello che si vuole –, i loro nomi e la loro poesia ritornano, con una integrità umana non spettrale e ciò illude: che la poesia, la loro poesia, lingua di terra sempre tutta da interrogare, sempre tutta scoprire, possa rimanere immersa e persistere come dentro a una felicità terrena.