A quattro anni dalla sua scomparsa, Meltemi ha pubblicato di Danilo Zolo, nel 2022, un ricco volume di saggi, interventi e interviste, curate da Luca Baccelli e intitolato Granelli di sabbia. Il coraggio del pessimismo. Questo volume è un’occasione importante non solo per rileggere uno «fra i pochi filosofi della politica e del diritto conosciuti oltre i nostri confini», come ricorda il curatore nella sua introduzione, ma anche per cogliere la diversità di interessi e ambiti di ricerca che hanno animato Zolo. Granelli di sabbia, nello stesso tempo, potrebbe fungere anche da adeguatissima introduzione al suo lavoro di studioso e intellettuale.
Zolo è stato prima di tutto un filosofo del diritto, in dialogo costante con Norberto Bobbio, di cui ha assimilato la lezione antidogmatica, ma situandosi su posizioni più critiche, soprattutto nei confronti delle concezioni normative del diritto e della politica ereditate dall’Illuminismo. Ma oltre a essere un brillante e pioneristico studioso, in grado d’introdurre in Italia la sociologia di Niklas Luhmann o di approfondire l’epistemologia di Otto Neurath, egli si è fin da subito caratterizzato per una necessità d’intervento, di presa di posizione, nei confronti di quanto accadeva nella sfera della realtà sociale e politica, per potervi apportare indispensabili strumenti di lettura e riflessione. In altri termini, Zolo ha costruito il suo percorso di filosofo e specialista del diritto, rinnegando ogni pretesa neutralità accademica. Si è quindi impegnato affinché le questioni tecniche del diritto – in particolar modo del diritto internazionale – e dei suoi possibili fondamenti, fossero trattate in maniera pubblica e per un numero di cittadini il più ampio possibile.
Come altri della mia generazione, ho scoperto Zolo leggendo Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, libro uscito nel 2000, a un anno dalla conclusione della guerra in Kosovo, che aveva visto il coinvolgimento militare della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava. Quel libro non era certo un “instant book”, in quanto fin dalla metà degli anni Novanta, in seguito alla prima Guerra del Golfo, Zolo rifletteva e scriveva sulla nuova forma di “ordine globale” che gli Stati Uniti, e il resto dell’Occidente con essi, stavano affermando nel mondo uscito dalla Guerra fredda e dalla dissoluzione dell’Urss. Da quel momento in poi, Zolo divenne per me un insostituibile punto di riferimento, come lo divenne «Jura Gentium»1, centro di ricerca fondato nel 2001 e successivamente rivista in rete «di filosofia del diritto internazionale e della politica globale», che proprio lui contribuì a fondare. Le riflessioni contenute in Chi dice umanità o i temi trattati dalla rivista, imponevano al lettore non specialista, magari schierato per la pace e ostile all’imperialismo statunitense, di prendere atto non solo di una trasformazione epocale in corso, ma anche di cogliere, attraverso di essa, alcune contraddizioni fondamentali che si situavano nel cuore delle democrazie occidentali e della loro difesa del diritto internazionale.
Anche nel libro di Meltemi, troviamo un abbondante materiale dedicato a questi temi, come il saggio Una guerra ‘globale monoteistica’. In esso l’autore ricorda che la serie di guerre “giuste”, in cui gli Stati Uniti e i suoi alleati si sono impegnati su vari fronti nel corso di trent’anni (Iraq, Balcani, Afghanistan, Libia…), nascono in un preciso contesto ideologico e geopolitico, all’indomani del crollo dell’antico avversario comunista. Un «globalismo normativo» deve legittimare ora una guerra – senza confini temporali e spaziali precisi – che è al servizio della stabilità del nuovo ordine mondiale. «Si tratta – secondo Zolo – di garantire agli Stati Uniti e ai loro alleati il libero e regolare accesso alle fonti energetiche, anzitutto petrolio e gas combustibile, l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e arei e la stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quelli finanziari, impedendo nello stesso tempo la proliferazione delle armi biologiche, chimiche e nucleari». Conosciamo da tempo gli enormi danni umani e gli effetti nefasti, proprio in termini di stabilità internazionale, delle “guerre giuste”, ma è in tempi ancora più recenti che possiamo misurare il completo fallimento di tale politica sulla crisi delle istituzioni e del diritto internazionali. La dottrina elaborata dalla Casa Bianca considerava «l’amministrazione degli Stati Uniti come suprema istituzione e fonte normativa internazionale», delegittimando l’unica organizzazione a vocazione universale, ossia le Nazioni Unite, garanti della legalità tra Stati sovrani. Così, con il beneplacito di tutte le democrazie occidentali, si è reso inservibile l’unico argine all’arbitrio del più forte sul piano geopolitico. E si è spianata la strada a tutte quelle superpotenze locali che, come dimostra il caso della Russia con l’Ucraina, possono giustificare la loro aggressione illegale come “guerra preventiva”, raccogliendo persino i consensi di quei paesi non-occidentali che, delle guerre statunitensi, erano stati semplici spettatori, senza alcuna voce in capitolo.
Altrettanto attuali, anche se per certi versi più controverse, sono le riflessioni che Zolo dedica alla natura della “democrazia” e alla sua evoluzione. Le critiche radicali che egli elabora non vengono dall’esterno della tradizione democratica borghese, come nel caso delle critiche avanzate da prospettive anarchiche o marxiste, ma dal suo interno, con riferimento alla concezione della democrazia di Schumpeter. Quest’ultimo mira, secondo Zolo, a «riformulare in termini realistici le istanze della tradizione democratica e [ad] adattarla ai livelli di complessità e differenziazione raggiunti dalle società moderne. […] In questa riformulazione la democrazia non è il regime politico che consente ai cittadini di partecipare, direttamente o indirettamente, alla decisione delle questioni politiche e di controllare l’attività dei governi. La democrazia è più semplicemente un ‘metodo’ che coinvolge i cittadini nel processo formale di designazione dei soggetti che dovranno decidere le questioni politiche». A sostegno di tale concezione, Zolo mette in evidenza la dialettica tra “paura” e “sicurezza”, che considera come una struttura fondante della politica moderna. Il riferimento è stavolta a Niklas Luhmann, citato abbondantemente in un saggio del 2011, Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere. In quel libro, Zolo già metteva in luce questo principio di organizzazione delle società moderne, ma anche della loro evoluzione verso lo Stato sociale (Welfare state). «Si può dire che il Welfare state si è fatto carico dei rischi – e quindi della paura – strettamente legati all’economia di mercato, fondata su una logica contrattuale che supponeva una notevole disuguaglianza economico-sociale fra i soggetti contraenti e la riproduceva senza limiti». Secondo queste tesi, l’ossessione contemporanea per la “sicurezza” costituisce certo un’involuzione rispetto all’equilibrio che, in un momento storico precedente, si era creato tra riduzione del rischio, esperienze di solidarietà collettiva e il mantenimento di un certo grado di autonomia all’interno delle istituzioni democratiche. Ma questo momento di equilibrio non è iscritto in alcuna norma condivisa universalmente, ed è quindi soggetto a modificazioni contingenti. Inoltre, lo sviluppo dello Stato sociale non si è fatto contrapponendo i valori collettivi della solidarietà a quelli individuali della paura, ma riuscendo ad articolare un vasto bisogno di sicurezza espresso dalle fasce sociali più esposte alle incertezze e ai rischi dell’esistenza. Il bisogno di sicurezza è dunque costitutivo delle società moderne, e non è quindi facile neutralizzarlo, appellandosi a valori di giustizia che non sono, invece, condivisi in modo certo e unanime. In qualche modo, ritroviamo in Zolo (e prima di lui in Luhmann) il dilemma che Freud aveva precocemente espresso nel 1930, con Il disagio della civiltà: è difficile ottenere maggiore sicurezza senza restrizione della libertà.
Il punto critico – intorno al quale le destre estreme di tutta Europa stanno erigendo i loro successi elettorali – è l’antagonismo tra la massa di migranti provenienti dall’esterno delle società occidentali e i detentori, all’interno di esse, delle «cittadinanze pregiate», che sono comunque già indebolite dalle strategie politiche dominanti. Da un lato, le politiche neoliberiste promuovono da anni una rinnovata individualizzazione del rischio, “alleggerendo” le istituzioni; dall’altro, queste stesse politiche hanno favorito la competizione dei lavoratori su scala mondiale e la circolazione globale delle merci. Di fronte a questa situazione d’incertezza interna (precarietà crescente delle condizioni di vita) e esterna (la pressione per l’uguaglianza esercitata da soggetti migranti che fuggono da una precarietà ancora più radicale), la soluzione proposta dai populisti di estrema destra è quella di predicare una coesione interna, concentrando la lotta per la sicurezza contro il nemico esterno. Tale programma è doppiamente illusorio, in quanto le cause dell’indebolimento del Welfare state sono innanzitutto interne e, in secondo luogo, esso sfocerebbe in una concezione “privatistica” dei diritti civili e umani, che è in aperta contraddizione con la loro aspirazione universalistica e democratica. Per salvaguardare la superiorità della cultura occidentale dalle minacce esterne del mondo non-occidentale, si finirebbe per rendere indistinguibili i nostri regimi politici da tutti quelli autoritari e non-democratici, che fino a oggi sono additati con disprezzo dalle nostre forze conservatrici.
Le analisi di Zolo non sembrano fornire al lettore alcuna fuoriuscita semplice e risolutrice da questo intreccio di contraddizioni che si situano sia a livello internazionale che nazionale dell’orizzonte politico. Un punto incontestabile riguarda però la capacità riflessiva dei cittadini, che risulta indispensabile almeno per leggere lucidamente i meccanismi sociali in cui sono coinvolti. L’altro punto riguarda l’abbandono di ogni pretesa ragione universale, di cui l’Occidente dovrebbe essere portatore e che fornirebbe la garanzia dei valori da lui difesi. L’Occidente da questo punto di vista non incarna che un complesso storico d’interessi particolari. E non è quindi certo un’eccezione rispetto ad altri complessi d’interessi, che hanno imposto la loro egemonia nel passato. È essenziale, contro le nostalgie di “realismo” filosofico, riconoscere il “politeismo” post-moderno dei valori, che proprio le democrazie occidentali hanno contribuito a diffondere. La leva di ogni possibile impegno verso il cambiamento, nato da un’azione riflessiva (critica di sé), è quella allora di una morale soggettiva (non “individualistica”), che privilegi «la condizione esistenziale del soggetto umano rispetto all’esperienza collettiva del gruppo, alla vicenda evolutiva della specie, all’ambiente naturale». Qui Zolo si situa sulle posizioni per molti versi simili di un Cornelius Castoriadis e della sua difesa della nozione di “autonomia”. Conclude Zolo: «Così concepita la morale non è che la scelta individuale di impostare il proprio progetto di vita secondo certi criteri e in vista di determinati valori, preferenze e obiettivi particolari, al di fuori di qualsiasi ossequio verso autorità politiche o religiose che pretendano di collocarsi a un livello di eticità superiore rispetto all’assise della coscienza». Ed è proprio a questo punto che può essere utile la lettura incrociata di Zolo e Castoriadis. Per comprendere, cioè, come sia possibile difendere l’autonomia dell’individuo a livello sociale. Affinché il soggettivismo – tragico aggiungo io – di Zolo non si risolva in un semplice individualismo, bisogna pensare le condizioni collettive dell’autonomia individuale. Questo è quello che Castoriadis, tra gli altri, si è impegnato a fare, anche al di là delle concezioni puramente funzionalistiche di un Luhmann.
1 Vd. la pagina Chi siamo in «Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale».