
La potenzialità artistica del messaggio spirituale si coniuga, all’interno delle conferenze, alla consapevolezza di una missione rieducativa che le maestose figure dei Profeti avevano assunto nei confronti della società a loro contemporanea attraverso una scelta personale ed attiva dalle chiare implicazioni morali e politiche. La figura del profeta-poeta e quella del critico si sovrappongono, così, in un gioco di specchi che raggiunge la sua più luminosa proiezione nella figura di Isaia: il primo tra i profeti di Israele a comprendere e accogliere pienamente e attivamente il peso della profezia, e l’unico che Debenedetti ritenga realmente dotato di un genio poetico in quanto appartenente «a quella schiera di giganti per cui la poesia non è che un consapevole e volontario sforzo d’arte, ma piuttosto una necessità del loro linguaggio, un altissimo valore interno alle parole che vogliono essere dette».4 È in queste pagine sui Profeti, e proprio in particolare tra le righe dedicate ad Isaia, che si delinea e condensa il «destino di critico»5 che Debenedetti è e vorrà essere.
Ponendosi nei confronti dei libri profetici come di fronte a dei veri e propri testi letterari, li analizza servendosi di numerosi riferimenti ermeneutici, che spaziano agevolmente dalla filologia all’antropologia. Nonostante questo, sceglie di adottare una postura inedita che mira a ridimensionare e in parte svalutare la possibilità di cogliere il testo affidandosi in maniera esclusiva ad un’adeguata preparazione culturale. Andando oltre un modo di far critica che si serva di una sterile applicazione di metodologie disciplinari o di scienze alla letteratura, Debenedetti reclama il valore gnoseologico dell’arte come mezzo di conoscenza e come testimonianza di Destino. Il proposito della ricerca debenedettiana, che diventa l’unico mezzo concretamente funzionale alla sua critica, si rivela, già in questo giovanile lavoro, l’istaurazione di «un colloquio umano» con l’animo del profeta-poeta, «che abbia i suoi momenti affabili; e non sia soltanto un arduo incontro di una coscienza con una coscienza».6 Ne va da sé che il percorso delineato da tale approccio, poiché procede per immagini, metafore ed intuizioni, sia più rischioso e non di rado possa imbattersi in errori ed inesattezze, ma è pienamente funzionale ad una visione totalitaria dell’arte come della vita. In tal senso, la strada dell’autobiografia è una continua tensione alla costruzione di tale Destino, è una via che parte dall’attività del soggetto e che, intravedendo un centro di verità nell’oggetto frantumato privo di significato e preso dall’angoscia tutta moderna di afferrarlo e ricostruirlo, finisce per reinventarlo attraverso una propria allucinata visione che, più che esprimere le istanze dell’autore, finisce per rappresentare quelle del critico. È una facoltà intuitiva che non sbaglieremmo a definire profetica e che, attraverso delle congetture, mira ad un’interpretazione autobiografica che possa intercettare una totalità forse non più raggiungibile.
Debenedetti è un perfetto interprete di tale angoscia ed è un uomo della modernità a pieno titolo. Non a caso, è tra i primi a parlare dell’orfanezza dell’uomo e del personaggio del Novecento, di un’affezione dell’anima che vive in prima persona ma della quale non si «lamentava come di un fatto personale: preferiva iscrivere l’epidemia in un quadro collettivo, persino astratto».7 Debenedetti tenta di ritrovare la propria storia in quella degli autori che condividono con lui la stessa condizione esistenziale: Saba, Kafka, Proust, Michelstaedter, nonostante le riserve, anche Svevo. La scomparsa del Padre, che aveva tutte le risposte, lascia il mondo in un confuso groviglio di domande e non è un caso che gli intellettuali ebrei che condividono con Debenedetti spirito e natali, figli di un popolo sradicato ed esiliato, abbiano dato il più grande contributo al tema del Padre e a quello della sua assenza. La malattia della personalità di Debenedetti, che è la stessa di un’intera epoca, va oltre le sue vicende biografiche ascrivendosi alla dimensione universale ed umana della modernità.
D’altronde, personaggio emblematicamente moderno e simile a tanti antieroi del Novecento, è il suo Amedeo, protagonista del racconto edito nel 1926. «Appena scritta quell’opera – fa dire Giacomo Noventa all’aspirante narratore Debenedetti – il mio personaggio ha cominciato a diventare per me un incubo, e… ho dovuto difendermi a lungo da lui, come da una persona viva».8 Amedeo, per ciò che rappresenta e per ciò che cela, è alter-ego e allo stesso tempo antagonista di Giacomo. Li accomuna quella stessa disposizione fatalistica, quello stesso sentimento «profondamente e drammaticamente religioso, […] in cui l’attesa delle liberazioni del destino si carica d’angoscia, di sgomento come di fronte ad un insondabile mistero, e in cui non s’aspetta la benevolenza degli esseri umani, ma segnali dell’Assoluto dei quali divinare faticosamente il senso».9 È un fatalismo che nasce dall’attesa e muore nell’attesa: quando giunge quel segno divino simboleggiato dalla circolare “a palla di neve” che gli promette fortuna, Amedeo non solo lo scansa, ma lo distrugge. Giacomo-Amedeo interrompe la catena di eventi del fato attraverso un gesto enigmatico che, considerando l’apparente propensione del personaggio e dell’autore al fatalismo e alla superstizione, risulta certo di difficile interpretazione.
Nelle conferenze del 1924, scriveva il giovane Giacomo di fenomeni preceduti da «lunghe catene di cause» e seguiti da «lunghe catene di effetti» nei quali «i nostri atti sono circonfusi da molteplici passioni e sentimenti […] dei quali noi stessi […] ignoriamo le sorgenti, le destinazioni».10 L’esistenza terrena e quotidiana in cui l’uomo si lascia trascinare rischia di non confrontarsi con nulla di più alto e di più universale, ma solamente con una vana ed immorale, in quanto individuale, catena di eventi che si susseguono l’un l’altro. La profezia di fortuna prospettata dalla circolare che Amedeo decide di spezzare non desta le coscienze, non le tedia e non le guida alla moralità, ma le addormenta. La profezia di sciagura, invece, scardina le certezze dell’uomo, lo spinge ad interrogarsi su quali siano quelle sorgenti e quali le destinazioni, e gli concede la possibilità di intervenire. L’esperienza dei Profeti, che aveva tanto affascinato Debenedetti in giovinezza, poneva l’umanità proprio davanti al problema e alla conquista del libero arbitrio: avvertendo l’uomo di un futuro tragico e funesto, gli concedeva l’opportunità di redimersi, di pentirsi e di tornare sui propri passi alla Giustizia. «Al concatenamento irreversibile della fatalità, la profezia oppone, in un gioco serrato e implacabile, la botta-risposta della libertà»11 di scelta e dell’Azione, così che «la sua facoltà di vedere non è necessariamente legata all’avvenire; ha il suo valore proprio, istantaneo».12 In questa rivalutazione dell’attualità sta l’impegno civile, vissuto «con trepidazione, con inquietudine, con angoscia»,13 della critica debenedettiana: in una visione profetica che, oltre a fornire un oracolo sul futuro e una spiegazione del passato, «palpita, cerca, trema»14 davanti al presente, di fronte al dispiegarsi del proprio Destino: quella parola indispensabile e preziosa alla base della propria missione di autore, di critico e di uomo.
1 P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Venezia, Marsilio, 2015, p. 34.
2 M.E. Debenedetti, Cronologia, in G. Debenedetti, Saggi, Milano, Mondadori, 1999, p. LIII.
3 «Se sapessi farmi una bandiera io che, in fondo sono spaventosamente timido, scriverei, su quella, la parola ‘introspezione’. Ditemi, non avete speranza anche voi in queste strade?» (P. Mauri, Cesare Angelini una vita piena di stile, in «La Repubblica», 23 novembre 1996; cit. in P. Frandini, Il teatro della memoria cit., p. 35).
4 G. Debenedetti, Profeti, Cinque Conferenze del 1924, a cura di G. Citton, Milano, Mondadori, 1998, p. 87.
5 T. Debenedetti, Debenedetti biblico, in «Studi Cattolici», XLII, 1998, p. 802.
6 G. Debenedetti, Profeti, cit., p. 113.
7 W. Pedullà, Giacomo Debenedetti, interprete dell’invisibile, Venezia, Marsilio, 2015, p. 42.
8 G. Noventa, I calzoni di Beethoven, in «La riforma letteraria», 10-12, settembre-dicembre, p. 27; cit. in P. Frandini, Il teatro della memoria cit., p. 84.
9 T. Debenedetti, Amedeo, i presagi di un critico, in «Sincronie», IV, 8, 2001, p. 40.
10 G. Debenedetti, Profeti cit., p. 17.
11 A. Neher, La no man’s land e la no god’s land profetiche, in Id., L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato, Marietti, 1983, p. 160.
12 A. Neher, Introduzione, in Id., L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, Marietti, 1984, p. 9.
13 E. Golino, Giacomino e Pierpaolo: anatomia di un incontro, in Giacomo Debenedetti e il secolo della critica. Atti del convegno di Roma, 21-23 febbraio 2001, in «Nuovi Argomenti», 15, 2001, p. 106.
14 A. Moravia, L’uomo civile, in Giacomo Debenedetti 1901-1967, a cura di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 105-106.