Velio Abati,
Fughe
Maria Vittoria De Filippis

Velio Abati, Fughe, San Cesario di Lecce, Manni, 2020.

L’ultima opera di Abati, Fughe, si divide in due sezioni: Voci e Discanto. Si tratta di prose composte in vari anni, in un arco di tempo in parte coincidente con la scrittura del romanzo Domani. Un libro, va detto subito, ricco di umanità ferita, ma non per questo priva di speranze. Il titolo, Fughe, potrebbe sorprendere, dal momento che Abati non rifugge certo dalle proprie responsabilità. Si possono, allora, azzardare due interpretazioni per tentare di spiegarlo. La prima rinvia ai ritratti inseriti in Voci, in cui persone realmente esistite si trasformano in personaggi, emblemi, controfigure, diventando appunto entità sfuggenti o quasi scomparse: «quelli che per un attimo avevamo pensato di raggiungere, spalla a spalla, erano d’un tratto sbalzati via, per sempre imprendibili» (p. 15). La seconda interpretazione, invece, si riallaccia al tema del passato, già affrontato nel romanzo, e in particolare in questa risposta data da Abati a un suo lettore:

Conclusivamente mi ringrazi di aver dato vita, dici, a un passato di cui sentirsi orgogliosi. Come ho ampiamente affermato, non so pronunciarmi sul valore di quel passato, ossia di Domani, ma certo sono convinto che il mondo storico a cui esso rimanda non è affatto passato. Un’assai ampia dimensione del dominio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo di quel mondo vive e fruttifica fra noi. Un’altra vasta strutturazione storica, specifica questa della società italiana, è più che mai attiva nelle sofferenze odierne, nelle sue violente coartazioni. Un insieme di modi del vivere quotidiano, dei rapporti tra le persone travolti dall’industrializzazione novecentesca ritornano oggi non come schegge archeologiche, ma come potenzialità soppresse, enzimi vitali; ce lo dicono menti attente, giovani intraprendenti e non rassegnati. C’è infine tutta la dimensione del vivere con le stagioni, con le piante, con gli animali, che il prometeismo industriale supponeva d’aver cancellato e che invece torna nell’incubo delle nostre terre franose, dei disgeli oceanici. Voglio dire che dobbiamo sottrarci all’illusione o all’incubo che la storia sia solo un grande cimitero, che il passato sia solo un ricordo: non è la vita dell’individuo la misura del tempo, esattamente come la società umana non è una somma d’individui, per quanto il cinismo sprezzante del neoliberismo ce lo inculchi da quarant’anni. Si deve dunque sapere che il domani sperato nella nostra mente riaccende sempre dal passato energie che credevamo ormai spente o che ignoravamo del tutto.

Questa sorgente di forza è nostra.1

Sebbene, come dicevo, sia un libro di prose, è un testo davvero ricco di poesia, soprattutto nella prima parte, che ospita descrizioni sia di luoghi naturali, sia di persone conosciute a fondo o soltanto incontrate (Ruth, Gabrio, Raffaela). Parallelamente, viene sin da subito tracciata una certa filosofia della Storia: si allude ai tempi passati; si raccontano entusiasmi, sconfitte, separazioni, scissioni politiche; si scrive del «fervore dei giorni» e dell’«ansia di costruire il mondo» (Fantón, p. 9). In C’era una volta una piccola città, poi, si parla dell’oggi attraverso un testo surreale, fantastico, ambientato in una città abitata dagli Alti e dai Bassi.

E proprio al nostro presente è dedicata la seconda parte. In Discanto, infatti, emergono più chiaramente gli interessi, anzi le passioni di Velio Abati. La principale, che racchiude in sé tutte le altre, è la scuola: l’insegnamento, per lui, è un momento di confronto e di dialogo. Insegnare significa condividere dei saperi, ma anche trasmettere fiducia in un domani di cui, tuttavia, non è ancora dato scorgere i contorni, in modo che – come recita L’Internazionale di Fortini – «nelle scuole» non venga più insegnata «la morale di chi comanda»: «dov’era il no faremo il sì». Non stupisce, quindi, che l’autore abbia affidato la presentazione di Fughe ad alcuni suoi ex studenti. In tale occasione, svoltasi venerdì 27 novembre 2020 nell’ambito dei “Colloqui del Tonale”, egli ha scritto:

Ci è sembrato utile affidare la presentazione a un gruppo di giovani, miei ex allievi di anni diversi, che liberamente leggeranno, commenteranno, dialogheranno con l’autore e con chi sarà in linea su una piattaforma messa a disposizione dalla casa editrice. Non ci sfugge, anzi è voluto il significato anche simbolico, augurante dell’occasione.2

Un modo per dire addio all’insegnamento, proseguendo la propria funzione pedagogica al di fuori dalle aule scolastiche.

Per precisare meglio i vari atteggiamenti dell’autore nei confronti della politica («Fuggita la politica come professione, coltivavo la politicità della vita comune», Attilio, p. 23), è utile tornare a soffermarci sulla prima parte del libro (oltre che sulla biografia di Abati). Lasciato alle spalle l’attivismo politico giovanile, nell’oggi l’engagement si è trasformato in impegno civile, culturale ed educativo, quindi in impegno politico in un senso più ampio. Particolarmente importante, perciò, è l’attenzione sempre rivolta ai propri interlocutori, si tratti di allievi oppure di lettori. Ecco, allora, cosa scrive Velio Abati a proposito dell’atto di lettura e della qualità dell’ascolto (Lorenzo, pp. 67-68):

Come e più di chi ascolta in una conversazione, il lettore non è lo specchio del testo. Leggere non è premere il tasto di una registrazione: è una collaborazione, il suo frutto è il significato di volta in volta assunto dal testo […]. L’ascolto in una conversazione, o in quei veri e propri comizi che nell’odierna comunicazione sociale si mascherano da conversazioni, è facile solo in apparenza. Le difficoltà provengono dalla mancata chiarezza – per ignoranza, inganno o autoinganno – nella risposta alle due fondamentali domande preliminari: chi parla? chi ascolta? L’importanza negativa della non consapevolezza di sé nella collaborazione al senso non va sottovalutata, proprio per la rilevanza del sottaciuto e dell’indicibile nella produzione di significato. Il suo peso si rivela meglio se consideriamo l’azione dell’imbonimento demagogico.

E in un altro passo (Marusca, p. 105):

I libri sono suolo fertile, gli organismi vi stratificano, nei decenni, nei millenni. Chi legge incontra, diceva un mio maestro con qualche enfasi, i chiodi di chi in precedenza ha scalato quella pagina. Ho detto «libri» con automatismo di casta, ma è l’opera dell’uomo, perché è lui che sempre vive in relazione e sempre la trasforma.

Velio non mostra rimpianti o nostalgia verso l’impegno giovanile, ma nemmeno rinnega la forza e gli entusiasmi di quel tempo, rievocandone episodi e momenti salienti. Le sue parole testimoniano della voglia di cambiare il mondo e della lotta per realizzazione questa aspirazione; allo stesso tempo, però, tracciano lucidamente il progressivo venir meno di una simile aspettativa. Non c’è astio o rancore verso le persone con le quali si è interrotto il percorso: il tono della narrazione è oggettivo. Eppure, la cura che oggi l’insegnante mette nel «formare alla speranza» (La cartella, p. 82), nel dare e trasferire fiducia, è la dimostrazione della sua persistente fede nella possibilità – nonostante tutto – di un futuro migliore (p.83):

È in tale immobilità che germina la disperazione. Non c’è, in se stessi, nell’hic et nunc possibilità di lume. Questo è l’acheronte per chi si trovi oggi ad apprendere e a insegnare. Perché la speranza, se è una necessità primaria, non vive senza alimento. Il sapere di cui il padre parla alla figlia, nelle circostanze date, viene solo da fuori; meglio: dai tempi lunghi.

E ancora (p. 87):

Sarà per la fiducia nella vocazione dell’uomo al bene, di cui parlava Brecht, o semplicemente per il necesse della speranza, che mi capita di ricordare l’insegnamento del saggio taoista a chi gli chiedeva come inventare l’oro: oggi comprendo che la cosa più difficile, ma quella decisiva, non è la meta, bensì la direzione. Oggi comprendo la conseguenza suprema dell’umana condizione: nemo enim nostrum sibi vivit, et nemo sibi moritur. So e scopro ad ogni passo e insegno e comprovo che il futuro è la nostra realtà, è la verità del nostro presente, il senso del nostro passato; che quel futuro è intimamente, appassionatamente di parte. Non qualunque parte. Solo quella degli sconfitti, solo la parte di noi debole e oppressa detiene la ragione e la forza del futuro comune. Più il tempo della mia vita scema, più insegno la passione, la fatica e la forza dei tempi lunghi.

Non si può parlare di questo libro, e più in generale dell’intera opera di Abati (dal romanzo fino ai versi più recenti), senza tornare sulla qualità della sua scrittura, evidente anzitutto nelle descrizioni paesaggistiche (Gabrio, p. 39; Attilio, p. 20):

Verso sud est la sequenza delle colline si vela gradatamente fino al culmine, lontano, dell’Amiata. Poco più in alto, il sole si è appena levato. Senti intenso il maggio negli orti, esplode sui fiori di sangue del croco. L’assalto definitivo che lo squassa interminabile invade il terrazzo attonito, urla nell’aria vuota del piazzale. Controllo. La porta era stata chiusa.

Sulle panche, nel riparo dell’ombra breve del podere, arriva tenue la risacca del maestrale che più avanti, giungendo dalle nostre spalle, agita le foglie del pioppo e le cime spente degli olivi. Si attende qualche refrigerio dalle folate intermittenti, che soffiano sullo stridio assiduo delle cicale. I due amici si ritrovano a intervalli. Mangiano un gelato. Uno mi parla del Canada, della maggiore possibilità di lavoro, con parole che mi spingono lontano, oltre l’angoscia che ha inghiottito i giorni dopo gli studi.

Tale abilità emerge pure nei ritratti contenuti in Voci, dove l’autore può anche scegliere di giustapporre momenti diversi, episodi distanti nello spazio e nel tempo, garantendone l’unità proprio grazie al riferimento a un’unica persona. Tra i molti esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno particolarmente significativo per l’importanza della figura che vi è ricordata (Ruth, pp. 28-29):

Fu così che conobbi Ruth.

Arrivando l’avevamo trovata che terminava di bagnare il tratto di pineta intorno casa, spostando un lungo tubo di gomma avvitato alla cannella. Ci era venuta incontro energica, ma affaticata, con un gran cappello di paglia. Aveva voluto darci dei libri scegliendoli dalle scaffalature. Poi eravamo andati con la macchina in un piccolo cimitero sperso nel verde. Il loculo era ancora senza pietra, con il nome inciso con mano incerta direttamente sul cemento grigio quand’era ancora fresco.

Avevamo ascoltato in silenzio dalla sua voce sobria gli strazi, la notizia fugace della terribile aggressione che anche il proprio fisico aveva subito, il rimpianto dei bagni di mare, le gioie delle amiche, le preoccupazioni e le fatiche della casa: il pino spezzato dal vento, la pulizia dei rami caduti, la minaccia del fuoco. Nell’indugio della partenza ci raccomandava la prudenza della guida per il non breve viaggio di ritorno, giù, lungo la strada parallela al mare. Poi d’improvviso ci disse d’attendere. La vedemmo ritornare con qualche pera colto dall’albero, recandocela in un piccolo cestino di vimini, ovale. «Per il viaggio si ha sempre bisogno di qualcosa».

Avevamo chiuso il portoncino e poi la porta interna con l’eco interiore d’affetto e trepidazione di tutte le volte che avevamo attraversato quella soglia. Davanti a noi la casa, che ricordavamo di nuda bellezza. Ora nelle assenze delle pareti e dei mobili, nelle scatole sui pavimenti, era assalita dallo strazio. Tenue l’odore acre di farmacia.

Per questa capacità di scrittura e di comunicazione, oltre che per le dense riflessioni sulla questione della temporalità (centrali, d’altronde, in tutto Abati), Fughe è senza dubbio un libro da leggere attentamente. Un libro da assaporare e meditare.

Note

1 V. Abati, Sulle domande del lettore, pp. 164-165.

2 G. Baneschi, F. Cipriani, M. Covitto, A. Franchi, B. Rosi, L. Scribani, S. Starnai, I. Verdi, Velio Abati, «Fughe», Colloqui del Tonale, 27 novembre 2020.