Marco Santagata,
Le donne di Dante
Roberto Barzanti

Marco Santagata, Le donne di Dante, Bologna, il Mulino, 2021.

Con un ambivalente titolo che può designare o un catalogo di avventure erotiche da smanioso dongiovanni o un défilé di anime nell’oltremondo, questo libro di Marco Santagata si sfoglia con piacevole curiosità e pungente tristezza. È l’opera ultima dell’autorevole esegeta che ci ha lasciato lo scorso novembre: impareggiabile nel fondere chiarezza divulgativa e acribia filologica. Che avrà scritto di nuovo – vien da chiedersi – su una fabula dalla quale tante volte ha attinto e come avrà narrato Dante «dalla parte di lei», cioè ripercorrendone vita e opere da un’angolazione muliebre e soffermandosi su un affollato gineceo, reale e fantasticato? Si sa che l’insigne e affabile docente si è sempre sforzato di mettere in luce quanto delle occasioni e delle date evocate dal figlio del cambiavalute e commerciante al dettaglio Alighiero e di Bella degli Abati contenga di vero e documentabile. E anche in questa prova non ignora le dinamiche famigliari e i momenti topici del frastagliato cammino dalla terra al cielo. L’accanita numerologia che Dante sfoggia non è data come pura invenzione. Che il primo fatale incontro con Bice – ancora ben lontana dal diventare Beatrice – avvenga nel 1274, quando lui, ragazzo, sta compiendo il suo nono anno e lei ne è sulla soglia sembra verosimile. Del pari il successivo incontro del 1283, quando i due avevano diciotto anni. I dubbi sono leciti, ma non suffragabili con certificate smentite. Quando Dante assicura che costei era in grado di miracol mostrare non si sbilanciava in iperboli: era riuscita a suscitare amore anche in chi non lo possedeva in potenza, creandolo dal nulla: ciò che attesta facoltà divine e le dà un’aura cristologica. E poi le patologie che angustiavano Dante non erano forse frutto di pura fantasia: le crisi epilettiche scuotevano l’innamorato e provocavano cadute a corpo morto, causate da un’«oppilazione», dall’afflusso di un eccesso di umori che avrebbero occluso ventricoli cerebrali. Il disturbo ottico rubricabile come “astenopia accomodativa” dovuta a esagerazione di letture fu a lungo fastidioso e rese Dante devoto di santa Lucia. La tendenza a visioni che lo sollevavano in fantasmagorici sopramondi erano all’ordine del giorno… e della notte. In questa condizione lui fu l’unico della sua famiglia di solide tradizioni guelfe a viver di rendite non abbondanti, malgrado l’orgoglio con cui si incluse in una nobiltà di sangue dapprima disdegnata.

Insomma Dante è un tipo fuori dal comune, stizzoso e anticonformista al limite dell’eresia. Lo si è imbrigliato in un ferreo tomismo attribuendogli una sensibilità teologica di segno paolino, ma Beatrice ascesa all’agostiniana «civitas Dei» lo rassicura dolcemente: «e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano» (Purg. XXXII 101-102): assumerà, dunque, l’illimitata cittadinanza della Roma celeste, e ne godrà in barba alle prescrizioni impartite da Paolo a Timoteo di non permettere alle donne di insegnare né di dominare l’uomo. Dovevano starsene in silenzio. Invece l’Alighieri con i sodali del club esclusivo degli stilnovisti aveva un debole per la femminilità e non era per niente d’accordo con il suo primo amico, il vanesio Guido Cavalcanti, che riteneva la passione erotica spossante e travolgente, non un angelico soccorso.

La Commedia celebra la conquista della salvezza dopo un lungo viaggio dall’orrore alla luce: perché non identificarla con l’opera promessa a chiusa della Vita Nova?

Le schermature che Dante sparge nelle tre Cantiche a proposito di vicende che hanno a protagoniste donne spiritualizzate son di tale intrigante seduzione che non si cessa mai di porsi domande per decifrane i fondamenti di verità, considerandole figure del futuro che le attende oltre il parco tratto della loro minacciata esistenza. Quanto più ellittici e accennati sono i riferimenti alle sventure subite tanto più il lettore è sospinto a sfrenarsi in romanzeschi scenari. Francesca da Rimini segnala con rattristato candore l’inganno che si celava nelle teorie dell’amor cortese e scarica sui passi fraintesi di un libro galeotto, il diffusissimo Lancelot, la sua irrimediabile colpa: «Amor condusse noi ad una morte» (Inf. V 106). «La storia – annota Santagata – è raccontata in prima persona da Francesca, la sola delle due a anime a essere chiamata per nome». La ferita che tuttora offende la concentra in un’intimità che non le permette di esplicitare il nome dell’assassino. Dante giudice compassionevole non trova però ragioni d’indulgenza per chi è responsabile di un incestuoso adulterio. Il sottinteso teorico corrobora il tragico epilogo, non rimuove la pietas del Dante personaggio, chiamato a rivedere le giovanili illusioni.

Piccarda Donati, cugina di terzo grado di Gemma, abita beata il cielo della luna. È il perfetto contrappeso di Francesca. Il fratello Corso l’aveva obbligata a contrarre un matrimonio per scopi politici e ne aveva ordito il rapimento dal convento delle Clarisse. Aveva subito anche lei violenza e Dante la premia quale eccezione di docile bontà di una malvagia dinastia. Sul sofferto tramonto della sua esistenza cala il sipario con una pudica frase tronca, non dissimile da quella che Manzoni usa per Gertrude: «Uomini poi, a mal più che a ben usi, / fuor mi rapiron de la dolce chiostra: / Iddio si sa qual poi mia vita fusi» (Par. III 106-108).

Le armi o la diplomazia del potere politico spesso irrompono nella vita sottomessa delle eroine di Dante, vittime di un cinismo che non bada a ostacoli. La lista dei femminicidi non è esigua, né marginale. Talune sono partecipi dei sentimenti che i conflitti tra le città scatenano. È il caso di Sapia, che gioisce per la sconfitta dei concittadini presso Colle, incurante che il nipote Provenzano sia stato decapitato e la sua testa infilata su una picca dai guelfi vittoriosi qual macabro trofeo di guerra. Altre sono lambite dalle fiamme di duri scontri e cadono colpite in battaglia da un cieco furore o eliminate dal marito per punire tradimenti attribuiti da oblique calunnie. Spicca tra queste Pia de’ Tolomei, che deve la sua inclusione nella nobile schiatta ad una chiosa del commento di Pietro, figlio di Dante. Si è quasi sicuri che fu in realtà figlia di Ranuccio Malavolti. Ma ciò che importa, sia stata una Tolomei o una Malavolti, è il mistero che avvolge le circostanze della sua morte. Dante la incontra nell’Antipurgatorio, tra chi si era ravveduto in extremis, e ne ascolta brevi parole, quasi un sussurro, che condensano fulmineamente una succinta autobiografia. La donna si raccomanda di essere rammentata con un flebile desiderativo «ricorditi». Di lei non si sa nulla: ennesima verifica della regola che quanto meno esteso e dettagliato è il testo della Commedia tanto più prolungate e ingegnose sono le ipotesi che ne scaturiscono. Amore e guerra sono lo sfondo di una fine per consunzione. Forse il marito Nello dei Pannocchieschi ne decreta l’uccisione dopo averla segregata nel castello della Pietra, in Maremma, per poter sposare l’amante Margherita Aldobrandeschi, forse perché istigato da un Ghino, suo amico e lontano parente, che aveva messo in giro un calunnioso gossip sull’avvenente moglie. Altre ancora sono le storie coniate per moltiplicare i sospetti o rimuovere le dicerie. Da questo intersecarsi di chiacchiere e di calcoli è stata attratta una schiera di pittori – in primo piano i preraffaelliti con Dante Gabriel Rossetti –, scrittrici – uscì nel 1932 il giovanile atto unico di Marguerite Yourcenar Il dialogo nella palude –, musicisti e cantanti: da Gaetano Donizetti a Azio Corghi, a Gianna Nannini, che in collaborazione con la cara Pia Pera preparò un’opera rock mai rappresentata. La sua gridata invocazione, «dolente Pia, innocente e prigioniera», echeggia l’addio confidato a Dante: «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Purg. V 134), «stretta epigrafe tombale» (E. Sanguineti) di una gotica Spoon River. L’andamento a chiasmo della seconda parte dell’endecasillabo specularmente rovescia l’attacco, ambientato nella città che aveva plasmato delicati sentimenti e vigorosi affetti. Già il minimo florilegio raccolto evidenzia come le informazioni reperite debbano esser poste al servizio della conoscenza poetica. Ed è una straordinaria lezione, destinata a restare.