Nei «Quaderni dell’Italia antimoderata» del pistoiese Centro di Documentazione Luca Bufarale pubblica un profilo di Sebastiano Timpanaro che del percorso intellettuale e dell’opera di uno dei maggiori filologi e pensatori europei del secondo Novecento – quest’anno ricorre il centenario della nascita – fornisce una efficace sintesi: agile e di piana lettura anche per non specialisti ed al tempo stesso articolata ed esatta nel seguire i momenti cruciali ed i motivi portanti del suo pensiero. Alla parte biografica (Tra filologia, scienze ed arti: l’ambiente familiare e la formazione culturale) seguono le sezioni dedicate al Socialista antimoderato, allo Studioso di Leopardi, Il filosofo “non professionale”: risulta così con tutta evidenza l’originalità di Timpanaro ed il tratto anticonformistico della sua posizione nel quadro della cultura a lui contemporanea, non solo quanto alla concezione del materialismo, la sola per lui in grado di «impostare il problema del rapporto uomo-natura» (p. 69), ma anche per la critica acuminata nei confronti della psicanalisi e delle correnti del marxismo in voga ai suoi anni, per non parlare delle mode e delle infatuazioni correnti nel mondo editoriale ed accademico, dallo strutturalismo fino al “pensiero debole”. La vis polemica del saggista e la qualità con pochi eguali dell’epistolografo a loro volta balzano agli occhi dalle citazioni che Bufarale riporta con giusto dosaggio nel libro: si potrebbe farne un’antologia da tener sempre a portata di mano, perché il «pessimismo» di Timpanaro non è di quelli à la Cioran, di facile spaccio e buono per épater il lettore, bensì del genere che rinfranca e sgombra il campo dai luoghi comuni, dalle conniventi inerzie del conformismo, stanandoci dalle precarie “comfort zone” in cui ci illudiamo di evitare o addomesticare i temi spinosi e cruciali che da sempre vanno affrontati, se la cultura a qualcosa ancora serve oltre a far passare il tempo. La «prosa classica» di cui ha parlato Perry Anderson per gli scritti è il veicolo esemplare del “messaggio” di Timpanaro e insieme un potente antidoto alla sciatteria del presente: la totale mancanza di affettazione si accompagna al rigore del ragionamento così naturalmente da costituire un modello, un riferimento etico e stilistico. Del resto e in generale, l’attività di Timpanaro di militante nelle formazioni della sinistra – quella non ortodossa di un «antistalinista e antitogliattiano» (p. 15) che pure ha avuto una sua parte nella storia del paese, nonostante la damnatio memoriae degli ultimi decenni –, com’è ricostruita fedelmente da Bufarale (è il tema più in vista nel libro), si svolse a diretto contatto con gli strati sociali più umili ed in assoluta sintonia con la radice egualitaria del pensiero e del modo d’essere dell’uomo (Romano Luperini rammenta, nella postfazione-intervista in coda al testo, «il tratto assolutamente non accademico del comportamento e del linguaggio» di Timpanaro, p. 103).
Una tale radice infine si rispecchia coerentemente nell’opera, con Leopardi saldamente al centro di una costellazione che include in primo luogo Marx (ma in ugual misura Engels) per la critica sociale e per la denuncia dell’ingiustizia, ma del marxismo non accetta né versioni strumentali e opportunisticamente concilianti in chiave politica (l’«eurocomunismo»), né ammette sul piano filosofico schemi finalistici o il primato della Dialettica «come visione dell’evoluzione naturale e sociale che procede per negazioni e inveramenti» (p. 81). Se perciò nei saggi il «rifiuto della filosofia come consolazione» accomuna Marx a Leopardi, per Timpanaro è indispensabile integrare l’uno con l’altro, come ben spiega nella prefazione a Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (1965): qui scrive che il suo è «una specie di marxismo-leopardismo che, mentre accetta l’analisi della società e gli obiettivi di lotta politico-sociale e culturale che sono con essa congiunti, per quanto invece riguarda il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e proprio (adialettico, “volgare” se così piace chiamarlo) del Settecento e dell’Ottocento, all’edonismo che gli è organicamente connesso e alle conseguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di ogni altro, ne ha tratto il Leopardi» (p. 64). Sono richiami e orientamenti che distanziano nettamente il pensiero di Timpanaro da ogni forma di progressismo, ma non per questo lo associano a istanze irrazionaliste o conservatrici, tutt’altro: l’editore di d’Holbach (altro capolavoro: Il buon senso uscito per Garzanti nel 1985) resta sempre ben ancorato ad un orizzonte di lucida razionalità, critica e autocritica e proprio per questo aliena dal “panpoliticismo” e dall’intellettualismo astratto che riconobbe al volo in non pochi suoi compagni di strada. Isolato, dunque: ma con l’avvertenza, secondo quanto scrisse nell’82, che «è stata la chiusura di ogni seria prospettiva comunista ed egualitaria a collocarmi, mio malgrado, fra gli “isolati”; e, benché vecchio, non considero il mio isolamento come definitivo, qualora quella prospettiva si riaprisse» (p. 29).