
Uno dei contributi forse più sottovalutati del magistero teorico di Gramsci riguarda la riflessione sul cosiddetto cosmopolitismo degli intellettuali italiani. Cresciuti in un Paese che, pur essendo privo di una credibile organizzazione politica, ha esercitato per secoli un primato culturale e spirituale all’ombra di uno dei due Soli (il Papato), soprattutto a partire dal Settecento gli scrittori, i poeti, gli artisti e gli scienziati italiani si sono fatti ambasciatori in giro per l’Europa della grandeur della nostra tradizione letteraria e artistica. Ne è venuto fuori un tipo peculiare di intellettuale-cosmopolita che ha imparato a farsi produttore puro di cultura a spasso per le corti, libero da quella domanda sofferta sul destino nazionale che pure aveva nutrito le riflessioni di Dante, Petrarca e Machiavelli (una situazione, questa, che si ripropone su scala macroscopica in quella che con espressione qualunquista è stata chiamata la “fuga dei cervelli”). Questa «funzione cosmopolita», come invece la chiama Gramsci, caratterizza da secoli gli intellettuali italiani ed è riconoscibile ancora oggi nella radicale incapacità della sinistra di porsi il problema di una cultura nazionale: solo di pochi anni fa (2019) è un pamphlet di Christian Raimo intitolato significativamente Contro l’identità italiana, in cui questo argomento viene affrontato in maniera singolarmente apodittica e forse persino aproblematica, confondendo di continuo identità e identitarismo.
Assistiamo perciò a una situazione ambigua: mentre, spinti da un afflato orientalistico, si esaltano la genuinità, la purezza, persino la superiorità intellettuale e spirituale delle culture minoritarie, incoraggiando un’antropologia e un’etica dei margini, allo stesso tempo una qualunque sia pure pacata affermazione non dico della dignità, ma dell’esistenza stessa di un’identità nazionale italiana (o francese o tedesca o americana) viene senz’altro percepita come l’anticamera di un universalismo violento, erede della logica eurocentrica del nostro passato coloniale. Così, come diceva Cesare Garboli in un’intervista del 1997, «l’italiano, se si sente italiano, diventa subito fascista». E l’identità è accordata solo a chi può farne un uso vittimistico e autoghettizzante.
Si tratta, evidentemente, di uno dei tanti capitoli di quel generale sospetto nei confronti dei processi di soggettivazione che è la marca più riconoscibile di una serie di derivati del decostruzionismo che sono ancora oggi egemonici nell’accademia occidentale, da una parte, e al contempo, dall’altra, la garanzia definitiva della loro totale ineffettualità politica.
È dunque per certi versi singolare (ironic, direbbero gli anglosassoni) che nei mesi scorsi sia uscito un prezioso libro dal titolo L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, quando è a ben vedere ancora da dimostrare che il nucleo profondo del pensiero di Gramsci abbia davvero iniziato ad attecchire innanzitutto in Italia.1 Come sottolineava Marco Gatto nel suo Nonostante Gramsci, per esempio, non esiste una critica letteraria gramsciana nel nostro Paese, sebbene proprio a questa disciplina si possano ascrivere alcune delle pagine più illuminate dei Quaderni del carcere: frutto, questa vistosa assenza, del prevalere del paradigma strutturalista, oltre che di una generale temperie formalistica più o meno inconsapevolmente erede dell’idealismo crociano.2 Un segnale confortante in contrasto con questa tendenza è il fatto che una parte importante dei collaboratori del volume, edito da Bordeaux e curato da Lelio La Porta e Francesco Marola, siano proprio dei giovani studiosi di letteratura. Come sottolinea Guido Liguori nella prefazione, infatti, L’Europa di Gramsci è una raccolta che ha il merito di mettere insieme punti di vista disciplinari differenti e diverse generazioni di studiosi. L’idea di partenza è che, a fronte di una crescente fortuna del pensiero gramsciano nell’accademia internazionale (grazie alla risemantizzazione operata soprattutto dai Cultural e Subaltern Studies), può essere utile sottolineare come fin dal suo nascere il suo lavoro teorico sia andato avviluppandosi alle principali correnti del pensiero europeo e come, dalla particolare specola del carcere, Gramsci abbia potuto condurre a una sintesi o, nel suo gergo, tradurre in un’opera magmatica una pluralità di spunti provenienti dalle aree geografiche più disparate.
Ci sono contributi maggiormente concentrati sulla ricostruzione della nascita di alcuni snodi concettuali come quello di Derek Boothman, che indaga con dovizia di rilievi filologici, spigolando dalle varianti dei Quaderni, secondo quale lento processo l’economia classica inglese sia entrata a far parte di diritto, insieme al pensiero politico francese e alla filosofia idealistica tedesca, degli antesignani della filosofia della praxis, di cui questa finisce per essere il lento esito di un travagliato processo traduttivo. E altri che individuano genealogie che uniscono i concetti gramsciani e quelli dei pensatori che lo hanno preceduto, come nel contributo di Fortunato Cacciatore, che si concentra sull’importanza di quelli che oggi chiameremmo i «corpi intermedi» in Hegel, e sul ruolo strutturante che già nel suo pensiero (come sarà poi in Gramsci) le classi colte esercitano per evitare che le masse si riducano a una «moltitudine di atomi dispersi» (espressione, questa, di cui sarà memore Gramsci quando scriverà del «popolo disperso e polverizzato» orfano del Principe).
Piero Maltese divide in tre fasi il rapporto di Gramsci con l’opera di Marx: inizialmente le letture non erano metodiche, ma utili alla polemica politica del momento; dopo il viaggio in Russia interviene il progetto di una vasta opera di divulgazione del pensiero marxiano; infine, e solo in carcere, Gramsci finirà per studiarne davvero a fondo i testi, traghettandoli dal materialismo storico alla filosofia della praxis. Gianni Fresu approfondisce invece i fili che legano l’opera gramsciana al pensiero di Lenin, che ebbe il merito, stando ai Quaderni, di avere svincolato l’eredità di Marx e Engels dal determinismo fatalistico e di aver sottolineato la necessità di una strategia nazionale.
Giuseppe Guida si occupa invece della lezione di Bergson e Sorel, entrambe operanti in Gramsci, che contesta tuttavia al primo un rischio di arbitrarismo e al secondo la sottovalutazione dell’importanza mediatrice del partito. Un denso affresco di storia delle idee è quello di Mimmo Cangiano: le posizioni di Gramsci vanno via via precisandosi nello e con lo scontro con le prospettive borghesi di Papini, Prezzolini e Jahier. Merito dell’articolo di Francesco Marola è gettare luce su un aspetto forse più trascurato dagli studi, quello del Gramsci traduttore (in questo caso di Goethe), ed è interessante notare che sono forse proprio le traduzioni meno sorvegliate quelle che meglio recano le tracce dei tic concettuali, delle deformazioni creatrici dell’autore, e possono per questo motivo rivestire un importante ruolo euristico.
Affronta a sua volta questioni di traduzione anche l’articolo su Kipling di Lorenzo Mari: sia in senso stretto (la versione italiana della celebre poesia If), sia nel senso più largo, gramsciano, di adattamento a un contesto nazionale e a un momento storico diverso; in quest’ottica, il fatto che Gramsci privilegi Kipling a, per esempio, Dickens implica un complesso paragone tra il livello di sviluppo della società italiana del primo Novecento e quello delle realtà rappresentate dai romanzi inglesi. Anche nel contributo di Marco Gatto trova spazio un’indagine sul Gramsci lettore della grande letteratura europea: di particolare interesse è il sovrapporsi del suo giudizio con quello di Lukács, a sua volta convinto che l’opera di Dostoevskij esibisca un «carattere plebeo» estraneo alla letteratura a lui coeva. Un piccolo esperimento ucronico sembra invece quello messo in atto da Paolo Desogus: che cosa avrebbe detto Gramsci se si fosse occupato di Maciste? Risposta: vi avrebbe riconosciuto un eroe protomussoliniano, nutrito dello stesso paternalismo con cui gli intellettuali italiani sono soliti incoraggiare la cosiddetta letteratura per gli «umili».
L’articolo di Lavinia Mannelli è invece dedicato alle cronache teatrali: più nello specifico, alla figura di Emma Gramatica che, nella sua controversa messa in scena di Casa di bambola di Ibsen da una parte, e polemizzando con il trust dei fratelli Chiarella dall’altra, viene a delinearsi come il simbolo del teatro “gramsciano”. Noemi Ghetti mette in luce la poco apprezzata parentela tra Gramsci e Lunačarskij, entrambi critici attenti del determinismo economicistico, illuminando anche la figura di Bogdanov, fondatore tra l’altro di una scuola per lavoratori russi a Capri. Torna infine sulle analogie e divergenze tra Gramsci e Lukács già citate da Gatto anche il contributo di Lelio La Porta, preoccupandosi soprattutto di indicare, anche sulla scorta di Coutinho, che le loro concezioni dell’ideologia in sostanza convergono nel definire quest’ultima non solo nei termini rigidamente marxiani di falsa coscienza, ma come uno strumento indispensabile alla prassi (originali poi sono le note conclusive sul comune interesse, certo diversamente motivato, per la Commedia di Dante).
Quel che se ne trae in definitiva è il profilo di un pensatore sfaccettato, che cerca stimoli dovunque possa trovarne, sempre però nel tentativo di risolvere alcuni specifici nodi teorici e pratici, confrontandosi con degli idoli polemici che ritornano spesso (Croce, Bucharin). E tuttavia risalta anche, in controluce, l’attento diagnosta della cultura italiana, che con le altre, straniere, che la arricchiscono, intrattiene un rapporto basato su fraintendimenti, semplificazioni, malintesi anche creativi: perché, se non possiamo dirci quel che siamo, certo i nostri lapsus parlano per noi.
1 Come scrive Finelli, «è verosimile pensare che solo l’accesso a una causazione idealistica dell’accadere di contro a una concezione economicistica – solo l’accesso cioè a un nuovo umanesimo, articolato secondo una nuova teoria della soggettività e la sua irriducibile centralità – possa concorrere a creare quella nuova ideologia organica ed egemonica della cui necessità parlava Antonio Gramsci, descrivendo una situazione epocale quale la condizione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”»: R. Finelli, Filosofia e tecnologia. Una via d’uscita dalla mente digitale, Milano, Rosenberg & Sellier, 2022, p. 9.
2 Al tentativo di conciliare l’eredità di Gramsci con gli stimoli della Stilkritik, per esempio nel suo lavoro sull’indiretto libero, si devono però alcune delle intuizioni più feconde di Pier Paolo Pasolini.