La postura del ricordante
Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta
Pietro Clemente

Prosegue oggi la proposta di una selezione di testi pubblicati nelle prime annate dell’«Ospite ingrato» in sola versione cartacea. Riproponiamo qui il saggio di Pietro Clemente, La postura del ricordante, dal numero II, 1999 (pp. 65-96).

Per Bruno Caminada

I. Pieve Santo Stefano

Ho scritto i diari della seconda guerra mondiale e la campagna di Russia e la prigionia per far capire ai miei figli, i nipoti e pronipoti, ecc. che cos’è la guerra e far capire che fine hanno fatto i 60.000 dispersi in Russia e le molte sofferenze passate. Io non odio i russi e prego a tutto il popolo italiano e specialmente i parenti dei dispersi di non odiarli. Io prego solo per la pace, pace e sempre pace.
Francesco Stefanile

Archivio Diaristico Nazionale, Pieve Santo Stefano, settembre 1998, la giuria nazionale decide di premiare una memoria di un reduce dalla prigionia in Russia. Francesco Stefanile un affabile signore napoletano di 76 anni, di famiglia contadina e poi operaia andato in pensione come esattore nelle autostrade meridionali. Racconta che la notte quando poche auto transitavano sulla Napoli-Salerno scriveva nel semibuio del gabbiotto di esazione i suoi ricordi della guerra. Lo faceva tra il 1960 e il 1980 dai 15 ai 35 anni dopo quella esperienza indelebile, ma anche – come Primo Levi ha mostrato – difficile da raccontare. Tra i dieci testi che il Comitato locale di lettura aveva segnalato, tra i duecento pervenuti alla Giuria nazionale, ce n’erano altri, scritti a tanta distanza dagli eventi indelebili e insieme irraccontabili: Dora Klein nata nel 1913, ebrea polacca, in Italia tra gli anni 1936 e la deportazione ad Auschwitz ha scritto tra il 1983 e il 1989. Non è venuta al Premio, aveva 85 anni era malata e nella sua storia c’è anche un dolore di vita, legato a un amore combattuto per un italiano, padre e marito ma con molti contrasti, che ha lasciato traccia nel tempo e nelle generazioni. «Anche se volessimo raccontare non saremmo creduti» scriveva Primo Levi cercando di sintetizzare l’incubo degli internati nei campi di sterminio che diventava paura dei ritornati. Parlare troppo, parlare troppo poco, ricordare. Forse la memoria di eventi così terribili ha bisogno di una elaborazione lunga e lenta, di una volontà di lasciare alle generazioni una testimonianza che si venga maturando lungo gli anni: al di là del dolore, al di là del pudore.

La citazione con cui ho cominciato è “graffita” da Francesco Stefanile nella scheda che accompagna il suo dattiloscritto e che l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve chiede di compilare a tutti coloro che mandano dei testi. È la riposta alla domanda «perché ha mandato il suo memoriale», ma per noi è anche la risposta al “perché” ha scritto, lui come tanti uomo di poche lettere. É ancora Primo Levi a dar conto di questo bisogno riferendosi alla Ballata del Vecchio Marinaio di T.S. Coleridge,1 che ritorna ne I sommersi e i salvati:2

Since than, at an uncertain hour
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns…

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo. Il testo di T.S. Coleridge ritorna significativamente negli ultimi scritti di Gregory Bateson come guida alla comprensione del sacrilegio compiuto dagli uomini sul loro mondo naturale violato e a un concetto laico e “naturale” di religione.3

Stefanile scrive, cioè racconta. In quest’atto lo Stefanile quasi ragazzo che aveva scelto di andare volontario in Russia e non in Africa perché non sapeva nuotare ed aveva paura di traversare il mare, quello che racconta con toni mai letti prima dell’amore del padre, il giovane pieno di buon senso e di vitalità sopravvissuto a mille, diecimila morti sul fronte russo, e poi ai campi di concentramento nella Russia e nell’Asia comunista, è morto, è altro mentre lui scrive, straniero ormai anche a quell’uomo mite e ironico che conosciamo sul palco della piazza di Pieve. Il soldato volontario che ha visto morire tra le sue braccia sulla neve russa un ragazzo calabrese che invocava la mamma e che si è finto sua madre per raccoglierne l’ultimo rantolo («Avevo fatto la parte della madonna – ci racconta – in una sacra rappresentazione al paese, mi riusciva semplice fingermi la mamma di quel ragazzo che gridava e invocava»), è morto, è altro, è straniero anche a colui che c’è al suo posto: un uomo che ha vissuto, un uomo che deve raccontare quel se stesso che è morto, che è altro, che è straniero. Stefanile scrive la sua esperienza e mentre lo fa essa si va traducendo in testimonianza. Raccontare è aggirarsi nello spazio di un sé che non c’è più, è elaborare una assenza che è diventata memoria.

Dentro il gabbiotto dell’autostrada Francesco Stefanile, già nonno, graffisce il suo foglio di carta, evoca uno scenario infernale, lo infarcisce di poesie, di sogni, di ideologia della pace guardando dentro quel sé trascorso. Ma la scrittura si produce verso il futuro, nel tempo notturno della sua veglia, mentre le scene che guidano la penna vengono dal passato, da un passato lontano, e via via si avvicinano. Per produrre il futuro della sua testimonianza Stefanile deve volgere il suo sguardo al sé passato, guardarsi indietro, coniugare il passato remoto, ma dentro il dominio del futuro anteriore, del carattere profetico di ogni storia che racconti dall’inizio un tempo già compiuto «oggi partii per la Russia, domani sarò stato in Usbekistan, dopodomani sarò tornato a Salerno, e un giorno la mia testimonianza sarà stata scritta». Il tempo si contorce nel ricordare, come in alcune poesie di Franco Fortini. La “postura” di Stefanile è quella che mi piace chiamare la “postura del ricordante.”

II. Il colonnello racconta

In uno dei suoi racconti italiani Edith Wharton fa parlare il colonnello Alingdon, americano vissuto nel contesto dell’Italia risorgimentale. Uomo schivo egli si accinge a narrare per la prima volta una storia d’amore che lo concerne nella scena dell’eroismo nazionalista del risorgimento italiano.

Sedeva in silenzio, riflettendo, le punta delle dita congiunte e gli occhi fissi su un passato che era ormai l’unica cosa ad essi visibile.4

Gli occhi guardano il passato “dietro” di noi, ma all’apparenza essi guardano l’interlocutore, davanti a chi racconta, e le parole procedono verso il tempo futuro, al cui passato saranno poi consegnate. La “postura del ricordante” richiede una torsione della temporalità, tornare e insieme esserci, essere là ed essere qui, procedere verso il futuro con la memoria di un passato. Sono le parole che consentono questa torsione: «Il tempo assume una topografia. Ma è il linguaggio che gliela dà, a lui, per primo, che “ha dato luogo al tempo”».5 La poesia del Novecento è ricca di queste torsioni, l’io si costituisce attraverso di esse. Sono rimasto colpito, rileggendo da adulto Pascoli, di quanto nella sua poesia sia presente questo modo di costituirsi dell’io in una duplicità e una frattura (il passato versus il presente), e insieme del gesto poetico: le poesie per la morte della madre (San Mauro) e L’ora di Barga indicano lo sdoppiamento del soggetto che pensa il tempo, e che si unifica in una torsione ricompositiva: in una postura.

Antonietta C., Nenetta per noi, ha allevato Giovanni Lussu, mio caro amico e figlio di Emilio Lussu l’autore di Un anno sull’altipiano, Marcia su Roma e dintorni, e tanti altri lavori storico-politici, autore anche della raccolta di racconti autobiografici Il cinghiale del Diavolo, che Einaudi non ha più ristampato nella sua affascinante interezza antologica. È figlio di Joyce Lussu, di recente scomparsa, donna di grande militanza pacifista, narratrice e saggista: un bell’esempio di libro coniugale è la raccolta Alba Rossa,6 curato però interamente da Joyce molti anni dopo la morte di Emilio.

Diciamo che ora è il maggio 1998: con quasi trenta ragazzi dell’Università di Roma siamo ad Armungia per uno stage di formazione alla ricerca: «Armungia, il paese di Emilio Lussu», questo era il titolo del corso universitario dedicato a “immaginare paesi” promosso da me come docente di Antropologia Culturale. Siamo nella antica casa dei Lussu ad Armungia, unica in paese che è scampata alla passione del moderno, Emilio ha obbligato a tenerla intatta e a curarla perché restasse una testimonianza, Giovanni suo figlio ha chiamato una ditta specializzata nel restauro e nell’intonacatura “all’antica” per la manutenzione. In una corte piena di rose, in boccio, mature e sfiorite come le età della vita, Nenetta che mi ha visto ragazzo, mi accoglie, ci accoglie e accetta di raccontare:

Io a ventisei anni ero proprio ingenua ingenua… non conoscevo che Armungia, e non eravamo gelose se avevamo un vestito solo da mettersi, non ci importava niente bastava quello… però era quasi tutto il paese così… e quando sono arrivata a Roma, ihh, ma ce n’è voluto pure lì, perché io pensavo ad Armungia. Mi aveva detto Joyce: adesso ti fai un tailleurino… No, ehhh, no. Ma ti rendi conto che sei a Roma e non ad Armungia!… Eh io sono andata con zio Emilio nel febbraio 1945… e poi nel ’46 sono andata alle Marche che Joyce faceva la campagna elettorale, monarchia o repubblica, ehh, e io avevo Giuanniccu, Giovanni…

Dicevi che tuo babbo è morto giovane, dopo tornato dall’Australia, come l’ha vissuto la mamma?Te lo raccontava tua mamma del babbo, tu non l’hai conosciuto?

Me le raccontava lei… ecco quello che più ho vissuto io è la morte di mio padre e la sofferenza di mia madre perché sai quando ero piccola ero gelosa di chi aveva un padre… giocavo con le altre bambine e tornavo a casa e dicevo a mia madre perché tutti avevano un padre e io no… avevo la fotografia. Allora non c’erano neanche le pensioni, a me poi a scuola, perché davano a volte i quaderni gratis, le matite, non mi hanno mai dato niente perché ero parente di Emilio Lussu perché lui era contro Mussolini.

Prima hai fatto un elogio della lavatrice perché dicevi che tua nonna è morta tornando dal fiume a 80 anni?

Si era piccolina mia nonna insomma, aveva piovuto allora e scendeva a un ruscello qui vicino a dove è l’orto di zio Emilio, era andata lì a lavare, a lavare i panni… e vicino quel pozzo lì dove passate c’era la bottega e chiede, dice, à nau (ha detto) dammi un pochettino d’acqua – che lei si sentiva male – e, nonna venga che le faccio il caffè, no à nau – caffè non lo voglio e gli ha dato acqua, arriva più su sulla strada, un’altra bottega che insomma questa pure gli offriva il caffè, no, arrivata a mezzo del cortile di casa sua è caduta, è morta d’infarto. Eh allora i tempi erano difficili, uno si arrangiava, faceva la biancheria a un’altra famiglia, a questi uomini soli, mia nonna ha fatto il pane a questo uomo che era solo, adesso è diverso, allora si arrangiava così.

[Trascrizione di Elena Bachiddu]

Nenetta racconta e mi guarda, guarda questi giovani romani, lei che ha dovuto diventare romana, ma i suoi occhi sono opachi, talora leggermente velati dall’emozione, perché la sua retina rovesciata vede immagini che vengono dal passato, guarda il passato dietro di sé, torce il tempo per raccontarcelo, farlo diventare futuro, futuro delle nostre memorie, futuro anteriore delle nostre trascrizioni: postura del ricordante.

Entro l’anno il racconto di Nenetta sarà trascritto, quando sarà stata trascritto forse Elena vorrà usarlo per la sua tesi di laurea. Oggi che lo scrivo è l’ottantesimo compleanno di Nenetta.

Nenetta custode di una casa sottratta al tempo, unica abitante del mondo mitico del Cinghiale del Diavolo, fiore antico che vien raccolto in forma di una testimonianza che ora si fa memoria comune. Nenetta la cui testimonianza gira intorno a un destino che l’ha voluta in casa Lussu, che vien raccontato, nel passato, come se fosse traversato da segni premonitori, aperto a un futuro destinato. A Nenetta nell’intervista chiediamo di restituirci la sua individualità oltre il destino che l’ha legata a Lussu: la storia del padre e della madre. Armungia è ora per noi, in questa penombra di casa Lussu circondata da fiori, in presenza di questi intonaci pastello intensi, della bocca del forno, della brocca dell’acqua, che raccolgono tante nostre infanzie, con questa voce che lascia scappare il sardo (à nau) negli intercalari, Armungia è ora anche il paese di Nenetta, come Emilio avrebbe voluto. Lussu amava le molteplici umili vite del suo paese natale e non voleva sovrapporsi al mondo che l’aveva fatto nascere. Forse non avrebbe voluto avere una via una piazza e sei vicoli (Vico sesto Emilio Lussu) e avrebbe magari gradito che le strade fossero dedicate ai cacciatori e ai pastori del Cinghiale del diavolo, o a Nenetta stessa e alle donne, cui Joyce Lussu ha spesso dedicato parole di riconoscimento per la pluralità delle loro fatiche e per la loro sensibilità.

III. L’oliva del tempo

Non so niente della “memoria” anche se mi occupo di “memoria storica”. Ma da quando mi occupo di queste cose ho sempre preferito usare l’espressione “ricordo”. “Ricordare” è per me l’aspetto culturale della memoria (in quanto attività cerebrale). Ma nello studiare il ricordo io stesso sono sovrastato dai ricordi. Lo scritto più significativo della mia ricerca con l’uso delle fonti orali ha un sottotitolo esplicativo: Frammenti di idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologica. Ma il bello sta nel titolo: L’oliva del tempo.7 Questo scritto del 1986 segna una tappa nella mia scrittura, avevo allora 44 anni, segna il ritorno di memoria della mia formazione giovanile e la sistematica connessione tra la mia memoria e quella che vado studiando. Per me il “ricordare” è legato a Guillame Apollinaire letto a vent’anni, iniziato da Giorgio Ernesto R., un compagno del primo anno di studi di Architettura al Politecnico di Milano, Facoltà che frequentai per fortunato errore per due anni.

passons passons puisque tout passe
Je me retournerai souvent
Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le hruit panni le vent…8

e

Vous voilà de nouveau près de moi
Souvenirs de mes cornpagnons mons à la guerre
L’olive du temps
Souvenirs qui n’en faites plus qu’un…9

Li ricordo ancora a memoria in francese e in una mia traduzione italiana, questi frammenti di versi che nel 1986 si imposero alla mia scrittura “scientifica” sulle fonti orali. L’oliva del tempo, il mio scritto, è dedicato anche a 1984 di Orwell, cioè allo stesso scritto al quale quest’anno ho dedicato, in un corso universitario sulla scrittura popolare, a Siena, la riflessione di J.F. Lyotard Glosse sulla resistenza,10 in quel testo Lyotard riglossa le glosse di Lefort su 1984. In Lyotard tornano nella scena la parola e la scrittura, che nell’opera di resistenza alla Neolingua e di salvazione della possibilità dell’evento (o dell’evento della possibilità: giochi benjaminiani), si coniugano con il corpo e con l’amore, frontiere irriducibili dell’individuo e dell’evento aperto al cambiamento, resistenza contro le democrazie mediatiche e l’universalismo astratto. Qui la memoria è insieme scrittura e corpo, e l’amore non è altro che l’incontro di essi (scrittura come destinazione all’altro, ricerca dell’incontro, corpo come memoria profonda, singolarità irriducibile che si apre all’altro).

Così almeno ho annotato Lyotard della Glossa in un appunto che ho assemblato con tanti altri nella cartella – dossier che si apre confusa e disordinata al ricordo di ciò che voglio scrivere ne La postura del ricordante il testo che ora sto scrivendo.

Dopo L’oliva del tempo ho scritto varie cose e ho più ancora studiato storie di vita, memorie, sia scritte che sollecitate davanti a un registratore.11

Ho prefato e postfato storie di anziani ospedalizzati, ho prefato e postfato storie di militanti della sinistra, ho discusso a Rovereto storie di contadini aretini che si erano scritti in diari e memoriali, contadini cui devo irreversibilmente la mia convinzione che gli scritti di memoria della gente comune sono opere letterarie bellissime e impreviste, e che il mondo letterario non ha la pietas, la teoria e la pazienza sufficiente per imparare a leggerle come io le leggo. Sono i contadini e altri lavoratori, nella collana della Biblioteca comunale di Terranuova Bracciolini (Arezzo) curata da D. Priore e C. Fabbri, un lavoro di passione locale che ha un livello di professionalità editoriale straordinario, quelli dai quali ho inizialmente appreso l’arte del raccontarsi con una scrittura priva del nostro mondo di studi e di letture, presa dall’aria, dalla vita e dal bisogno di testimoniare. Ho prefato una vita raccontata da una ex contadina di San Gimignano, quasi certamente una delle più ampie e ricche “biografie orali” documentate in Europa. La memoria dei singoli continua ad essere per me un deposito eccezionale di insegnamenti sull’antropologia, sulla vita delle storie e sulle storie della vita. In seguito ho avuto l’opportunità di collaborare con le istituzioni che in Italia hanno promosso e valorizzato gli archivi di memorie: in particolare la Federazione Nazionale degli Archivi della Scrittura Popolare nata a Rovereto e che oggi è ospitata a Trento nella sede di un Museo, e l’Archivio Diaristico Nazionale nato a Pieve Santo Stefano (Arezzo) per iniziativa di Saverio Tutino, giornalista, scrittore e autobiografo.12 Sono questi tra i pochi luoghi dove io senta il mio interesse di ricerca anche come una militanza. E così, transitando piccoli mondi e diverse storie, ho capito che l’antropologia non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui dentro le singole vite una cultura viene coniugata, raccontata, trasformata. Per me ormai la cultura non è nulla senza gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non possono esistere, ma un corredo che essi agiscono in modi diversi anche a seconda dei luoghi e dei tempi, modi che grossolanamente vorrei chiamare “libertà” (e questo termine mi riconnette anche con una “aurorale” polemica di Ernesto De Martino contro la sociologia e antropologia francese in Naturalismo e storicismo nell’etnologia del 1941, e ora Lecce, Argo, 1997, per cui ci sento l’imprinting di una “differenza” italiana). Ne ho scritto nel primo numero della rivista dell’Archivio Diaristico Nazionale «Primapersona».

Solo quest’anno, con Lyotard e con un po’ di pazienza, mi sono accorto che queste fonti, queste vite, che per me non sono più “memoria collettiva” ma percorso individuale al disegno di una memoria comune (il brusio della memoria comune è fatto dei diversi e distinguibili brusii delle memorie personali: nel gregge il pastore riconosce i singoli suoni dei campanacci, non li confonde mai con un unico suono, né l’uno con l’altro; è solo questione di esercizio all’ascolto) impediscono radicalmente la Neolingua, chiunque la voglia scrivere, anche noi che la combattiamo e che spesso inconsapevolmente siamo tentati di imitarla.

Queste storie rendono il passato imprevedibile. Ecco un’altra torsione del tempo: le grandi narrazioni novecentesche hanno reso prevedibile la storia, il passato, disegnandone le condizioni di possibilità, le regole di comune obbedienza. Ogni racconto di vita, ogni ricordo che ricompare invece smentisce questa intenzione e riapre la leggibilità del passato. Il passato sarà sempre futuro.

Fazio Salvo dei Baroni di Nasari, aristocratico siciliano, ha un bisnipote che ha mandato a Pieve Santo Stefano le lettere che lui mandava intorno al 1840 ai suoi familiari dal grand tour che conduceva verso Nord. Lo stile, i vestiti, le richieste di soldi, le immagini di Firenze o di Vienna, dove stavano scritte prima? Quale Saitta o Hauser o Villari poteva raccontarle o prevederle? La storia generale esiste in quanto è l’applicazione di una categoria convenzionale del pensiero tassonomico, non ci possono essere persone reali che la impersonino, salvo i suoi attori prediletti Cesare e Cavour, Lenin e Valletta, e poi le masse, la borghesia, i contadini: roba che nella vita non si incontra mai.

Ho ripercorso in seguito sui libri di testo tutto ciò che ha dato forma e sostanza alla mia vita. Tuttavia la rete, con l’aiuto della quale gli storici si sforzano di cogliere i fenomeni della realtà, è fatta di maglie troppo larghe –, il mio cortile, tutta la mia esistenza sprofondano attraverso queste maglie, e io risulto sempre un avannotto, di nessun interesse per la storia.

La storia spiega facilmente il destino di una classe intera, ma non può spiegare la vita di una persona. Del resto, Dio ce ne scampi, ciò non rientra affatto nei suoi compiti: infatti, se dovessimo caricare le leggi di un’intera classe sulle spalle di un singolo individuo, questi non ce la farebbe a portare un simile fardello.

Vorrei essere considerato una persona irripetibile. E sono pronto a pagarne il prezzo all’umanità intera. C’è un solo mezzo per rendersi irripetibili, se non altro ai propri occhi, ed è quello di ricordare l’adolescenza…13

IV. Lo scandalo di Civitella

Uno dei miei testi non editi, Ritorno dall’apocalisse del 1994, segna fortemente il mio percorso. Comincia con un esergo:

Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo (Giuseppa Marsili, vedova Mezzi tratto da «Società», 7/8 1946).

Siamo tornati con vari altri, tra i quali Giovanni Contini che ha scritto La memoria divisa,14 a Civitella dopo 50 anni dal 1944 a raccogliere la memoria delle donne sopravvissute alla strage nazista che ha ucciso tutti gli uomini di Civitella. Siamo tornati colpiti dal desiderio delle sopravvissute di tenere una memoria separata ed ostile rispetto a quella della resistenza e di onorare i loro morti ed educare i figli a ricordarli come vittime della guerra e dell’arroganza di un piccolo e avventurista gruppetto di partigiani che provocarono i tedeschi. Una conoscenza scandalosa ma legata alla verità vissuta della morte e del cordoglio ed alla plasmabilità del tempo e alla culturalità del ricordo. Il fastidio dei civitellini verso le celebrazioni della resistenza in cui i “loro” morti vengono iscritti ci ha contagiato, e le pratiche rituali resistenziali sono apparse anche a noi ricercatori come blasfeme e profanatorie, perché la morte produce dei diritti di gruppo, perché le vedove hanno diritto alla loro elaborazione del lutto, e la storia pubblica con la sua Resistenza e le sue Anpi a ricordarla non ha diritto a una sovrapposizione al modo di sentire altrui. In questa memoria locale, come in tutte le memorie locali che emergono, la storia è in fusione, in ebollizione, non può essere dedotta o anticipata, pacificata, bisogna vederla da vicino, e la sfida delle donne di Civitella all’idea della verità storiografica è veramente audace, giacché mostra la propria storia con ricostruzioni più minute di dettagli di quelle di qualsiasi storico, approfitta della somma dei protagonisti dell’esserci stati, rende ancora più positivistici i dettagli del puzzle, così da schiacciare le verità ideologiche e documentarie con i loro stessi mezzi. Costruire una verità locale, e una storia locale contro quelle generali, costruire una tradizione e fondare una verità, ha consentito la gestione comunitaria della memoria e la difesa dell’identità contro il grande schiacciamento individualista e urbano del processo di modernizzazione. Lo ha consentito tanto da permettere una “scoperta” e uno “scandalo” per la nostra conoscenza, e una nuova riflessione sulla morte, sul lutto, sulla comunità nel mondo d’oggi. Qui a Civitella il Grande Fratello era la sinistra resistenziale, ma anche qui non ha vinto. La verità della storia è il ricordo dei sopravvissuti. Il ricordo dei sopravvissuti è una testimonianza viva nel cuore dell’Europa attuale delle stragi continue, nel mondo delle stragi continue, mentre è mummificato il ricordo istituzionale, non ha attualità possibile.

In sostanza la memoria paradossale delle vedove di Civitella è ancora aperta e ci aiuta a capire l’orrore delle guerre vicino a casa, proprio per la sua dolorosa e attuale rivendicazione del senso oltre gli schieramenti e le storie politiche. Invece la storia dei morti della Resistenza non ha più capacità ermeneutica viva, si è chiusa entro un altro tempo, è diventata monumento e non ferita aperta, tema di immaginazione del passato e non di attualità del dolore nel mondo.

V. Fortini

Anche Fortini è un luogo di fondazione di un sé, di un me, intorno ai primi anni ’60, una furia di capire a vent’anni che si incontrò con le sue poesie della resistenza,15 Ma è solo nell’ultimo anno della sua vita, dopo anni in cui siamo stati colleghi tra noi indifferenti a Siena, che lo ho ri-incontrato, e soprattutto oltre la sua morte che mi ha aperto fortemente il desiderio di ricordarlo. Un suo testo, Una facile allegoria, mi aveva aiutato a trovare il senso dei riti dei boschi e degli alberi che andavo studiando; qualche verso oggi figura nell’ingresso del Museo del Bosco di Orgia (Sovicille SI):

Lontani dai nostri occhi vivono i boschi
chiusi con antiche parole, rovine d’altri tempi,
vivono dove non siamo più noi…16

Fuori del Museo ad Orgia, nell’aia è stato piantato un albero per ricordare Fortini, speriamo che cresca e sia chiamato “l’albero di Fortini”. Ma quei pochi versi sono forse quelli che mi hanno iniziato alla scoperta o riscoperta che molto senso dell’antropologia è da cercarsi nella poesia, secondo il principio di quell’investigatore di Dickson Carr che cercava a Regent’s Park lo scellino perso in Piccadilly Circus, perché lì c’era più luce:

E molto si può dire a favore del fatto di cercare le cose dove si sa che non ci sono, si scoprono cose che non avremmo mai saputo.17

Il testo Una facile allegoria contiene luoghi significativi della memoria come possibilità futura: il rapporto allegorico che si crea in esso tra l’arte poetica e il carbone «Disgregata vivezza, calore futuro», la possibilità di ri-ardere delle scritture passate è una traccia nel mondo che coltivo: il senso delle memorie non sta nel conservare il passato, ma sta nel far vivere il futuro. Nel non lasciarlo solo e senza risorse, nel farlo vivere come futuro: cioè come dotato di passato. «Quella che ora vi reco / quasi opaca eco / sarà lo strido d’uno spirito / un grido sommesso e acuto nel cuore degli altri», sarà la memoria che torna come scrittura poetica, come emozione in parole o racconto, come ragione in versi o “ragioni metriche” (parole asciugate, scelte, liofilizzate) a stabilire ponti, a favorire immaginazioni.

Fortini ha un ampio filone poetico del ricordare, che io leggo e rileggo da profano, che mi aiuta a capire anche il mio mestiere di raccoglitore di memorie altrui e proprie. Sono le poesie ultime che annunciano la morte e la sua chiamata, e coniugano il mondo dell’infanzia e la natura biologica e mortale delle vite, ma sono anche tante poesie del ricordo di Firenze, del padre.18

Una poesia di Raboni sul padre morto (La guerra)19 e una di Fortini sulla morte del padre e sul ricordo della casa di Firenze sono state per me esperienze folgoranti e fondative dell’analisi antropologica del ricordare come basato sulle generazioni e sul tempo, nel quale succede che a un certo punto noi abbiamo «gli anni di mio padre» (Raboni), il tempo che si contorce in un ciclo e ci vede dentro la sua legge,

e si invecchia di due, di cinque anni in un giro d’occhi
senza rumore come un ramo di cenere
si disfà nel caminetto già brace coperto.20

In una poesia, Camposanto degli inglesi, Fortini assume la “postura del ricordante”, e anticipa metaforicamente lo sguardo dei morti sul presente. Questa immagine suggerisce che forse nel raccontare il passato noi siamo “morti” al presente e torniamo nei luoghi dell’essere stati, che ci certificano per l’essere stati e così con un paradosso e una torsione affermiamo il futuro del passato, ma negando il presente.

ora è passato
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo

anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze dove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d’alloro.21

Questa pena e desiderio del ricordare che insistono su un tempo che non esiste più sono in verità, nel tempo della poesia, nel tempo del racconto, che è «futuro calore», «vivezza futura». È come il mondo di tante comunità contadine o tradizionali, un mondo popolato dagli spiriti degli antenati e dal nostro stesso spirito di antenati, di noi che lo diventiamo e li battezziamo – quei luoghi – nella nostra memoria e nella nostra potenza di narrazione futura:

E ora nella stanza calma
dell’antenato che sono o divengo

indifesi
ragni esili pendete.22

VI. Colloquio con la madre

Tra le compagnie incontrate alla ricerca dei ricordi e delle torsioni del tempo narrativo del ricordare ho ritrovato, per me essenziali, alcuni film. La torsione del tempo nel suo ripetersi e configurarsi in ciclo e destino della “ominazione” (molto vicino al senso delle ultime poesie di Fortini sulla morte, sulle generazioni, sulla memoria) tempo lineare progressivo e insieme tempo biologico e ciclico mi è rimasta dentro attraverso le enigmatiche immagini del prologo e dell’epilogo del film di Kubrik (anche a lui ora possiamo rivolgere quel grato ricordo e quell’impegno di buona memoria che si addicono al nostro rapporto con “loro”, con i morti) 2001 Odissea nello spazio. La straordinaria immagine della memoria d’essere fondati, del nerudiano doloroso e fiero «confesso che ho vissuto», l’ho incontrata nel mare-mente aliena che attrae i ricordi in Solaris di Tarkovskij. Il ricordo del padre, la casa del padre, l’incontro con una donna, il dolore, il rimorso, la speranza sono nel film di Tarkovskij una incarnazione vivissima di tutte le tematiche di Heidegger riprese in Italia da Ernesto De Martino sull’appaesamento al mondo, la terrestrità, le patrie culturali e il radicamento nella terra (intesa come padre e madre).

Il cinema entra nei nostri ricordi ci fa riconoscere parti di noi, si innesta nelle nostre visioni e nei sogni, ma non sempre glielo riconosciamo.

Sul tema della madre mi ha emozionato terribilmente La messa è finita di Moretti (mi sono riconosciuto come generazione, con un dolore tale da scoppiare in lacrime, forse per la prima volta al cinema). Mi ha colpito e sollecitato alla ricerca l’episodio «Colloquio, con la madre» nel film Kaos dei fratelli Taviani. Quest’episodio prende spunto dall’ultimo testo delle Novelle per un anno di Pirandello, quello intitolato Una giornata, testo anch’esso molto forte per chi indaghi sulla natura del ricordo, o sul rapporto ch’esso intrattiene con la morte e il bisogno di oltrepassamento della morte, la possibilità di tradizione intesa come “diventare futuro”. Ma la verifica dei due testi, quello narrativo e quello cinematografico, che ho perseguito minutamente, e dei due codici che li attuano, produce una differenza impressionante.

I Taviani hanno scritto, nello stesso scenario, un’altra storia, essa non riguarda il padre che rivede stupito le generazioni nate da lui, ma un figlio che torna in pellegrinaggio sui luoghi della madre. Sollecitati da una atmosfera riflessiva di nessi fondativi del sé, i Taviani hanno scritto forse il film del loro rapporto con la loro madre, nella scena della Sicilia di Pirandello.

Una giornata vede il protagonista che torna, e da vecchio, da “ritornante” (come uno dei morti della poesia di Fortini, che sono poi morti alla vita di ora e vivi a quella di allora), in una casa nota dove vede stupito la moglie e i figli piccoli che poi invecchiano davanti lui (ancora come nella poesia di Fortini: «e si invecchia di due, di cinque anni in un giro d’occhi»), hanno a loro volta figli e il protagonista si muove infine dall’orrore dell’essere vecchio e riconoscere la vita passata, alla compassione per le generazioni e la vita che si continua ignara, in un ciclo di torsione tra fanciullezza e vecchiaia dello sguardo:

Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, or già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, Ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figlioli.

Giovanni Raboni lo ha scritto all’incirca così:

Mi sono distratto – oh, per poco appena
quaranta, cinquant’anni e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbagliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo…23

Nel film dei fratelli Taviani invece l’attore Omero Antonutti incontra la madre e si immerge in una nostalgia dei ricordi, fino a mettere in scena il viaggio a Malta attraverso l’Isola della pomice, che sarebbe un ricordo della madre bambina. C’è qui nel colore caldo delle immagini, nella luminosità fortissima ma smorzata da un cielo sempre coperto, nella luminosità del mare e della bianca pomice dell’infanzia, un gioco sottile di ricordo che afferma non tanto la conciliazione e la compassione ma la nostalgia, la “pena” di dovere ammettere il ciclo della vita, e comunque il suo radicarsi nelle generazioni. Ma in Pirandello verso il basso e qui verso l’alto: da lui alla madre e alla madre della madre. Ponendosi nella generazione dei figli adulti e già anziani che vedono nella morte della madre una frattura vitale, una condizione inaccettabile di orfani e di adulti senza remissione, i Taviani scrivono una poetica dell’esser figli di donna, non padri e nonni e portatori di discendenza, come in Pirandello.

Così dice il protagonista del film alla madre, presente nella pellicola ma come incarnazione della memoria,

Non piango per te, piango perché tu non puoi più pensare a me… io (stando lontano potevo dire a me stesso) se da lontano mi pensa sono vivo per lei, ora che non mi pensi più non sono vivo per te e non lo sarò mai più…

e lei risponde

Guarda le cose con gli occhi di quelli che non le vedono più… il dolore te le renderà più sacre e più belle.

È quindi il ricordo come rivalsa alla dissipazione delle vite, e delle generazioni che fisicamente si perdono e solo narrativamente si riaffermano. E la madre invita ad avere vicini gli antenati nel mondo della vita. Ritorno degli antenati nelle nostre storie di guerra con i padri e di nostalgia dell’amore inespresso alle nostre madri.

Sono le generazioni la forza e il modello del tempo, del ricordo, del racconto.

Nella poesia di Eugenio Cirese, poeta in molisano di valore ormai riconosciuto, la vicinanza delle lingue locali con i mondi primari della vita si esprime in alcuni testi assai significativi, sulla madre, sulle generazioni:

Repuote

Com’era doce lla parola
quande me la decìve: iessa sola
bastava a farme areturnà guaglione:
– Figlie miè, figlie. –
Scié morta, mamma
nen songhe chiù figlie…

[Com’era dolce quella parola
quando me la dicevi: essa sola
bastava a farmi ritornaie bambino:
– figlio mio, figlio. –
Sei morta, mamma
non sono più figlio]24

Un testo, qui appena accennato, in cui si coglie la potenza di una relazione interrotta, l’essere orfani, anche da adulti, nel cessare di vivere la condizione di “essere figli” («nen songhe chiù figlie»).

L’uorte

Chi vè? Chi vè?
Zurréia ru canciélle arruzzenite.
Com’a na prucessione
ze sente, ma nen passa.
Na ventata z’abbassa:
nu suspire de fronne.
Pe l’aria lu respire
de le generazione.

[Chi viene? Chi viene?!
Cigola il cancello arrugginito.
Come una processione
si sente ma non passa.
Una ventata s’abbassa;
un sospiro di fronde.
Per l’aria il respiro
delle generazioni]25

Nel mio non-diario di cinquantasettenne poco tempo fa ho scritto:

Mamma, la postura del non ricordante, i suoi occhi nel vuoto di una memoria perduta, occhi che non ricordano annaspano nell’elementare della vita, io le racconto la sua memoria ma lei non la conosce più, quel tempo dentro di lei è morto… mamma anche io sono perso se tu hai perso me nei tuoi ricordi, mamma mamma non ci lasciare…

VII. Due Paulesu

Anche noi siamo persi se si perde la memoria di noi. Ma questa è la legge della vita. Noi cerchiamo di lasciare al futuro quanta più memoria sia possibile. E di immaginare futura la memoria che ancora non possediamo. Immaginare futuro, immaginarla futura. Zio Francesco Paulesu, medico condotto a Meana Sardo, il paese di mio padre e di mia nonna materna, tenne un diario verso gli ottanta anni. C’era il senso degli affetti e della loro rete che si allarga lungo la genealogia, i figli lontani e la guerra, e c’era il senso fortissimo delle stagioni e dei loro beni terrestri: i fichi, i ceci, le fave, il maiale, e infine il senso delle rose che fioriscono e delle rondini che tornano. Zio Paulesu finisce il diario domandandosi se vedrà l’anno prossimo ancora tornare le rondini. In quei pensieri e in quelle note veloci, scabre, centrate sui parenti, la commensalità, e i cibi delle stagioni, egli mi ha incluso come un insetto nell’ambra («arderemo / fino al nido dell’anitra, alla fibra del tarlo», Fortini, Una facile allegoria), e mi ha dato memorabilità futura in quanto bimbo appena nato. Gli studenti del corso di Siena 1998/99 hanno trascritto questo diario e hanno vissuto questa vita passata che si porteranno nel futuro: è il 1944 il mese di Aprile:

2. Bello domenica delle Palme, però niente palme, rami d’olivo. Le rondini ricompaiono.
12. 1944. Arriva Bianca con Pierino e Totore!
13. Pioggia era attesa, fave
21. Bello. Peppe va a segnare i vitelli a Mazzaccara, ceci
22. Nuvolo. Pane fagioli, ancora nessuna notizia di Salvatore né di Vittoria. Ho detto. pane, Nina da mane a sera non si occupa che del forno
23. Bello. La primavera è tutta nel suo splendore, a casa le rose che hanno fiorito tutto l’inverno, fioriscono di nuovo e sono cariche di boccioli.

Pierino sono io, a quasi due anni.

Il figlio di Francesco Paulesu, Salvatore, Zio Salvatore, è stato magistrato a Milano e dintorni per tutta la vita. Passavo la domenica a casa sua quando ho provato a studiare Architettura in quella città così significativa per la mia vita. Forse perché c’era lui mi iscrissi all’Università nel mondo della nebbia che mi suscitò immagini, metafore, poesie giovanili, e non a Firenze o Venezia dove sarebbe stato più logico. Averci un parente è sempre stata la base delle logiche migratorie, anche universitarie. Mi ascoltava come un giudice benevolo zio Salvatore nel salotto di casa sua – escluse le donne – dopo pranzo; vedeva nascere le mie passioni universaliste e la mia ansia di giustizia sociale da diciannovenne, come se fosse un evento processuale o la ricostruzione di qualche attenuante per particolari motivazioni sociali del mio agire, quel mio modo di pensare come un “comunista” (non lo ero ma così non potevo che essere classificato) non gli era incomprensibile, forse per una idea aperta e liberale dell’esser giovani come motivazione adeguata ad essere così utopisti. Mi prestò le critiche di Benedetto Croce al marxismo, un libro che non gli ho mai restituito, ma che segna un buon modo dì rapportarsi a un giovane utopista: non arrabbiarti, ascoltalo, non disilluderlo troppo, dagli un libro da leggere. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica. L’ottava edizione riveduta, è di Bari, Laterza, 1946, ma ha una annotazione in prima pagina a penna con pennino a inchiostro: la firma Salvatore Paulesu e l’anno 1951; sono stato lungamente marxista e non ho mai letto il libro, molte cose che avvengono nella vita sono poco logiche, forse è tempo ch’io lo legga per ricordare chi me l’ha affidato. Grazie ancora Zio Salvatore di avere avuto questa fiducia in me, ancora dopo tanto tempo, telefonandomi dopo la pensione e considerandomi quasi un interlocutore di spinose memorie di una vita, o di desideri di riflettere sulle radici lontane del paese. Andato via io da Milano gli mancò questo ingenuo nipote da ascoltare e cui opporre un cinico e concreto liberalismo da uomo temprato a tutti i modi del vivere, svezzato da processi come “Navi e poltrone” di cui allora si parlava, pessimista più per esperienza e prudenza che per scelta, e mi rimproverava di ingratitudine perché non tornavo più a trovarlo. In pensione aveva preso particolare passione alle memorie del suo paese natale, paese anche di mio padre, Meana Sardo, e desiderava scrivere un libro su Meana, mi telefonava ogni tanto. Ed io sono tornato a trovarlo con Ida e le mie figlie sui 12, 13 anni — forse era verso il 1982, nella sua casa dal mobilio severo e parco, quasi vuota come spesso le case della nobiltà sarda. Aveva 74 anni se davvero era l’82, ed aveva voglia di passato. Ho sempre pensato a lui come al Salvatore Satta de Il giorno del giudizio, un uomo che ha vissuto tutta la vita lontano dalla Sardegna, che ha un altro mondo, ma il cui imprinting iniziale un giorno torna dal profondo, prepotente, e lo costringe a ricordare e a scrivere con tanto più impeto quanto meno lo si è rivisitato: un fenomeno eruttivo. Zio Salvatore voleva ricordare quel sé lontano, quel mondo morto ma ancora presente entro la sua memoria. E cominciò a parlarci in meanese, traducendosi, almeno per mia moglie e le mie figlie:

Lo dovrei scrivere di quando ci rubarono le vacche e Zio Peppe, Taneddu e io ne ricercammo la pista. Eravamo in tre a turno su un cavallo, e Taneddu e Zio Peppe cercavano la pista sul terreno, come gli indiani. Erano una ventina di capi, qualcosa insomma. Le tracce ci portarono in un paese a venti chilometri da Meana dove le perdemmo, allora ci mettemmo a passeggiare nella strada dove passeggiavano tutti all’imbrunire, per farci vedere. Quando la passeggiata finì e tutti se ne erano andati ci avvicina un tizio. Chi siete e da dove venite. Così e così. E l’anno com’è andato. Non ci lamentiamo, il grano è stato abbondante e ci sarà una buona vendemmia ma ora ci hanno rubato venti vacche e le stiamo cercando. Fatevi vedere a casa dopo cena, vi dico dove sto, ecco vedete quella luce laggiù, bussate con il battente due colpi.

Ci sedemmo a mangiare pane e formaggio dalla bisaccia e un po’ di vino dalla borraccia. Quando andammo da lui ci disse che le vacche erano state viste passare da lì e la direzione in cui andavano, più o meno sud ovest, verso Oristano. Le tracce non le trovammo più ma Zio Peppe voleva mettere a soqquadro Oristano perché intuiva che c’era qualcosa. Poi andò al porto e per amicizie indirette gli fecero consultare i bollettini di carico, e lì trovò la descrizione delle sue vacche ed anche la firma di chi le aveva spedite via nave a Palermo, vendute e già macellate se non ricordo male. Tornammo a Meana un po’ delusi, ma dopo qualche giorno Zio Peppe mi chiamò e andammo in un paese vicino, io non conoscevo bene i posti, ero studente di leggi a Cagliari e non avevo più tanta pratica con il paese. Non era lontano e tutti e due avevamo il cavallo ora, forse erano una decina di chilometri. Zio Peppe chiese di un tizio in una casa discreta di gente benestante, fu fatto entrare e aspettammo vicino al camino in sedie basse. Quando quello arrivò Peppe si presentò, ci fu offerto il caffè, e alla fine Zio Peppe disse, per quelle venti vacche fa tanti soldi, e lui – tutti non ce li ho, va bene in tre rate? – Va bene sa dove trovarmi. E così per tre volte mi capitò di vederlo arrivare con i soldi, si sedeva beveva il caffè faceva due parole e se ne andava, poi non l’ho visto più.

Era compiaciuto ora Zio Salvatore del silenzio che aveva ottenuto e del nostro ascoltare, e certo aveva il piacere di chi ha narrato. Perché raccontare dà vita alla morte, e perché quel lui stesso studente, morto ormai da più di cinquant’anni era tornato a vivere e si era insediato nelle nostre memorie. Dicono altri parenti che il finale del racconto non sia vero, che non si intesero e che ci fu un lungo e logorante processo. Ma noi non eravamo documentatori in quel momento, ma testimoni, anche lui lo era e forse preferiva che la sua storia non avesse a che vedere con i giudici. Lui non ha potuto scrivere il libro su Meana e neppure questo racconto. Allora l’ho scritto io. Memoria tramandata. Nella prefazione a Il quaderno dell’insegnante26 ho già raccontato con parole diverse questa storia orale. Come Salvatore Satta, mio Zio Salvatore forse sentiva il bisogno di chiudere il grande cerchio della vita, di ritornare all’inizio, di rendere compatibile la storia dell’individuo maturo con la storia delle tracce iniziali della scena originaria, del padre e della madre («Mia mamma – ci disse sempre quel giorno – non mi ha mai baciato, neppure il giorno che sono partito per la guerra»; altri mondi del dolore e del pudore). Ma chiudere il cerchio è la traccia di un’altra chiusura che si cerca nel passato, in ciò che di noi è già morto e che vediamo con lo “sguardo da lontano”, è restituire l’ultimo barlume di senso, in un’ultima agnizione, alla differenza individuale dentro la specie, quella che si testimonia nelle memorie che “fanno la differenza” perché il resto non è che la grande uguaglianza biologica dei destini della morte, grande livellatrice, cenere cui tornare. Nelle posture ultime del ricordante sempre più si cerca il senso di quella traccia di sé, di quella segnatura irriducibile, così fragile alla distanza della specie da non avere valore alcuno. Creta della creazione che si rivede nell’ambiguo mistero di quelle Crete che Luzi ci ha restituito in poesia:

Grazie matria,
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo,
d’un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno,
sbattuti continuamente
eppure aguzzi
come freccia verso il bersaglio,
non negarmi mai il mio ritorno,
da dove che sia aprigli il tuo regno,
fosse pure il trascorrere di un’ombra
dal nulla al nulla…27

La memoria è il mondo dei morti che raccontiamo da vivi, è la morte continua di noi stessi che ci portiamo dentro, è il mondo degli antenati che diventiamo (anche di noi stessi), ed è quella che ci tempra come nella poesia di G. Apollinaire sul mondo dei vivi che si mescola con quello dei morti, perché è davanti alla morte che la memoria si inverti, la sua trasmissione diventa memoria altrui, vita, racconto.

Car y a-t-il rien qui vous éléve
Comme d’avoir aimé un mort ou une morte
On devient si pur qu’on en arrive
Dans les glaciers de la mémoire
A se confondre avec le souvenir
On est fortifié pour la vie
Et on n’a plus besoin de personne.28

Nel bellissimo fumetto L’Eternauta gli invasori della terra morente — esseri terribili vicini al peggior immaginario dei fantanazisti cantavano un canto struggente e bellissimo di memoria della loro terra e dell’essere vissuti, essi singoli si ricongiungevano alla impronta della nascita comune in un mondo mediandola con una voce singolare che canta un canto di tutti. La poesia e il racconto, la testimonianza orale e scritta di sé, accentua la traccia individuale nella memoria della stirpe, nel senso che Pablo Neruda ricordante dà a «confesso che ho vissuto», traversamento singolare e storico che riconnette, avendola testimoniata, la propria vita – unica e per questo simile alle altre — con quella degli esseri umani. Forse, se l’individuo non può testimoniarsi come tale ritornerà nella forma di “ebreo errante”, di “fantasma vagante”, di “ritorno del rimosso” a cercare qualcuno cui raccontare: «and till my ghastly tale is told / this heart within me burns»? Ma forse non c’è bisogno di questo e nei termini di Gregory Bateson le storie singolari, di cui essa è fatta, tornano alla Creatura che ne è la ragione e il movente e si riannullano nel magma generatore delle differenze.29

VIII. Bruno Caminada

Questo scritto è un fritto misto, o uno zibaldone come si dice senza voler scomodare Leopardi; mi vien da dire, è un “pastiche” come la genealogia regionale di mio nipote Giovanni: mio nonno pugliese venne in Sardegna per lavoro, vi restò, e sposò una sarda, mio padre, nativo di Meana Sardo, studiò a Portici e lì importò per nozze in Sardegna una partenopea di origine lucana, io studiando a Milano ho analogamente importato una piemontese di padre lombardo. Le mie figlie vivono a Siena e ne hanno preso l’accento, la minore ha avuto un bimbo da un senese i cui genitori sono di origine grossetana. La parte della madre di Giovanni è dunque per metà lombardo-piemontese, e per metà lucano-apulo-sarda. Comunque Giovanni avrà, se vorrà sceglierlo, un ottavo di storia lombarda nella sua genealogia. Una quota che lo connette a Bruno Caminada.

Negli ultimi anni della sua vita Bruno Caminada, mio suocero, aveva un desiderio crescente di rivedere i luoghi della sua infanzia, di rivedere tracce del passato, certificarsi il suo essere stato, confessarsi il suo avere vissuto, riconoscere la sua differenza.

Volevo raccogliere la storia della sua vita, e non l’ho fatto, così come non lo farò con mia madre: c’è come una piccola profanazione del sacro, facendo il nostro mestiere di antropologi sollecitatori di testimonianze, a usurparlo per le nostre stesse radici. Non registrerò mai la voce di mia madre, e mi mancherà come è mancata a tanti di tante generazioni la voce della loro.

Veniva dal Lago di Como, da Cadenabbia Comune di Griante, era Battista, detto “el Pin”, il padre, Ida la madre: donna energica che aveva lavorato nell’emigrazione in Svizzera, di famiglia comasca. Come al paese di mio padre in Sardegna anche lì sul Lago la gente si conosceva per soprannomi: Battista era “el Pin del Taj”, e suo padre era soprannominato “el taj” perché usava la roncola con una certa facilità, ed era uomo di gerla per i trasporti di contrabbando in Svizzera. Tutti facevano contrabbando allora, da quelle parti. A Meana il figlio di Taneddu, quello che cercò le vacche con zio Salvatore, era detto Nanni “Coa de Castangia” ovvero Nanni Coda di Castagna, essendo coda il soprannome suo e castagna quello del padre. Mio suocero ha fatto il soldato a Bobbio Pellice (Torino) durante la guerra e lì si è sposato con una giovane, dell’unica famiglia non valdese di lassù. E tra Lombardia e Piemonte ha passato la vita, girando queste due regioni in auto per lavoro.

Ma a Cap d’Antibes, vicino a Nizza, era stato emigrato da bambino, e qui – una volta insieme in macchina girando – cercava il suo passato. A Cap d’Antibes Bruno ritrova e rivede la chiesa, poi il luogo dove andava all’asilo, e dove il prete gli diceva di esser “padre”, e suo padre gli ricordava «dì a quel prete che l’unico tuo padre sono io». Ricorda l’attrazione per l’altro sesso già da piccolo, come un destino dell’essere vissuti. Racconta a noi quel passato, a sua figlia e a suo genero, perché è meglio se altri che ti continuano saranno testimoni del tuo esserci stato, vedranno i luoghi del raccontare la vita, e li tramanderanno. Ora Bruno desidera tornare nella Villa dove suo padre e sua madre, con lui bambino, venendo dal Lago e poi da Milano, erano stati autista e cuoca. C’era già stato con i cugini ma senza che gli fosse aperto il cancello della memoria per vedere la casa, il giardino dei ricordi. Il citofono cui ci rivolgiamo delude l’aspettativa, una voce nega l’accesso, chiede un fax con copie di documenti, ma quando faremo il fax non avremo risposta. Paradosso dei nomi: quella villa che aveva al tempo dell’infanzia di Bruno un nome di famiglia, si chiama ora Villa Hiers. E con quel nome nega la memoria di “ieri” a un suo antico ospite. Villa negata dei suoi ricordi. Mio suocero cerca di riconoscere la sua vita nei posti dov’era stato, ma cercava, ormai in pensione, anche le tracce geografiche di quella di suo padre. Siamo stati con lui ad Orbetello, dove Battista era stato militare ed aveva raccontato di un campo di idrovolanti. La vita è una mappa, si svolge nello spazio, e questo ne assorbe i fantasmi, non solo nel tempo. Ovunque Bruno cercava te tracce del suo esserci genealogico e biografico.

A Pragelato, verso il Sestriere, andiamo da Bobbio in una gita di un pomeriggio, lì Bruno cerca la casa di un collega, ma non la identifica, ma non gli esce dalla mente l’idea di quel luogo in cui era stato, di quel luogo di incontri precedenti, di vite intersecate, testimoniabili. Sul Lago di Conio luogo di sua madre e suo padre, dei suoi “poveri” morti, della sua giovinezza e di un destino senza ritorno (sarà seppellito anche per sua scelta a Bobbio Pellice paese di sua moglie e di mia moglie) lo prende una nostalgia della vita passata, del suo senso, una voglia di raccontarci l’essere stato. Ne conosce a menadito la toponomastica, qualche leggenda locale, la storiella del prete di Nesso. Qui per trenta anni, dalla morte della madre, Bruno Caminada ha creato un luogo e un tempo delle memorie, forse un suo “tempio”, fondato sul cimitero di Cadenabbia e sul 2 novembre. Un luogo di ritorni obbligati e quasi rituali alle proprie radici. Un luogo e un tempo dove ricordare gli antenati e se stessi come antenati futuri, un luogo da tramandare. Ora a Cap d’Antibes, a Siena dove è stato tante volte per noi, a Pragelato, a Bellagio, a Barni donde sembra derivi la sua genealogia a sentire dei Caminada emigrati da più di duecento anni in Olanda con cui si dialoga in e-mail, nei progetti di ritorno alla mia ( e per questo in parte anche sua) Cagliari in viaggio con dei cugini, Bruno Caminada si aggira sbigottito nel suo passato, luogo transitato e progettato, come il protagonista di Una giornata di Pirandello, ma con più coscienza, come in un sogno controllato e voluto, perché quel passato non lo coglie di sorpresa ed egli lo vuole assaporare e riconoscere nei luoghi. Come se a tornare nei luoghi del passato si potessero lasciare sugli alberi, graffite, le firme dell’essere già stati. Una giornata la vita. I suoi ricordi, i miei ricordi dei suoi ricordi, i ricordi delle nostre figlie, e del figlio di mia figlia che per un tempo breve l’ha potuto chiamare un po’ approssimativamente bisnonno. Fotografie di famiglia presentificano i volti di storie che possiamo immaginare e portare nel futuro. Rami del Lago di Como, rami della genealogia delle mie figlie. Ricordare come in un film, la trattoria Marianna a Cadenabbia, la tomba della mamma di mio suocero, un 1968 quando andammo a trovarla in Ospedale a Gravedona, con una Cinquecento nera, viaggiando da Cagliari, e al ritorno in Sardegna, mentre percorrevamo rive di mare in un’estate assolata sapemmo che era morta. La nonna di mia moglie. Si volevano bene. A me ogni tanto quando ancora andavo a casa di Ida, che viveva allora a Milano, buttava di sorpresa dell’acqua di colonia sui capelli e me li frizionava.

Storie di famiglia: cliccando con il mouse sulle hotwords della genealogia virtuale di mio nipote una voce racconta, più voci raccontano, una, forte, è quella di Bruno, bisnonno appena incontrato e subito salutato. Dirà forse questa voce le barzellette basate sui fraintendimenti tra francese e milanese, «Chel odeur de pè e de cu» fraintende un milanese i raffinati francesi che in un museo di Milano percepiscono un odore di spade e di scudi. «Comment s’appellent?» chiedono i soliti francesi a un venditore di noci milanese, «Se pelen minga», «Comment», «No coi man, co un martelet» e continua. E cliccata a Natale dirà del panettone che è il «panatal del dì de natun» anziché il «panetun del dì de natal», come spesso ripeté anche allo stupito ramo sardo della sua discendenza acquistata. Come spesso noi ora ripeteremo ed abbiamo già cominciato a ripetere. Così ce lo porteremo appresso nel futuro e lui tornerà come i morti del due novembre in Sicilia nei resoconti del Pitrè: passerà come formica sotto gli usci ed entrerà in casa e si sentirà accolto come lo era in vita. Forse gli faremo trovare sulla tavola apparecchiata il prossimo 2 di novembre i «nervit co i cigul», o la pastasciutta un po’ scotta come piace ai nordisti.

Come si vede se c’è un posto per il passato questo è il futuro. Certo nel passato non c’è nessun posto per il passato. Nel passato non c’è alcun posto.

C’è già nel primo paragrafo una traccia che allude al ritorno di un testo che, per mia conoscenza, è quello che più si è occupato dei paradossi della temporalità tra spazio e tempo, il testo di Maurizio Bettini su L’avvenire dietro le spalle: rappresentazioni spaziali del tempo nella lingua e nella cultura romana.30 Un testo che, trattando di mondo romano, mi riconnette anche ad un altro lavoro fatto a cura di S. Bertelli e mia in cui il tempo passato fu connesso con le Tracce dei vinti.31

Non posso seguire l’argomentazione di Bettini in dettaglio, ma essa si pone il problema della gestione culturale della temporalità attraverso la lingua e con questa attraverso la cultura, e lavora su avverbi e verbi di tempo, espressioni di tempo legate alla coppia oppositiva avanti/dietro. L’esito del suo viaggio nel tempo dei romani connette l’importanza culturale del ‘davanti’ (nel corpo, nelle cerimonie, nel potere…) alla spazializzazione del tempo nel senso dietro=passato, davanti=futuro. Il davanti è più importante e il futuro anche, come il davanti e con esso:

Se nel modello anteriorità/posteriorità al “prima” viene associato il “davanti” e al “poi” il “dietro”, nel modello passato/futuro la localizzazione si inverte: al “passato” viene assodato il “dietro”, e al “futuro” il “davanti”. In altre parole, nel modello passato/futuro la relazione “prima”, “poi” riceve una localizzazione spaziale rovesciata rispetto a quella che essa riceve nel modello anteriorità/posteriorità…

Questa operazione è anche una segnalazione della importanza data al futuro rispetto al passato, importanza che apre un dibattito nel quadro degli studi storico-religiosi non foss’altro che per il rilievo che essi hanno sempre dato al passato come “decisore” del futuro nel mondo antico (De Martino in Mito, scienze religiose e civiltà moderna dice testualmente «Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale… L’uomo arcaico non conosce atti che non siano stati posti e vissuti anteriormente da un altro».32 In ogni caso Bettini problematizza le torsioni spaziali del tempo, anche se non le propone mai come torsioni ma piuttosto come coppie opposte di segno dinamico inverso. L’espressione paradossale “L’avvenire dietro le spalle”, che è paradossale solo se il tempo sta davanti (ma non lo è spiega Bettini nel linguaggio oracolare perché in esso il futuro si nasconde e quindi non è visibile, sta dietro le spalle), ha la sua simmetrica ne “Il passato di fronte agli occhi” una espressione che qui interessa molto per la postura del ricordante, che avendo il passato davanti agli occhi in realtà deve avere compiuto una torsione, giacché esso sta dietro le spalle per quell’eredità che Bettini ha segnalato. Nelle genealogie e nell’araldica Bettini documenta le due doppie tensioni spazio-temporali, una che promana dall’alto come l’autorità, e una dal basso come le radici di una pianta. In un certo senso il discorso comune, il “senso comune” accetta che i nostri fondatori e antenati (padri, madri, nonni e nonne) giochino con il tempo-spazio delle nostre vite così che ci precedono nella nascita e noi li seguiamo, e ci precedono nella morte e noi li seguiamo) e veniamo sempre dopo di loro, ma se diamo valore alla destra e alla sinistra (questo è un tema che Bettini non riscontra nel mondo romano ma che la nostra convenzione ormai ha assodato) e accettiamo che nella nostra convenzione temporale e scrittuale l’inizio sia a sinistra e il tempo scorra verso destra, i nostri avi sono a sinistra quanto a precederci nella nascita e a destra in quanto ci precedono nella morte, noi siamo nel mezzo. Per evitare confusione l’angelo di Walter Benjamin procedeva verso il futuro (che per me nel mondo ebraico va da destra a sinistra come la scrittura) con il corpo che muove dalla destra verso la sinistra ma con il viso che guarda a destra, nel senso opposto al “progredire” del corpo, il viso così orientato è forse la postura del passato futuro. Vedere il futuro come un passato, senza una tensione “progressista”. Fare come nei versi di Fortini che chiudono questo saggio: «quando di qui si guarda l’età del passato…».

Nel suo percorso Bettini mostra che la postura del ricordante è nota agli scrittori antichi, Lucrezio, Seneca, Orazio, e tra i verbi che compaiono «L’uso del verbo respicere non lascia dubbi: per guardare il proprio passato, bisogna “voltarsi indietro”». Ma il verbo più congruente con le mie annotazioni è di Seneca ed è retorquere: l’espressione «se in praeteritum retorquet» è una descrizione della postura del ricordante, se vi si aggiunge con Seneca «libenter se in praeteritum retorquet» abbiamo l’effetto della nostalgia. Questo volgersi è da Bettini correlato a una idea di saggezza propria della riflessione filosofico-esistenziale e della creazione letteraria. Nel mondo letterario questo tempo è un tempo del “cammino narrativo”, è il tempo del viaggio raccontato.

In effetti se ci si retorquet con Seneca o se «je me retournerai souvent» con Apollinaire, succede che – quando ci si è ritorti – di fronte si ha un nuovo possibile senso di marcia futuro e non un passato. Che girarsi indietro sia guardare al passato è la fondazione retorica di una postura che ha a che fare con il tempo del racconto e con il racconto del tempo, la postura del ricordante non ha coordinate spazio-temporali sottoponibili alla fisica o alla geometria, la sua “torsione” è più che la metafora di un gioco paradossale o di una idea di dinamismo bizzarro, è il luogo di una ‘fondazione culturale’ che dà senso anche alle convenzioni fisico-geometriche della vita. Si potrebbe dire giocando con le parole che il passato non c’è mai fuori di noi, e che quando noi lo evochiamo lo collochiamo sempre nel futuro, anche quando lo facciamo a partire da quell’oggetto atemporale e presente ai miei occhi che convengo ora chiamare un’urna etrusca della quale dico che ha 2457 anni: la mia età più solo 2400 anni. Qualche cosa di impensabile. Anche l’immagine del cammino con i suoi giochi di prima e poi, e le sue precedenze, presenta molte interessanti paradossalità, ma è qui che noi lasciamo Bettini, scusandoci di un uso un po’ strumentale fatto del suo testo, perché queste ultime metafore ci riportano a casa.

«Viaggio insensato la vita, se non ci fosse la morte a darle significato; se non ci fossero questi morti a darle valore».33 Mi pare ora che questo libro, pieno di morti, di memorie dannate, di cadaveri bruciati, di eredi diseredati, di popoli cancellati ma di permanente potenza simbolica dei vinti nell’immaginazione e nella conoscenza, pieno di opposizioni tra indizi e tracce, tra andar sotto e stare sopra, e i tanti disparati saggi di questo strano seminario nato tra Firenze e Gargonza, riattualizzano il mondo del tempo-spazio romano e quello dei paradossi civitellini della causalità. Dov’è avanti e dietro nel nostro mondo? Non sarà guardarsi indietro, «se retorquere», l’unico gesto di futuro che resta a noi moderni che viviamo ogni giorno con una minaccia di bombardamenti, una sfida a un trattato di pace, una strage etnica, uomini che si danno fuoco per un’identità e altri che per lo stesso motivo danno fuoco.

Cos’è il futuro? Il gesto di chi ricorda e così si torce a far diventare possibile futuro un possibile passato è – forse – la modalità del sacro delle parole della madre nel film dei Taviani: «Guarda le cose con gli occhi di quelli che non le vedono più…». Un punto di vista che ci sembra più vivo della nostra vita futura. Durante una premiazione a Pieve Santo Stefano in cui si parlava della storia di vita di Giovanna Cavallo, un lungo diario di amore e di speranza34 e di quello di Vanda Ormanto35 una storia di orrore del matrimonio e di liberazione dall’orrore con la scrittura di un memoriale, il ponte di Mostar veniva distrutto, cadevano bombe a Zagabria, e le mie colleghe di quella città tornavano a sperimentare i rifugi e le cantine, vivevano la guerra e ne scaturiva poi un’antropologia della guerra: che senso ha raccogliere storie a Pieve Santo Stefano (tremila testi che continuano crescere) mentre i paesi europei dove si parla di beni culturali assistono impotenti alla distruzione per esigenze belliche di cose che si proclamano di valore assoluto e appartenenti all’umanità? Raccogliere a Pieve queste storie comuni è un gesto di speranza di sopravvivenza, un gesto che fa parlare la vita contro la morte. Futile di fronte a tanti morti, pieno di speranza se ricorda che tutte le vite hanno un valore e che la morte le rende necessarie e ineludibili. La morte come orizzonte della vita, non la morte come distruzione della vita: la morte nella pace, quella «pace, pace e sempre pace» con cui abbiamo cominciato; l’appello di Stefanile dalla sua memoria lontana per una speranza vicina.

Nelle molteplici storie che si raccolgono e si ricordano un aspetto fondamentale, contro il Grande Fratello, è che non sono solo più i poeti e gli artisti, non solo più Seneca o Lucrezio a ritorcersi verso il passato per testimoniarlo, quella loro idea di saggezza, nel ‘900 dell’alfabetizzazione di massa si estende e si generalizza, e contro la distinzione con la quale la sociologia francese vuole che nel sistema del consumo del gusto le masse non riescano ad autonomizzarsi culturalmente, il modello del romanzo popolarizzato, il diario, l’epistolario della gente comune sono un nuovo gigantesco coro di voci che hanno rotto la barriera della “distinzione” e si presentano come co-fondatrici di storia, letteratura, antropologia, rappresentazione del mondo. Seneca concede a Zio Paulesu e a Bruno Caminada di condividere il desco di una saggezza che nasce in presenza della morte e che si elabora in forma di testimonianza, cosa impensabile nel mondo antico e impensata ancora nei nostri sistemi di conoscenza e di apprezzamento artistico-letterario: radicalismo della democrazia di massa che spalanca con la pressione delle migliaia di storie la porta dell’elitismo dei saperi umanistici.

La dualità dell’io fondata nel cuore della crisi della modernità in ascesa si è massificata, tanti uomini fragili davanti alla morte possono lasciare traccia del loro esser stati con memorie minute, oggetti di famiglia che sono raccolti dai musei, storie che sono raccolte da archivi, ma anche di nuovo memorie di famiglia che verranno trasmesse e raccontate, sensazioni del tempo che contraddittoriamente ci riconquista («ho gli anni di mio padre ho le sue mani»).

Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch’io viva del mio passato;
se c’è sul bronco sempre quel fiore,
s’io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d’ombra romita
lascia (l’io pianga sulla mia vita!
E suona ancora l’ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l’ora! Si ritorniamo
dove son quelli ch’amano ed amo.36

Essere altrove ed essere qui. Essere nel tempo del racconto e aprire un futuro raccontando.

IX. Altre torsioni del tempo e La poesia delle rose

In una lacuna della mia memoria, nella voce di una memoria altrui Ivano Fossati canta:

È una notte in Italia lo vedi
questo taglio di luna
freddo come una lama qualunque
e grande come la nostra fortuna
che è la fortuna di vivere adesso
in questo tempo sbagliato
…e il futuro che viene chissà se ha fiato…37

Alla radio una mattina presto a Roma sento L’addio del passato della Traviata, a me ignoto visto lo scarso dialogo che ho avuto con la lirica dopo essermi addormentato durante l’Aida a Cagliari a 11 anni.

Addio del passato bei sogni ridenti
Le rose del volto già sono pallenti
…Ah della Traviata sorridi al desio;
A lei, deh, perdona; tu accoglila Dio.
Or tutto finì!

Tra i due testi ci saranno 130 anni di distanza a occhio, ma ciò che mi attira in essi sono alcune nuove torsioni della temporalità. Ne La Traviata mi colpisce l’uso del passato remoto per indicare qualcosa che, mentre è cantato, è un presente progressivo ancora in parte collocato nel futuro. Il passato remoto del presente, una torsione dovuta a una collocazione radicale della vita nel passato, dovuta alla morte. Ma in questo gesto verbale di scarto del tempo nel “remoto” si conferma l’idea dei tempo “dietro le spalle” anche se ciò avviene con uno scarto violento che provoca una torsione: io sto dicendo mentre sono viva che la morte che sta per sopraggiungere davanti a me produrrà un tale effetto di passatizzazione sulla mia vita da scaraventarla alle mie spalle. Inoltre mentre canta «Addio» Traviata vede solo il passato dietro e la morte davanti, quindi è in una situazione tipo Giano, o forse è voltata verso il passato e la morte le viene da dietro (cioè avanti) e la colloca definitivamente in quella torsione accentuando il carattere remoto del suo tempo vissuto. Inoltre il testo mostra un “depotenziamento” del presente e del suo valore nel momento in cui in esso entra la descrizione della morte che arriva, Se Dio sorriderà al «disio» della Traviata, sarà come ammettere che «vivere in un tempo sbagliato» merita la pietas più alta, e quindi affermare, come forse Fossati intende, che tutti i tempi sono sbagliati, e quindi la fortuna di viverli è come un paradosso della vita, è la regola ossimorica della fortuna di essere sfortunatamente al mondo. In questo senso la “asfissia” del futuro è anch’essa una regola del vivere nei tempi sbagliati. Forse i tempi di Fossati sono gli anni ’80, sbagliati rispetto ai ’60-70 o ai ’90 (a loro modo sbagliati rispetto agli ’80), cioè un punto di vista generazionale più che una teoria della vita, ma in ogni caso mostrano una ulteriore paradossalità del tempo, nel testo della canzone non c’è passato, solo un “adesso” (fortunato-sbagliato) e un futuro (senza fiato), un senso di tempo corto, in cui la torsione è in una sorta di autoavvolgimento. Qui il futuro del passato va reinnestato in un vuoto fatto dalle generazioni precedenti, che è anche lo spazio dove immettere nuovamente e più consapevolmente la memoria degli antenati.

Nell’Addio del passato la memoria viene cancellata progressivamente dal sopravvenire della morte, e un futuro anonimo si profila già annunciato dalla assenza di Alfredo (assenza della trasmissione della memoria della sofferenza) e anticipato in pronostico di futuro, ma qui si profila nella violenta “passatizzazione” della vita della morente, anche un futuro sbagliato perché Alfredo la raggiungerà e lei spirerà tra le sue braccia, e la funzione di trasmissione così sarà avvenuta. Un “adesso sbagliato” per Fossati e un “futuro sbagliato o almeno parzialmente infondato” per la Traviata che canta:

Non lagrima o fiore avrà la mia fossa,
Non croce col nome che copra quest’ossa!

Quindi la Traviata, mentre le guance impallidiscono, getta nel passato remoto il passato prossimo e anticipa (con qualche probabilità di sbagliare, non sappiamo infatti se Alfredo andrà a ricordarla nel cimitero, mentre però già si fa carico dell’accogliere la sua memoria) un futuro anonimo della sua tomba. È il tema dei “vinti” della storia e della vita la cui memoria l’antropologia cerca di riscattare.38

Uno spunto di Piergiorgio Zotti, poeta e maestro a Grosseto, e mio amico, mi fa riflettere:

Quello che sappiamo fin dagli inizi, fin dall’origine del nostro sentire, è che i morti devono tacere o parlare solo se interrogati dai vivi. Ulisse sgozza e versa il sangue della vittima in una buca perché le ombre si dissetino e parlino, nella mano destra tiene la spada. Se non c’è la spada i morti usurpano il posto dei vivi…39

Forse però bisogna far vincere i morti perché non vinca la morte ed essi tornino acquietati ai loro destini e alla nostra non insonne memoria, far vincere i morti come «trasformare questi cadaveri in antenati», ridare senso al futuro perché ci portiamo dentro il passato. Ma sono ragionamenti che dialogano troppo con il mio testo Epifanie di perdenti40 per non essere altro che un dialogo tra me e me, tra un testo che sta andando verso il futuro (per un testo qui da noi il futuro sta a destra e in basso) e uno che viene dal passato ed è però presente ora nel mio ricordo che lo ri-chiama e nella copia del libro che me lo ri-presenta.

Perché parlino
i morti bisogna respirare
dentro le loro bocche.41

Ma è tardi.

Durante lo stage degli studenti romani ad Armungia le rose legate al ciclo della vita di Nenetta che si racconta, le rose che fanno da scenario a un mondo di case nuove che nega il passato – con le sue case in pietra che a noi di fuori paiono bellissime e a loro paiono simboli di miseria –, le rose come immagine di una nostalgia negata del passato, un bisogno di conciliazione irrisolto con la miseria e l’emigrazione che fa essere loro solidali con il mondo del progresso, della uniformazione e non con quello delle diversità culturali locali che pure vivono, le rose mi hanno sollecitato a riprendere in mano la complicata Poesia delle rose di Franco Fortini.

Sono i suoi ultimi versi a farci da guida in questo punto d’uscita dal testo, senza perdere tutte le sue complesse e condensate torsioni del tempo, anzi accentuandole:

Quando di qui si guarda l’età del passato
veramente diventa possibile l’amore.
Mai così belli i visi e veri i pensieri
come quando stiamo per separarci, amici.
Esercizio della ragione e sentimento
sono due cose e vivacemente si legano
come la rosa è forma di mente di stupore.

Attualità del passato, inattualità del presente, futuro del passato, stupore futuro.

Scrittura parola voce della gente comune, rosa del tempo.

Ho scritto i diari della seconda guerra mondiale e la campagna di russia e la prigionia per far capire ai miei figli, i nipoti e pronipoti che cos’è la guerra… (Francesco Stefanile)42

Note

1 T.S. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, Torino, Einaudi, 1964, cd. or. 1816.

2 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1991.

3 G. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989.

4 E. Wharton, La collezione Raycie. Racconti italiani, Firenze, Passigli, 1996.

5 M. Bettini, Antropologia e cultura romana, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1986.

6 E. Lussu, Alba rossa, a cura di J. Lussu, Ancona, Transeuropa 1991.

7 P. Clemente, L’oliva del tempo. Frammenti di idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologica, in «Thelema», III, 9, poi in «Uomo e Cultura», n. 33-66, 1987.

8 G. Apollinaire, Cors de Chasse, in Id., Poesie, Milano, Rizzoli, 1979.

9 G. Apollinaire, Ombre, ibidem.

10 J.F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987.

11 Ma in effetti alcuni miei scritti sulla scrittura e sulla memoria erano già apparsi, il primo essendo una Nota critica a G. Capacci, Diario di guerra di un contadino toscano, a cura di D. Priore, Firenze, Cultura Editrice, 1982; il secondo in collaborazione con M. Fresta e L. Giannelli, Scritti di contadini senesi. Note sul teatro popolare e altri usi della scrittura, in Oralità e scrittura nel sistema letterario, a cura di G. Cerina, C. Lavinio, L. Mulas, Roma Bulzoni, 1982, Ma del 1984, l’anno di Orwell, è il primo testo sulle storie di vita orali: Per l’edizione critica di testi biografici orali. Appunti, in «Fonti Orali. Studi e ricerche». Poi c’è Scrittura popolare. L’approccio demologico, in «Materiali di lavoro», 1/2, 1987 e l’autobiografia di Dina Mugnaini (della quale già si resoconta nel testo del 1984) realizzata da Valeria Di Piazza in V. Di Piazza, D. Mugnaini, Io sò nata a Santa Lucia, Castelfiorentino, Società storica valdelsana, 1988, in cui ho scritto Autobiografie al magnetofono. Una introduzione, è il punto di decollo di un interesse ormai destinato a innovare la mia immagine dell’antropologia. Poi questa attenzione si amplifica pur restando sempre frammentaria e in editoria di scarso circuito, Tredici storie affettuose, prefazione a A. Nesí, Profumi di altri tempi, Pistoia, Pantegruel, 1988, prelato insieme con Francesco Guccini il libro di Sandra Landi La guerra narrata, Venezia, Marsilio, 1989, Intervento, in I luoghi della scrittura autobiografica popolare in «Materiali di Lavoro», 1-2, 1990, Parole di cose, in M. Vergaci, Quaderni di appunti. Oggetti, tecniche, cultura materiale, Grosseto, Comune di Grosseto, 1990, La vita quotidiana San Gimignano in un occhio tecnico affettuoso, in Alfred Bollinger fotografo a S. Gimignano, a cura di S. Paggi, Poggibonsi, Grafiche Nencini, 1990. Poi l’attenzione alle storie altrui diventa attenzione anche alla mia e coinvolge la mia genealogia universitaria, legata alla storia di Alberto Cirese: Nota introduttiva a La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare, di E. e A.M. Cirese, 1953-55, ristampa anastatica, Isernia, Marinelli, 1991, ed anche attenzione alla letteratura che sta al confine con l’antropologia: La ferita contadina: narrativa e antropologia, in «La ricerca folklorica», 2, 24, 1991. Poi entro in contatto con l’esperienza di Pieve Santo Stefano Oltre la frattura del tempo. Diari e storie di vita di anziani, Collana Diario Italiano, 4, Firenze, Giunti 1992 e cerco di tener presente questa ermeneutica delle memorie diffuse nella pratica scolastica, interpolando ricordi della mia infanzia con ricordi di infanzie altrui: Come si diventa grandi. Un invito all’uso del quaderno di Quintilio, in Sandra Landi, Il quaderno dell’insegnante. Itinerari di lavoro per la cultura popolare e i musei etnografici, Siena, Protagon, 1993, analoghi tragitti sono in molti altri testi degli anni ’90, per esempio Paese/paesi in M. Isnenghi, I luoghi della memoria, Roma, Laterza, 1996. Darò altri titoli tra storia orale scritture popolari e antropologia e letteratura per un’idea di completezza autobiografica: Multiculturalismo identità etnica e storia orale, in «Ossimori», 2, 1993, Presentazione a «La prova de “La Prova”»: letture di una novella di Pirandello, in «Uomo e cultura», 1993, Interventi trascritti, in E Mangiameli, La scrittura popolare, in «Quaderni del dottorato di scienze etnoantropologiche», Università di Roma La Sapienza, 1994, Temps, mènioire et recits. Anthropologie et Histoire, in «Ethnologie française», 3, 1994, Fuentes orales en Italia, in «Historia y fuente oral», 14, 1995, Se ti è cara la vita. Romanzo di Angioni, in «Ossimori», 6, 1995, Mafia Palermo racconti della vita, ibidem, Estremo e anticipatore, in «Testimonianze», 386, 1996, su Intellettuali, cultura e società: la lezione di Fianco Fortini. Undici voci narranti, in S. Abati, Voci dal Campansi, Siena, Bruno, Il racconto di Delia, in D. Meiattini, Barriere invisibili. Cronaca di una vita di donna dalla terra alla politica, Siena, Tipografia senese [s.d. ma 1998], La conoscenza e la vita, in Sandra Chimenti, Salvo Buon fine, Siena, Tipografia senese [s.d. ma 1998], Facendo didattica in «Primapersona», 1, 1998, Il passato imprevedibile, ibidem, 2, 1999. Altri testi di militanza della storia di vita e del ricordo debbono ancora apparire o non appariranno mai; L’autore moltiplicato. Testi biografici e antropologia interpretativa, del 1991 è in una dispensa del 1996/97, insieme con Seminario di testimonianze orali del 1991, «Gli ho letto la vita». Esperienze di un lettore di vite di altri, del 1992, Ritorno dall’apocalisse, 1994, Antropologi a confronto con i problemi dell’immigrazione: incontri, dialoghi, racconti, del 1995, e Venticinque anni di storia orale e di dibattito sulle fonti orali in Italia del 1995. Sono materiali per futuri percorsi, ma sono consapevole che più si ama un argomento e meno se ne scrive.

12 S. Tutino, L’occhio del barracuda, Milano, Feltrinelli, 1995.

13 I. Metter, Il quinto angolo, Torino, Einaudi, 1989.

14 G. Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1998.

15 P. Clemente, Estremo e anticipatore, in Intellettuali cultura e società: la lezione di Franco Fortini, in «Testimonianze», 386, 1996, pp. 61-74.

16 F. Fortini, Una facile allegoria, in Id., Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1978.

17 J. Dickson Carr, Delitti da mille e una notte, Milano, Mondadori, 1984, ed. or. 1936.

18 Ho lavorato di istinto, forse antropologico, su quattro raccolte poetiche di Franco Fortini, si tratta di Una volta per sempre, Paesaggio con serpente, Composita solvantur, e di Poesie inedite, tutte di Einaudi. Spero mi si perdoni l’ingenua invasione di campo specialistico, essa aveva una ragione sia d’omaggio a Fortini, sia d’uso dei suoi testi per pensare. Il non-specialismo critico è anche sottolineato nel mio testo dall’uso frequente di “brani” decontestualizzati, e dall’assemblaggio dei testi poetici che costringe i versi a computarsi in righe. Ho cercato di trattarli come se si trattasse di saggi o di racconti: luoghi, immagini, voci e parole della memoria; ne ho fatto un piccolo corpus con orecchiette alle pagine e segnature a matita dei versi. Infine ho privilegiato alcuni, pochi, testi poetici, ma mi sono reso conto che c’è una problematica ricca e intensa della memoria e della morte, in senso lato antropologica, sulla quale un giorno mi piacerebbe lavorare da outsider come sono in questo settore. In fondo se la gente comune si fa la propria antropologia e la propria letteratura anche io mi posso fare la mia antropologia della poesia.

19 G. Raboni, La guerra, in Id., A tanto caro sangue, Milano, Mondadori, 1988.

20 F. Fortini, Nella mia casa di Firenze, in Id., Poesie inedite, Torino, Einaudi, 1997.

21 F. Fortini, Una volta per sempre cit.

22 F. Fortini, Sono nella stanza, in Id., Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994.

23 G. Raboni, Quare tristis, Milano, Monciadori, 1998.

24 E. Cirese, Oggi domani ieri. Ditte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti, a cura di A.M. Cirese, vol. 1, 11, Isernia, Marinelli, 1997.

25 Ibidem.

26 P. Clemente, Come si diventa grandi cit.

27 M. Luzi, Siena e dintorni, Siena, Edizioni di Barbablù, 1992.

28 G. Apollinaire, La maison des mortes, tr. it. La casa dei morti, in Id., Poesiecit.

29 G. Batson, Dove gli angeli esitano cit.

30 Parte seconda in otto paragrafi di Id., Antropologia e cultura romana, cit.

31 S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994.

32 E nel dirlo si basa su Károly Kerényi, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1980, prima ed. 1962.

33 B. Arnoaldi, Viaggio con l’amico, 1990 citato in M. Catani, «Se anche raccontassimo non saremo creduti»: la lezione di metodo di Primo Levi, in S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.

34 G. Cavallo, Ho sognato i suoi occhi, Milano, Baldini e Castoldi, 1996.

35 V. Ormanto, Il signor marito, Milano, Baldini e Castoldi, 1996.

36 G. Pascoli, L’ora di Barga, in Id., Poesie, Milano, Garzanti, 1981.

37 L’unica fonte scritta che ho trovato su Ivano Fossati e la sua Una notte in Italia è il libro di Paolo Jachia, La canzone d’autore italiana. 1958-1977, Milano, Feltrinelli, 1998. In questo testo viene smentita la mia fonte orale in particolare l’espressione “tempo sbandato” invece che “tempo sbagliato”. Mi avvalgo del diritto dei “demologi” per dire che un testo d’autore entra nella memoria orale con il suo modo d’essere e con l’insieme delle sue varianti. La variante che cito mi sembra migliore dell’originale scritto e congruente comunque con la poetica del tempo in Fossati secondo l’analisi di Jachia.

38 Vedi ancora S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.

39 P. Zotti, Il quaderno del padule, in La Casa Rossa. Memoria d’acqua e di vita, genti, lavori, saperi del padule maremmano, a cura dell’Archivio delle Tradizioni Popolari, Grosseto, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province Siena e Grosseto, 1999.

40 P. Clemente, Epifanie di perdenti, in S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.

41 F. Fortini, Non possiamo, in Id., Poesie inedite cit.

42 Il manoscritto di Francesco Stefanile è ora il libro Davai bistré. Diario di un fante in Russia 1942-1945, Milano, Mursia, 1999. Devo notare che al testo di Stefanile è stato praticato un arbitrario e insopportabile maquillage editoriale. Per gli scrittori “popolari” l’ipse dixit ne varietur non esiste ancora.