L. v. Beethoven –
Le trentadue sonate per pianoforte
Intervista a Muriel Chemin
Roberto Russo

Un’ipotetica indagine volta ad analizzare, pur superficialmente, il livello di diffusione, conoscenza e fruizione della musica d’arte nella società contemporanea occidentale, ne metterebbe in evidenza, ove più ove meno, lo stato di estrema precarietà: la progressiva disattenzione – per dirla con un eufemismo – verso una delle più affascinanti e misteriose attività dell’intelletto e della spiritualità umana, ad opera di tutti gli attori che muovono le fila della divulgazione, del sostentamento e della promozione della cosiddetta classica, ha reso quest’arte quasi del tutto invisibile ad una intera collettività, per la quale la grande musica è, di fatto, inesistente.

È, questo, il risultato di un fenomeno socio-culturale che ha radici ben lontane; un fenomeno che, da numerosi decenni a questa parte (e nel nostro Paese più che altrove) provoca un vuoto progressivo, ormai difficilmente colmabile, tra produzione musicale accademica (o colta) e coloro che dovrebbero fruirne. Le conseguenze di tale depauperamento culturale sono evidenti in tutti gli ambiti afferenti alla musica d’arte: al di là delle grandi istituzioni (le uniche che ancora vivono nella scia della tradizione), didattica, concertistica, critica, ricerca e discografia sopravvivono solo grazie alla passione irriducibile di artisti ed interpreti che non si rassegnano alla perdita totale di uno dei più straordinari patrimoni dell’umanità, producendosi in operazioni culturali talvolta di altissimo livello qualitativo.

È il caso di Muriel Chemin, pianista francese che vive e opera in Italia, la quale, al di là di una formazione musicale più che solida (tra i suoi insegnanti ritroviamo Blanche Bascourret de Guéraldi, diretta discendente di Alfred Cortot, e Maria Tipo), di un’invidiabile carriera artistica che l’ha portata a calcare le scene di molte tra le più prestigiose sale del mondo, di una critica internazionale ricca e sempre entusiastica, di un repertorio vastissimo, nonché di un’attività didattica di prim’ordine presso il Conservatorio di Musica di Venezia, si è recentemente cimentata in un’operazione discografica che non passa di certo inosservata per imponenza, importanza storico-filosofica e per l’impegno profuso nel suo concepimento e nel suo completamento: l’integrale delle trentadue sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven, registrate e pubblicate per la casa discografica statunitense Odradek Records nel 2022; un lavoro titanico che, nella storia del pianoforte, è stato affrontato da un esiguo numero di grandi interpreti e che, come tale, ha destato la nostra ammirazione e il desiderio di conoscerne i retroscena.

Abbiamo pertanto incontrato Muriel Chemin la quale, con la chiarezza, la profondità e la schiettezza che contraddistinguono sia la sua persona che la sua magnifica arte pianistica, ci ha illustrato, rispondendo alle nostre domande, il suo personale percorso di indagine all’interno di uno dei capolavori assoluti della storia della musica.

Roberto Russo: Muriel Chemin, non v’è dubbio che un monumentale progetto come quello in cui si è cimentata sia nato da una Sua particolare spinta emotiva, da un amore verso l’arte e il pensiero di Beethoven oltre che – è inevitabile – da un’altissima dose di coraggio. Vi è stata, in questa impresa titanica, la consapevolezza di fissare nel tempo un’opera unica e grandiosa, vera pietra miliare della musica europea; e di volerlo fare, oltretutto, dopo che l’intero corpus sonatistico beethoveniano è già stato immortalato su disco, nella storia dell’interpretazione pianistica, da importanti artisti ed artiste dello scorso secolo, vere icone dell’arte della tastiera? Cosa ha rappresentato per Lei questa sfida da un punto di vista sia artistico che umano?

Muriel Chemin: Riflettendo a fondo, credo che l’essermi cimentata nella registrazione dell’intero corpus sonatistico beethoveniano sia stata, più che una scelta o una decisione, una profonda necessità. Il mio amore per Beethoven risale alla mia infanzia: avevo dieci anni, infatti, quando il mio maestro, Jean Manuel, mi diede da studiare la sonata op. 13, la cosiddetta Pathétique. Ne ho un ricordo molto preciso ancorché legato alla bambina che ero: il primo volume delle Sonate, acquistato dai miei genitori nell’edizione pubblicata dalla tedesca Peters, era infatti un libro molto pesante, tanto da far fatica ad appoggiarlo sul leggio! A parte questo curioso particolare, ricordo che in quegli anni lo studio della musica riempiva già gran parte del mio tempo, tanto da dedicare diverse ore al giorno sia al mio strumento che all’ascolto. Erano le sinfonie del Maestro di Bonn, però, ad interessarmi particolarmente, perché – dettaglio per nulla trascurabile – sognavo di diventare direttrice d’orchestra, ancor più che pianista. Durante i miei studi parigini, infatti, seguii un corso di direzione pur se, in quegli anni, una ragazza desiderosa di dedicarsi a questa disciplina veniva difficilmente presa in considerazione dal mondo accademico. Pertanto, dopo aver assistito ad alcune lezioni, durante le quali non mi si chiamava mai a dirigere, rinunciai all’idea.

Ad ogni modo, nel mio percorso formativo le sonate di Beethoven sono state sempre una costante nei programmi di studio, tanto che, ancora molto giovane, il mio repertorio poteva contarne già un discreto numero. Inevitabile, dopo aver dedicato così tanto tempo della mia vita al grande compositore tedesco, sentire Beethoven molto vicino alla mia natura, quasi una parte di me, una vera fonte di energia, potente ed inesauribile. Egli stesso – posso affermare – mi ha dato negli anni la forza per dedicarmi a tutta la sua produzione sonatistica e anche ad altri brani pianistici del suo catalogo d’opera. Scalare quest’opera monumentale ed affrontare l’impresa della registrazione delle trentadue sonate per pianoforte è stata una vera sfida: un conto, infatti, è diluire nel tempo l’integrale di queste composizioni; ben altro è concentrare il lavoro in tre anni con la finalità dell’incisione su disco.

Quanto alle versioni storiche di chi si è misurato in passato con questa imponente opera, ve ne sono diverse, per mano di grandi artisti, che avrebbero potuto certamente intimorirmi. Il rischio principale, però, era di non rispondere positivamente all’invito della casa discografica Odradek Records per la quale, tre anni prima, avevo dato alle stampe un’altra tra le composizioni più complesse e interessanti del repertorio beethoveniano: le Variazioni Diabelli, op. 120. Armata di una certa dose di coraggio, quindi, non ho voluto pensare a chi mi aveva storicamente preceduta: nessun interprete, infatti, fisserebbe mai la propria visione di una pietra miliare del repertorio musicale se avesse timore dell’inevitabile confronto con i grandi del passato. Son veramente contenta, pertanto, della scelta adottata poiché, se teniamo conto del consistente numero di eccelsi pianisti nella storia, ben pochi di essi hanno affrontato la registrazione di questa integrale; e, tra l’altro, solo pochissime donne. Tra queste ultime, due vere icone del pianoforte: la russa Tat’jana Nicolaeva e l’ungherese Annie Fischer.

R.R.: Lei cita due tra le più grandi pianiste della storia: si sente in qualche modo idealmente legata, oltre che alle personalità artistiche che hanno contribuito alla Sua formazione e alla Sua crescita pianistica, a qualche grande interprete del passato?

M.C.: Sono cresciuta musicalmente con una scuola pianistica che non esito a definire rigorosa, la quale ha inevitabilmente influenzato le mie scelte artistiche e di repertorio. Parallelamente, credo che l’ascolto di grandi interpreti – quelli storici in disco e i contemporanei dal vivo – sia stato importantissimo e determinante, soprattutto nella mia adolescenza. Numerosi ed indimenticabili sono stati i recital pianistici a cui ho assistito durante i miei meravigliosi anni parigini: da essi ho appreso moltissimo! Mi ritengo fortunata ad aver avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo, tra gli altri, pianisti come Alfred Brendel, Rudolf Serkin, Claudio Arrau, Murray Perahia e Maurizio Pollini, dai quali ho ricevuto forti ed indelebili ispirazioni, particolarmente nel repertorio beethoveniano. Ricordo benissimo, infatti, la mia vera e propria esaltazione dopo ogni concerto, che si traduceva immediatamente nella lettura e nello studio dei brani che avevo ascoltato; ciò perché vedevo in questi artisti un esempio da seguire, in una inconsapevole percezione – chi può dirlo? – di ciò che avrei realizzato molti anni dopo! Al di là di tutto questo, nell’approfondimento del repertorio ho sempre cercato di analizzare il testo (che ritengo sacro ed intoccabile) con la massima cura possibile, affiancando l’indagine conoscitiva, nel caso di Beethoven più che mai, a studi biografici e a ricerche sulle opere da eseguire. Per questa integrale, quindi, ho impiegato anni e anni di lavoro, durante i quali ho cercato di allargare il più possibile il campo di investigazione: dall’intero repertorio di Beethoven agli eventi sociali e politici avvicendatisi durante la sua esistenza, ai vari stati d’animo attraversati dal compositore durante la stesura dei suoi trentadue capolavori.

R.R.: Le Sue interpretazioni delle trentadue sonate di Beethoven appaiono chiare e nette, mosse da una invidiabile, lucida e imperturbabile conduzione, che trasmette all’ascoltatore l’idea di un grande equilibrio. Esse sembrano guidate da un preciso pensiero stilistico che procede principalmente – come Lei stessa ha affermato – dalla fedeltà al testo. In questa ottica, quanto importante è per Lei il segno del compositore, e come trova la “sintesi” tra la sua osservanza e quello slancio personale che caratterizza ogni grande interprete?

M.C.: Sono molto contenta che Lei mi ponga questa domanda, perché sono da sempre impegnata a ricercare questo difficile e delicato equilibrio. Di base, cerco di rispettare ogni segno indicato dal compositore. Sempre! Ciò può rappresentare una vera sfida allorquando, dal manoscritto fino alle ultime edizioni pubblicate, diversi dettagli, per mille motivi, possono risultare variati. Nel mio lavoro, quindi, si è presentata l’esigenza di modificare, nel corso degli anni, elementi anche fondamentali (fraseggi, dinamiche, se non addirittura note), con tutto ciò che ne consegue in termini interpretativi e persino “fisici”! Lo studio su edizioni diverse, infatti, mi ha spesso imposto cambiamenti nell’approccio alla tastiera, nonché mutazioni di gesti già completamente “metabolizzati”.

Nonostante in alcuni casi mi sia capitato di avere forti dubbi su come procedere nell’interpretazione del testo, la mia posizione finale è stata sempre quella di seguire esattamente indicazioni filologicamente accertate. Ad esempio, davanti a variazioni di fraseggio di uno stesso elemento tematico che, in punti diversi di una sonata, risultava essere scritto in maniera differente, non ho ceduto alla tentazione di ricercare un’ipotetica o probabile logica di simmetria, accertandomi, piuttosto, che quella scritta sul pentagramma fosse realmente la volontà di Beethoven.

Al di là di questo, è chiaro che la natura di un interprete e il suo temperamento debbano trasparire nell’atto esecutivo; tuttavia, la sacralità del testo dev’essere sempre rispettata, perché il musicista altro non è che un servitore o – per citare Alfred Brendel – un “esecutore testamentario” che, in quanto tale, non dovrebbe mai servirsi del testo per apparire.

R.R.: Nell’ascolto delle Sue trentadue sonate, si resta affascinati da una non comune profondità interpretativa. Sembra che la Sua lettura di queste opere, infatti, non prescinda dallo studio della individualità dell’autore, della sua vicenda personale e familiare, oltre che dall’analisi di quella tipica inquietudine di un uomo il cui pensiero rappresenta una costante interrogazione sull’essenza della vita, sulla condizione umana e sulle vicende storiche del suo tempo. Quanto incide, in un lavoro come il Suo (ma in generale in ogni solido approccio a una grande opera d’arte), l’immersione dell’interprete nella parabola vitale di un compositore, negli accadimenti storici e nell’evoluzione della società in cui musicisti e musiciste hanno operato?

M.C.: L’immersione di un musicista nella storia personale di un compositore è un’esperienza emotiva non indifferente che incide, ovviamente, in maniera molto profonda nella propria visione musicale. La musica di Beethoven è indissolubilmente legata sia alle proprie sofferenze terrene (alla sordità, in particolare, che lo costrinse ad isolarsi socialmente) che ai grandi cambiamenti storici e sociali dell’Europa dell’epoca, come la Rivoluzione Francese e le Guerre Napoleoniche. Credo sia importante avere ben presenti questi elementi per intendere al meglio il suo messaggio artistico e filosofico, restituire la struttura delle sue opere, tentare una connessione fra passato e presente e intuire l’attualità della sua musica. L’arte beethoveniana rappresenta, infatti, una visione idealistica e quanto mai moderna dei principi di libertà e fratellanza umana.

Detto questo, bisogna riconoscere che, nella quotidianità di uno strumentista, oltre all’aspetto puramente intellettuale, esiste una componente che potremmo definire “artigianale”, quell’attività creativa manuale, cioè, la cui importanza è innegabile.

Comunque sia – torno a dire –, compito del musicista è innanzitutto indagare il testo e cercare di riproporlo il più fedelmente e il più vicino possibile alla volontà del compositore. Oltre che basarsi su edizioni filologicamente valide, l’interprete deve adoprarsi attraverso un lavoro durissimo per ricercare le sue forze più recondite e superare i propri limiti. Sinceramente, fino a qualche anno fa non avrei mai pensato di poter registrare l’integrale delle sonate di Beethoven, ma la necessità e la determinazione erano così grandi da avermi dato la forza di inerpicarmi fino alla cima di questo “Everest” musicale e pianistico. I tre anni impiegati nella registrazione di queste composizioni sono stati fra i più intensi della mia vita, sotto l’aspetto artistico e non solo. La realizzazione di questa impresa è diventata una vera filosofia di vita, una via vitae, poiché ho provato a superare un’unica cosa: me stessa.

R.R.: Il percorso artistico di Beethoven è uno dei più ampi e sorprendenti nella storia della musica occidentale. Per rimanere nel solo ambito sonatistico, dall’op. 2 all’op. 111 il pensiero beethoveniano conosce una regolare e immensa metamorfosi. Come si è posta, nel Suo lavoro, di fronte alla sfida di riunire sotto un’unica linea interpretativa una così vasta evoluzione di forma, di stile e di rapporto con lo strumento? E, in definitiva, è giusto parlare di un’unica linea interpretativa?

M.C.: Nell’intero corpus beethoveniano ho sentito, più che un’evoluzione, un’autentica rivoluzione, rappresentata dalla forza propulsiva di trentadue differenti forme di sonata, diverse le une dalle altre. Naturalmente, al suo interno vi è un percorso esistenziale, ma il termine “evoluzione” potrebbe voler dire che le prime opere siano meno compiute, meno interessanti o meno grandiose di quelle composte negli ultimi anni di vita di Beethoven. Nonostante queste ultime siano da considerare un vero e proprio testamento musicale, ogni sonata è comunque un mondo a sé: nessuna di esse, quindi, dovrebbe esser messa a confronto con un’altra.

Nelle 32 Sonate, come già detto, vi è un’intera vita che fluisce e, parallelamente ad essa, forme musicali cangianti. Non sarebbe quindi giusto affermare, ad esempio, che la sonata op. 7 (composta nel 1796) – la quale cela un nucleo tematico della Hammerklavier, scritta tra il 1817 e il 1819 – sia meno grandiosa di quest’ultima!

R.R.: L’evoluzione (o – come Lei dice – la rivoluzione) che ha caratterizzato il cammino creativo del genio di Bonn durante tutta la sua esistenza è anche testimonianza di un lavoro incessante su sé stesso, di una vera necessità di continuo cambiamento, di un irrefrenabile desiderio – eroico, potremmo dire – di inoltrarsi in territori sconosciuti dell’animo umano attraverso il mezzo che gli era più congeniale: la musica. Potremmo quindi affermare che la grandezza di un/una grande artista risieda, tra l’altro, anche nella capacità di mettersi costantemente in discussione. È d’accordo con questa affermazione? E, alla luce sia di questa Sua memorabile incisione discografica che della Sua attività musicale a tutto tondo, ritiene che essa possa riferirsi anche alla missione di un interprete?

M.C.: Penso che la grandezza di un vero musicista consista, innanzitutto, nel porsi con umiltà di fronte al compositore e alle sue creazioni. Ognuno di noi, quindi, deve necessariamente aver coscienza del proprio ruolo di tramite , piuttosto che di servirsi della musica per altri fini. Non amo per niente le esibizioni egotistiche, né quella superficialità che, purtroppo, spesso è rintracciabile in tanti pur bravi pianisti dei nostri giorni. Secondo il mio parere, il valore artistico di un interprete si misura nel mettersi costantemente in discussione, quindi, e nell’avere come unica ambizione il rispetto sia per il compositore che per il pubblico. Questo valore, irrinunciabile, si traduce nel mettere a fuoco, e di conseguenza in luce, ciò che è celato in una pagina musicale: la profondità del messaggio umano e artistico, il senso filosofico e poetico di un’opera. Ovviamente, mi rendo conto di essere molto lontana da un ideale di assolutezza (e La ringrazio per aver definito memorabile questa mia incisione), ma cerco, giorno dopo giorno, di migliorare costantemente me stessa davanti all’infinità dell’arte e alla sua eternità. La reale missione del musicista implica sacrificio. Tuttavia, sebbene la vita di un artista non sia priva di difficoltà, essa rappresenta comunque un privilegio, poiché consente di essere costantemente immersi in una dimensione unica dell’esistenza, se non al di là dell’esistenza stessa.

R.R.: Nel Suo approccio interpretativo alle trentadue sonate di Beethoven, che appare solido e rigoroso ma al contempo intimo e riflessivo, quale ruolo ha avuto l’indagine nel pensiero orchestrale di Beethoven, che sappiamo essere sempre così presente nelle sue opere per pianoforte solo?

M.C.: Il pensiero orchestrale ha avuto in me un ruolo sempre determinante, fin dall’infanzia. Ciò, probabilmente, è legato – come già affermato – all’influenza del mio maestro, Jean Manuel, direttore d’orchestra oltre che pianista. Il suono della massa orchestrale e i suoi timbri, quindi, sono stati sempre presenti in me nell’indagare sia le Sonate che altre composizioni di Beethoven, pur se l’ascolto approfondito dei suoi quartetti mi ha trasmesso fortemente l’idea dell’equilibrio delle parti, oltre a ciò che potrei definire una “coesione di suono”. Inoltre, bisogna ammettere che, in molti casi, la scrittura beethoveniana appare non propriamente pianistica, essendo imprescindibile per lui l’idea musicale in sé, piuttosto che l’indirizzo strumentale. Di conseguenza, nell’approccio tastieristico e nella realizzazione delle sue formule pianistiche, occorre – mi si passi il termine – in un certo qual modo “arrangiarsi”!

R.R.: A tal proposito, quindi (e cioè proprio da un punto di vista più prettamente tecnico-tastieristico), cosa ne pensa della questione esecutiva legata alla differenza tra gli strumenti dell’epoca di Beethoven e quelli moderni? Ha mai usato il fortepiano per tentare di avvicinarsi a un suono, un timbro e ad un approccio alla tastiera storicamente più vicini e consoni alle sue composizioni? In generale, ritiene questo tipo di indagine necessaria, se non doveroso, al fine di una corretta lettura di un’opera appartenente ad un’epoca così lontana dalla nostra contemporaneità?

M.C.: Sappiamo che gli strumenti dell’epoca di Beethoven erano molto diversi da quelli attuali, e che oggi ci troviamo in un’altra “galassia sonora”; lontanissimi, cioè, da ciò che il compositore poteva ascoltare o forse immaginare. Tuttavia, ciò non dev’essere, a mio parere, un fattore determinante, né “discriminante” ai fini esecutivi ed interpretativi. Mi spiego meglio: se non ascoltassimo la musica del passato con le orecchie di oggi, non dovremmo neanche ritener giusto eseguire Bach sui pianoforti moderni. Oltretutto, sappiamo che Beethoven apprezzava l’evoluzione del suo strumento, sperimentandone ampiamente le mutazioni (pensiamo alle ultime cinque sonate, ad esempio, in cui il suono del pianoforte appare lontanissimo da quello delle prime sue composizioni).

A Vienna mi è capitato di suonare, pur se per poco tempo, su uno strumento appartenuto a Beethoven; al di là dell’emozione di toccare un pianoforte che fu di sua proprietà, non credo proprio che la conoscenza delle caratteristiche del fortepiano sia qualcosa di assolutamente imprescindibile per una corretta lettura delle sue opere: in fondo, le sue composizioni vanno ben al di là dei limiti strumentali della sua stessa epoca e, soprattutto, arrivano alle nostre orecchie nel 2025, quasi 200 anni dopo la scomparsa del Maestro. Infine, c’è sempre da chiedersi se la sordità che affliggeva Beethoven abbia favorito l’intuizione di un certo tipo di suono o di un suono che era di là da venire. Come non pensare, a tal proposito, al primo movimento della Sonata op. 27 n. 2 (più nota al grande pubblico con il titolo Al Chiaro di luna)?, un brano in cui Beethoven, pur non avendo ispirazioni o intuizioni romantiche, ricercava certamente un effetto sonoro “lacrimoso”, se non “visionario”; o alle Sonate op. 31 n. 2 (detta Tempesta) e op. 53 (la ben nota Aurora o Waldstein), nelle quali la timbrica, già soltanto per effetto dei lunghi pedali, appare prodigiosamente innovativa?

R.R.: Dagli esempi che Lei cita, riferendosi ad alcune sonate in particolare, nasce spontanea la seguente domanda: all’interno dei suoi trentadue capolavori, quali sono, secondo Lei, quelli che rappresentano un vero “giro di boa” nell’evoluzione stilistica di Beethoven? E quali le caratteristiche principali che fanno di queste composizioni dei modelli per i compositori a lui successivi?

M.C.: A mio parere, con l’op.13 (nota con il titolo Pathétique) Beethoven già si allontana dalla classicità, pur se ancor prima, cioè nelle primissime sonate, la forma appare notevolmente ampliata rispetto ad analoghe composizioni di musicisti a lui contemporanei. Le novità stilistiche apportate da Beethoven sono presenti in tutta la sua parabola creativa: dalle prime note della sonata op. 2 n.1 (la quale, pur esordendo con i classicissimi Mannheimer Rakete, presenta già stilemi di stampo tipicamente beethoveniano) all’op. 111. Ho sempre sostenuto, infatti, che Beethoven, da solo, abbracci tre secoli di musica: riprende la fuga, elemento barocco per eccellenza (nelle sonate op. 101, 106 e 110, ad esempio, nonché nelle Variazioni su un tema di Diabelli, op. 120); anticipa la visione sonatistica schumanniana già nell’op. 101 (nella quale, pur frammentariamente, si intravede quella ciclicità tanto amata dal genio di Zwickau); intuisce e quasi raggiunge valori timbrici tipicamente impressionistici nell’op. 53; ispira e influenza, nel ‘900, compositori come Arnold Schönberg (l’elaborazione del suo pensiero dodecafonico deve tanto a Beethoven!) e Pierre Boulez (indicativo, nella sua Sonata n. 2, il riferimento all’architettura della monumentale sonata Hammerklavier, op. 106).

R.R.: Beethoven ha indubbiamente inaugurato una nuova maniera di far musica, mutando irreversibilmente il rapporto tra chi crea e chi fruisce di un’opera musicale. Di certo, dopo Beethoven, l’immagine stessa del compositore non è più quella delle epoche a lui precedenti. Qual è la Sua idea rispetto alla modernità del suo pensiero musicale? E cosa rappresenta questa sua peculiarità, secondo Lei, nel processo evolutivo della musica dall’Ottocento ai giorni nostri? In altre parole, qual è l’eredità beethoveniana alla quale la produzione successiva è inevitabilmente legata?

M.C.: Credo che la musica, per Beethoven, non sia stata soltanto un semplice “rifugio” in una vita segnata da dolori, sofferenze e frustrazioni, bensì qualcosa di più. Ritengo, infatti, che le ben note difficoltà esistenziali che hanno indelebilmente marcato il proprio arco vitale ed artistico – a partire dalla problematica infanzia fino alla sua sordità – abbiano rappresentato elementi determinanti nella formazione della propria personalità, dei tratti caratteriali e del proprio pensiero, rafforzando quel senso di autonomia rivelatosi sostanziale anche nella sua produzione artistica. In quest’ottica, la sua musica è stato un vero atto di resistenza e di affermazione sociale, acquisendo – prima volta nella storia – connotati di natura prettamente politica. Da qui, il forte e necessario anelito di libertà che aleggia in tutta la sua produzione, frutto, quindi, non solo della propria eredità personale, ma anche di un profondo ed intimo credo, nonché del periodo storico – l’Illuminismo – dei cui ideali Beethoven si nutre. Da qui, la forza propulsiva e indomabile della sua musica, che nasceva da un’urgenza di esprimere le proprie idee senza alcuna forma di sottomissione o di limitazione: in questo, Beethoven è stato un punto di riferimento assoluto e un esempio da seguire per tutte le generazioni future di musicisti. Penso in primis a Franz Schubert, che nutriva per lui una vera e propria venerazione: ho sempre pensato, infatti, che Schubert, nei suoi particolari e profondi percorsi onirici, abbia ricercato in Beethoven un padre

Quanto all’elemento più tragico della sua vita artistica – la sordità – non dimentichiamo che a trent’anni Beethoven aveva già perso completamente l’udito: un evento estremamente infausto che ebbe un risvolto straordinario nella sua carriera di compositore poiché, paradossalmente, gli conferì capacità e sensibilità a dir poco singolari. Beethoven, per così dire, sentì dall’interno, entrando in contatto con mondi sonori inesplorati che gli permisero di intuire e creare soluzioni uniche e assolutamente inedite. La sordità esaltò, per così dire, il suo spirito indomito, e questo handicap contribuì, nell’impietosa crudeltà del destino, a far sì che il Maestro si allontanasse dalle convenzioni dell’epoca per spingersi oltre i limiti tradizionali.

R.R.: Ha avuto modo di indagare, con la stessa analitica introspezione usata per le trentadue sonate, anche i cinque concerti per pianoforte e orchestra scritti da Beethoven? Quale è il Suo rapporto con queste altre splendide composizioni? Potrebbero rientrare in un Suo futuro progetto discografico?

M.C.: I concerti per pianoforte e orchestra fanno parte, tutti, del mio repertorio, pur avendone eseguiti in pubblico, con bravissimi direttori, quattro su cinque (all’appello manca, infatti, il primo della serie, l’op. 15). Devo dire che il concerto da me più amato, e che ho anche suonato più volte, è il quarto, in sol maggiore, op. 58. Questo capolavoro possiede, secondo me, una ricchezza e una diversità di elementi ancor maggiore rispetto agli altri. Pur essendo molto scabroso, in quanto è necessario utilizzare tutte le risorse timbriche a disposizione dello strumento, non lo definirei virtuosistico nel mero senso del termine; è molto luminoso e dialogico: la parte solistica, infatti, non si “oppone” mai alla massa orchestrale, mantenendo con essa una costante dialettica e un rapporto sempre molto colloquiale.

Ma che dire degli altri? Meravigliosi i primi due (op. 15 e op. 19, scritti rispettivamente nel 1800 e tra il 1787 e il 1789, quindi in ordine inverso relativamente al numero d’opera): benché siano ancora legati alla tradizione classica mozartiana, riflettono marcatamente la personalità e il carattere dell’autore.

Con il terzo concerto, op. 37, avviene un cambiamento drastico: la scrittura pianistica si fa più virtuosistica, densa, imponente ed “eroica”, caratteristiche che si confermano nel quinto concerto (l’op. 73, scritto nel 1809), frutto di una sempre maggiore esperienza compositiva, anche nell’arte di gestire un grande organico orchestrale. Quest’ultimo concerto è forse il meno delicato da eseguire, perché lascia più spazio all’irruenza e ad una maggiore libertà del solista.

Per rispondere alla Sua domanda sull’incisione di queste opere, no, non è ancora previsto un progetto discografico a riguardo. Ma non si sa mai!

R.R.: Il Suo lavoro discografico su Beethoven sembra andare in una direzione diametralmente opposta rispetto alle modalità della produzione musicale contemporanea. Il mercato del CD – ci vien detto – è ormai quasi inesistente, e tutta la diffusione musicale, sia per la cosiddetta musica d’arte che per la musica leggera, avviene quasi esclusivamente online. Ci sono margini di ripresa, secondo Lei, per un ritorno ad un ascolto della musica più “sano” e – oseremmo dire – consapevole? Ritiene che le nuove tecnologie, nonostante le enormi opportunità nel campo della reperibilità di materiale e della sua facilità di riproduzione, possano decretare un inesorabile abbassamento della qualità dell’ascolto, finendo quindi anche per mutare il gusto medio dell’ascoltatore tipo?

M.C.: Non credo, tutto sommato, che l’industria discografica sia veramente in crisi a causa dell’uso sempre più diffuso della divulgazione online. Quotidianamente, viene pubblicata una gran quantità di nuovi CD, ai quali è abbinato un altrettanto folto numero di recensioni. Semplicemente, penso che oggi vi siano nuovi modi di diffondere la musica.

La cosa preoccupante, piuttosto, è che si verifichi un possibile “impigrimento” del pubblico che, con la crescente facilità di ascolto, preferisca restare ascoltare da remoto, piuttosto che recarsi nelle sale da concerto per assaporare l’atmosfera unica dell’esperienza dal vivo, della sua sacralità e della comunione fra interprete e uditorio. La diffusione dell’ascolto in streaming potrebbe, a mio parere, favorire tutto ciò che oggi è appannaggio della visibilità. E questo è molto triste. Mi sembra di constatare nel pubblico, infatti, un’affezione verso molti effetti che non hanno nulla a che vedere con il valore intrinseco di un’interpretazione, conseguenza di una tendenza a concepire la musica come spettacolo, se non come puro intrattenimento, piuttosto che come messaggio filosofico e artistico. Un pubblico non preparato è facilmente manipolabile dal potere dell’immagine, e tende quindi a dare apprezzamenti più sulla mise, o su altri elementi relativi all’esteriorità, piuttosto che sul reale valore di un/una interprete (e ancora meno su ciò che ha da dire), smarrendo completamente il senso del messaggio musicale. Con l’arrivo dei social media, poi, il fenomeno è ancor più accentuato: bisognerebbe quindi ritornare, a mio avvio, al vero e unico valore della musica: l’ascolto!

R.R.: Dunque, come vede il futuro della forma del concerto dal vivo? Teme che questa tipologia di attività artistica si adegui alle nuove tendenze dettate da una tecnologia sempre più invasiva, che rischia di allontanare il pubblico dalla condivisione diretta di una forma di espressione così alta come la grande musica?

M.C.: Purtroppo, su questo fronte la situazione odierna è a dir poco preoccupante. Come già affermato, la tendenza è di dare più peso all’immagine che alla sostanza. Le responsabilità ricadono innanzitutto sulla politica; perché la musica è politica, come lo è la sua organizzazione! Dovrebbe sussistere l’obbligo, da attuare quanto prima, di una seria educazione musicale nelle scuole, poiché la musica è uno strumento che permette di ascoltare; e ciò, nella sua più vasta accezione (e soprattutto nella società in cui viviamo), è fondamentale. Ricordo benissimo, a tal proposito, una metafora citata dal grande pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim che, prendendo d’esempio la struttura di una fuga, afferma: “ogni voce è presente senza per questo impedire alle altre di farsi sentire”: un ottimo e quanto mai attuale esempio di convivenza, di tolleranza e di rispetto, di cui il mondo intero avrebbe un disperato bisogno. Dunque, bisognerebbe giusto investire in questa precisa direzione, ed insegnare ai giovanissimi l’arte della musica, cioè l’arte dell’ascolto! Forse, così facendo, il mondo sarebbe migliore.

R.R. Per riaffermare, dopo quest’ultima, importante dichiarazione, l’imprescindibile valore sociale della musica, l’altissimo valore artistico del progetto discografico nel quale si è cimentata, nonché quello umano e politico della condivisione dal vivo dell’arte interpretativa, Le chiedo se la sua integrale su compact disc delle trentadue sonate di Beethoven, edita – lo ricordiamo – per l’etichetta Odradek Records, sia stata (o verrà) affiancata dall’esibizione in concerto dell’intero corpus sonatistico beethoveniano.

M.C.: Ad oggi ho realizzato numerose esecuzioni in pubblico comprendenti alcuni gruppi di queste sonate, e ricordo anche di essermi esibita in diversi recital prima delle varie sedute di registrazione per la Odradek. Tuttavia, non ho mai affrontato un’esecuzione in concerto di tutte le trentadue sonate concentrandole in un ristretto lasso di tempo. A dir la verità, non mi è stato ancora chiesto e, ad esser sincera, non so cosa risponderei se ve ne fosse l’occasione! La verità è che, per affrontare un simile progetto esecutivo, come pochi, grandissimi maestri hanno fatto (penso, in particolare, ancora una volta ad Alfred Brendel), sono necessarie capacità eccezionali e una gran disponibilità di tempo, elemento – quest’ultimo – che, per indole e formazione, è per me essenziale al fine di indagare, riflettere, assimilare e metabolizzare tutto ciò che ho da riproporre. Resto comunque possibilista sul progetto di una pubblica interpretazione di questa integrale.

Ringraziamo Muriel Chemin per aver accolto con entusiasmo il nostro invito a discorrere del suo lavoro di incisione. La nostra riconoscenza per aver regalato alla storia della discografia una versione nuova e profondamente interessante di uno dei massimi capolavori del genio musicale beethoveniano e di tutta la storia della musica occidentale è grandissima.

Restiamo convinti che operazioni come questa, insieme all’impegno costantemente profuso nello studio, nella diffusione e nell’insegnamento della grande musica, contribuiscano a mantenere alta l’attenzione sul valore rappresentato dal patrimonio musicale di un passato a cui la nostra civiltà è indissolubilmente legata e a consolidare l’importanza della conoscenza della musica d’arte come principio di formazione imprescindibile per l’essere umano, nonché come veicolo di comunione, condivisione e rispetto tra i popoli.