Alessandro Niero,
Olga
Stefano Maldini

Alessandro Niero, Olga. Una badante per amica, Livorno, Valigie rosse, 2022.

Perché Alessandro Niero, intellettuale abituato a “giocare” su altri campi – docente appassionato, abile traduttore e poeta raffinato – sceglie proprio un’opera destinata all’infanzia per rivelarci così apertamente la sua anima? Perché, da padre innamorato (la dedica è alla figlia), ma anche da persona che per realizzare il proprio percorso ha dovuto come tanti italiani nati in provincia allontanarsi – emigrare – dalle proprie radici, ha deciso di consegnare alla generazione che verrà un piccolo tesoro: la consapevolezza che lo straniero – una badante moldava, che piano piano conquista la fiducia della voce lirica narrante, il nipotino dell’anziano di cui Olga si prende cura – da oggetto misterioso («una tipa») diventa una ricchezza non tanto perché addomesticandolo ne riconosciamo la somiglianza con noi, quanto piuttosto perché attraverso la sua diversità ci costringe ad allargare lo sguardo. In questo modo ci fa scoprire altre realtà (anche solo un sapore nuovo, come quello del tè georgiano) e per riverbero zone non ancora illuminate della nostra geografia interiore: quindi, grazie alla sua presenza, in fondo siamo noi a riconoscere la nostra somiglianza con lui, a vedere quanto di straniero abita potenzialmente in noi. Non dobbiamo dimenticare che, come insegna la psicologia, è propria la distanza – una forma della diversità, della non identità – ad innescare nei piccoli della nostra specie il processo di crescita: se non ci fossero assenza da colmare, attese da riempire, viaggi da compiere, noi non potremmo maturare. L’incontro con Olga è paradigmatico non soltanto quindi per gli esiti (le tante qualità, come i cinque idiomi parlati, l’abilità nel preparare i blinì o le capacità di insegnare un alfabeto misterioso, all’inizio invisibili), quanto per le accensioni che provoca: l’innesco decisivo e la forza del libro stanno proprio nel suo incipit, nella sua origine. È la curiosità di capire ciò che non è inquadrabile in categorie già note a costringere il piccolo co-protagonista ad ampliare felicemente la propria prospettiva e a creare un legame profondo con la badante: «Insomma, Olga è una vera scoperta. / Sono rimasto lì, a bocca aperta». Questo non accade solo narrativamente ma anche linguisticamente: i divertissements e gli slittamenti fonici – «Per me è uguale, Moldavia o Moldova. / Tanto non so dove si trova» – non sono in fondo che segnali di questa avventura da compiere, di questo territorio nuovo da esplorare, da ascoltare: le parole vere, con tutte le loro fragilità e i loro errori, sono ponti tesi alla costruzione di relazioni amicali («Una persona anziana va aiutata, / miei cari, / non può fare tutto quanto da sola, / le ci vuole una mano e, magari, / qualcuno per scambiare una parola»), a differenza delle tante parole adulte e perfette che al contrario vengono usate – per esempio dai professori che interrogano la badante durante la discussione della sua tesi di laurea – per nascondere la semplicità della realtà. Gli accostamenti spesso comici – «Giunone Bisbetica» per «Unione Sovietica» – ma anche amari, malinconici – si pensi all’abisso che si spalanca tra gli aggettivi «normale», associato al triste fenomeno migratorio umano, e «naturale», usato invece per quello degli animali – ci portano a riflettere su temi profondi e complessi ma anche sul valore stesso della poesia: cos’altro è quest’arte se non un gioco fatto seriamente, come di solito lo intendono i bambini? Così le lettere dell’alfabeto cirillico si trasformano in una serie di simpatici animaletti sul quaderno, così il bambino, quando non riesce ad esprimere quello che davvero sente nel cuore, si affida fiducioso alle parole di una poesia imparata a scuola, «che sembrava fatta apposta, / sembrava una risposta / già bell’e pronta, lì vicina». Come in fondo fa l’autore stesso, che forse grazie ai versi di questo libro solo apparentemente rivolto all’infanzia chiude un cerchio, tornando metaforicamente – come sogna di fare anche Olga, perché «dover andarsene da là dove si è nate / è un destino da donne sfortunate» – al seme generativo della propria storia umana e poetica, alla propria infanzia: come l’infanzia di tutti, così semplice, così autentica.