La postura del ricordante
Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta
Pietro Clemente
La citazione con cui ho cominciato è “graffita” da Francesco Stefanile nella scheda che accompagna il suo dattiloscritto e che l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve chiede di compilare a tutti coloro che mandano dei testi. È la riposta alla domanda «perché ha mandato il suo memoriale», ma per noi è anche la risposta al “perché” ha scritto, lui come tanti uomo di poche lettere. É ancora Primo Levi a dar conto di questo bisogno riferendosi alla Ballata del Vecchio Marinaio di T.S. Coleridge,1 che ritorna ne I sommersi e i salvati:2
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns…
Stefanile scrive, cioè racconta. In quest’atto lo Stefanile quasi ragazzo che aveva scelto di andare volontario in Russia e non in Africa perché non sapeva nuotare ed aveva paura di traversare il mare, quello che racconta con toni mai letti prima dell’amore del padre, il giovane pieno di buon senso e di vitalità sopravvissuto a mille, diecimila morti sul fronte russo, e poi ai campi di concentramento nella Russia e nell’Asia comunista, è morto, è altro mentre lui scrive, straniero ormai anche a quell’uomo mite e ironico che conosciamo sul palco della piazza di Pieve. Il soldato volontario che ha visto morire tra le sue braccia sulla neve russa un ragazzo calabrese che invocava la mamma e che si è finto sua madre per raccoglierne l’ultimo rantolo («Avevo fatto la parte della madonna – ci racconta – in una sacra rappresentazione al paese, mi riusciva semplice fingermi la mamma di quel ragazzo che gridava e invocava»), è morto, è altro, è straniero anche a colui che c’è al suo posto: un uomo che ha vissuto, un uomo che deve raccontare quel se stesso che è morto, che è altro, che è straniero. Stefanile scrive la sua esperienza e mentre lo fa essa si va traducendo in testimonianza. Raccontare è aggirarsi nello spazio di un sé che non c’è più, è elaborare una assenza che è diventata memoria.
Dentro il gabbiotto dell’autostrada Francesco Stefanile, già nonno, graffisce il suo foglio di carta, evoca uno scenario infernale, lo infarcisce di poesie, di sogni, di ideologia della pace guardando dentro quel sé trascorso. Ma la scrittura si produce verso il futuro, nel tempo notturno della sua veglia, mentre le scene che guidano la penna vengono dal passato, da un passato lontano, e via via si avvicinano. Per produrre il futuro della sua testimonianza Stefanile deve volgere il suo sguardo al sé passato, guardarsi indietro, coniugare il passato remoto, ma dentro il dominio del futuro anteriore, del carattere profetico di ogni storia che racconti dall’inizio un tempo già compiuto «oggi partii per la Russia, domani sarò stato in Usbekistan, dopodomani sarò tornato a Salerno, e un giorno la mia testimonianza sarà stata scritta». Il tempo si contorce nel ricordare, come in alcune poesie di Franco Fortini. La “postura” di Stefanile è quella che mi piace chiamare la “postura del ricordante.”
II. Il colonnello racconta
In uno dei suoi racconti italiani Edith Wharton fa parlare il colonnello Alingdon, americano vissuto nel contesto dell’Italia risorgimentale. Uomo schivo egli si accinge a narrare per la prima volta una storia d’amore che lo concerne nella scena dell’eroismo nazionalista del risorgimento italiano.
Antonietta C., Nenetta per noi, ha allevato Giovanni Lussu, mio caro amico e figlio di Emilio Lussu l’autore di Un anno sull’altipiano, Marcia su Roma e dintorni, e tanti altri lavori storico-politici, autore anche della raccolta di racconti autobiografici Il cinghiale del Diavolo, che Einaudi non ha più ristampato nella sua affascinante interezza antologica. È figlio di Joyce Lussu, di recente scomparsa, donna di grande militanza pacifista, narratrice e saggista: un bell’esempio di libro coniugale è la raccolta Alba Rossa,6 curato però interamente da Joyce molti anni dopo la morte di Emilio.
Diciamo che ora è il maggio 1998: con quasi trenta ragazzi dell’Università di Roma siamo ad Armungia per uno stage di formazione alla ricerca: «Armungia, il paese di Emilio Lussu», questo era il titolo del corso universitario dedicato a “immaginare paesi” promosso da me come docente di Antropologia Culturale. Siamo nella antica casa dei Lussu ad Armungia, unica in paese che è scampata alla passione del moderno, Emilio ha obbligato a tenerla intatta e a curarla perché restasse una testimonianza, Giovanni suo figlio ha chiamato una ditta specializzata nel restauro e nell’intonacatura “all’antica” per la manutenzione. In una corte piena di rose, in boccio, mature e sfiorite come le età della vita, Nenetta che mi ha visto ragazzo, mi accoglie, ci accoglie e accetta di raccontare:
Dicevi che tuo babbo è morto giovane, dopo tornato dall’Australia, come l’ha vissuto la mamma?Te lo raccontava tua mamma del babbo, tu non l’hai conosciuto?
Me le raccontava lei… ecco quello che più ho vissuto io è la morte di mio padre e la sofferenza di mia madre perché sai quando ero piccola ero gelosa di chi aveva un padre… giocavo con le altre bambine e tornavo a casa e dicevo a mia madre perché tutti avevano un padre e io no… avevo la fotografia. Allora non c’erano neanche le pensioni, a me poi a scuola, perché davano a volte i quaderni gratis, le matite, non mi hanno mai dato niente perché ero parente di Emilio Lussu perché lui era contro Mussolini.
Prima hai fatto un elogio della lavatrice perché dicevi che tua nonna è morta tornando dal fiume a 80 anni?
Si era piccolina mia nonna insomma, aveva piovuto allora e scendeva a un ruscello qui vicino a dove è l’orto di zio Emilio, era andata lì a lavare, a lavare i panni… e vicino quel pozzo lì dove passate c’era la bottega e chiede, dice, à nau (ha detto) dammi un pochettino d’acqua – che lei si sentiva male – e, nonna venga che le faccio il caffè, no à nau – caffè non lo voglio e gli ha dato acqua, arriva più su sulla strada, un’altra bottega che insomma questa pure gli offriva il caffè, no, arrivata a mezzo del cortile di casa sua è caduta, è morta d’infarto. Eh allora i tempi erano difficili, uno si arrangiava, faceva la biancheria a un’altra famiglia, a questi uomini soli, mia nonna ha fatto il pane a questo uomo che era solo, adesso è diverso, allora si arrangiava così.
[Trascrizione di Elena Bachiddu]
Entro l’anno il racconto di Nenetta sarà trascritto, quando sarà stata trascritto forse Elena vorrà usarlo per la sua tesi di laurea. Oggi che lo scrivo è l’ottantesimo compleanno di Nenetta.
Nenetta custode di una casa sottratta al tempo, unica abitante del mondo mitico del Cinghiale del Diavolo, fiore antico che vien raccolto in forma di una testimonianza che ora si fa memoria comune. Nenetta la cui testimonianza gira intorno a un destino che l’ha voluta in casa Lussu, che vien raccontato, nel passato, come se fosse traversato da segni premonitori, aperto a un futuro destinato. A Nenetta nell’intervista chiediamo di restituirci la sua individualità oltre il destino che l’ha legata a Lussu: la storia del padre e della madre. Armungia è ora per noi, in questa penombra di casa Lussu circondata da fiori, in presenza di questi intonaci pastello intensi, della bocca del forno, della brocca dell’acqua, che raccolgono tante nostre infanzie, con questa voce che lascia scappare il sardo (à nau) negli intercalari, Armungia è ora anche il paese di Nenetta, come Emilio avrebbe voluto. Lussu amava le molteplici umili vite del suo paese natale e non voleva sovrapporsi al mondo che l’aveva fatto nascere. Forse non avrebbe voluto avere una via una piazza e sei vicoli (Vico sesto Emilio Lussu) e avrebbe magari gradito che le strade fossero dedicate ai cacciatori e ai pastori del Cinghiale del diavolo, o a Nenetta stessa e alle donne, cui Joyce Lussu ha spesso dedicato parole di riconoscimento per la pluralità delle loro fatiche e per la loro sensibilità.
III. L’oliva del tempo
Non so niente della “memoria” anche se mi occupo di “memoria storica”. Ma da quando mi occupo di queste cose ho sempre preferito usare l’espressione “ricordo”. “Ricordare” è per me l’aspetto culturale della memoria (in quanto attività cerebrale). Ma nello studiare il ricordo io stesso sono sovrastato dai ricordi. Lo scritto più significativo della mia ricerca con l’uso delle fonti orali ha un sottotitolo esplicativo: Frammenti di idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologica. Ma il bello sta nel titolo: L’oliva del tempo.7 Questo scritto del 1986 segna una tappa nella mia scrittura, avevo allora 44 anni, segna il ritorno di memoria della mia formazione giovanile e la sistematica connessione tra la mia memoria e quella che vado studiando. Per me il “ricordare” è legato a Guillame Apollinaire letto a vent’anni, iniziato da Giorgio Ernesto R., un compagno del primo anno di studi di Architettura al Politecnico di Milano, Facoltà che frequentai per fortunato errore per due anni.
Je me retournerai souvent
Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le hruit panni le vent…8
Souvenirs de mes cornpagnons mons à la guerre
L’olive du temps
Souvenirs qui n’en faites plus qu’un…9
Così almeno ho annotato Lyotard della Glossa in un appunto che ho assemblato con tanti altri nella cartella – dossier che si apre confusa e disordinata al ricordo di ciò che voglio scrivere ne La postura del ricordante il testo che ora sto scrivendo.
Dopo L’oliva del tempo ho scritto varie cose e ho più ancora studiato storie di vita, memorie, sia scritte che sollecitate davanti a un registratore.11
Ho prefato e postfato storie di anziani ospedalizzati, ho prefato e postfato storie di militanti della sinistra, ho discusso a Rovereto storie di contadini aretini che si erano scritti in diari e memoriali, contadini cui devo irreversibilmente la mia convinzione che gli scritti di memoria della gente comune sono opere letterarie bellissime e impreviste, e che il mondo letterario non ha la pietas, la teoria e la pazienza sufficiente per imparare a leggerle come io le leggo. Sono i contadini e altri lavoratori, nella collana della Biblioteca comunale di Terranuova Bracciolini (Arezzo) curata da D. Priore e C. Fabbri, un lavoro di passione locale che ha un livello di professionalità editoriale straordinario, quelli dai quali ho inizialmente appreso l’arte del raccontarsi con una scrittura priva del nostro mondo di studi e di letture, presa dall’aria, dalla vita e dal bisogno di testimoniare. Ho prefato una vita raccontata da una ex contadina di San Gimignano, quasi certamente una delle più ampie e ricche “biografie orali” documentate in Europa. La memoria dei singoli continua ad essere per me un deposito eccezionale di insegnamenti sull’antropologia, sulla vita delle storie e sulle storie della vita. In seguito ho avuto l’opportunità di collaborare con le istituzioni che in Italia hanno promosso e valorizzato gli archivi di memorie: in particolare la Federazione Nazionale degli Archivi della Scrittura Popolare nata a Rovereto e che oggi è ospitata a Trento nella sede di un Museo, e l’Archivio Diaristico Nazionale nato a Pieve Santo Stefano (Arezzo) per iniziativa di Saverio Tutino, giornalista, scrittore e autobiografo.12 Sono questi tra i pochi luoghi dove io senta il mio interesse di ricerca anche come una militanza. E così, transitando piccoli mondi e diverse storie, ho capito che l’antropologia non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui dentro le singole vite una cultura viene coniugata, raccontata, trasformata. Per me ormai la cultura non è nulla senza gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non possono esistere, ma un corredo che essi agiscono in modi diversi anche a seconda dei luoghi e dei tempi, modi che grossolanamente vorrei chiamare “libertà” (e questo termine mi riconnette anche con una “aurorale” polemica di Ernesto De Martino contro la sociologia e antropologia francese in Naturalismo e storicismo nell’etnologia del 1941, e ora Lecce, Argo, 1997, per cui ci sento l’imprinting di una “differenza” italiana). Ne ho scritto nel primo numero della rivista dell’Archivio Diaristico Nazionale «Primapersona».
Solo quest’anno, con Lyotard e con un po’ di pazienza, mi sono accorto che queste fonti, queste vite, che per me non sono più “memoria collettiva” ma percorso individuale al disegno di una memoria comune (il brusio della memoria comune è fatto dei diversi e distinguibili brusii delle memorie personali: nel gregge il pastore riconosce i singoli suoni dei campanacci, non li confonde mai con un unico suono, né l’uno con l’altro; è solo questione di esercizio all’ascolto) impediscono radicalmente la Neolingua, chiunque la voglia scrivere, anche noi che la combattiamo e che spesso inconsapevolmente siamo tentati di imitarla.
Queste storie rendono il passato imprevedibile. Ecco un’altra torsione del tempo: le grandi narrazioni novecentesche hanno reso prevedibile la storia, il passato, disegnandone le condizioni di possibilità, le regole di comune obbedienza. Ogni racconto di vita, ogni ricordo che ricompare invece smentisce questa intenzione e riapre la leggibilità del passato. Il passato sarà sempre futuro.
Fazio Salvo dei Baroni di Nasari, aristocratico siciliano, ha un bisnipote che ha mandato a Pieve Santo Stefano le lettere che lui mandava intorno al 1840 ai suoi familiari dal grand tour che conduceva verso Nord. Lo stile, i vestiti, le richieste di soldi, le immagini di Firenze o di Vienna, dove stavano scritte prima? Quale Saitta o Hauser o Villari poteva raccontarle o prevederle? La storia generale esiste in quanto è l’applicazione di una categoria convenzionale del pensiero tassonomico, non ci possono essere persone reali che la impersonino, salvo i suoi attori prediletti Cesare e Cavour, Lenin e Valletta, e poi le masse, la borghesia, i contadini: roba che nella vita non si incontra mai.
La storia spiega facilmente il destino di una classe intera, ma non può spiegare la vita di una persona. Del resto, Dio ce ne scampi, ciò non rientra affatto nei suoi compiti: infatti, se dovessimo caricare le leggi di un’intera classe sulle spalle di un singolo individuo, questi non ce la farebbe a portare un simile fardello.
Vorrei essere considerato una persona irripetibile. E sono pronto a pagarne il prezzo all’umanità intera. C’è un solo mezzo per rendersi irripetibili, se non altro ai propri occhi, ed è quello di ricordare l’adolescenza…13
Uno dei miei testi non editi, Ritorno dall’apocalisse del 1994, segna fortemente il mio percorso. Comincia con un esergo:
In sostanza la memoria paradossale delle vedove di Civitella è ancora aperta e ci aiuta a capire l’orrore delle guerre vicino a casa, proprio per la sua dolorosa e attuale rivendicazione del senso oltre gli schieramenti e le storie politiche. Invece la storia dei morti della Resistenza non ha più capacità ermeneutica viva, si è chiusa entro un altro tempo, è diventata monumento e non ferita aperta, tema di immaginazione del passato e non di attualità del dolore nel mondo.
V. Fortini
Anche Fortini è un luogo di fondazione di un sé, di un me, intorno ai primi anni ’60, una furia di capire a vent’anni che si incontrò con le sue poesie della resistenza,15 Ma è solo nell’ultimo anno della sua vita, dopo anni in cui siamo stati colleghi tra noi indifferenti a Siena, che lo ho ri-incontrato, e soprattutto oltre la sua morte che mi ha aperto fortemente il desiderio di ricordarlo. Un suo testo, Una facile allegoria, mi aveva aiutato a trovare il senso dei riti dei boschi e degli alberi che andavo studiando; qualche verso oggi figura nell’ingresso del Museo del Bosco di Orgia (Sovicille SI):
chiusi con antiche parole, rovine d’altri tempi,
vivono dove non siamo più noi…16
Fortini ha un ampio filone poetico del ricordare, che io leggo e rileggo da profano, che mi aiuta a capire anche il mio mestiere di raccoglitore di memorie altrui e proprie. Sono le poesie ultime che annunciano la morte e la sua chiamata, e coniugano il mondo dell’infanzia e la natura biologica e mortale delle vite, ma sono anche tante poesie del ricordo di Firenze, del padre.18
Una poesia di Raboni sul padre morto (La guerra)19 e una di Fortini sulla morte del padre e sul ricordo della casa di Firenze sono state per me esperienze folgoranti e fondative dell’analisi antropologica del ricordare come basato sulle generazioni e sul tempo, nel quale succede che a un certo punto noi abbiamo «gli anni di mio padre» (Raboni), il tempo che si contorce in un ciclo e ci vede dentro la sua legge,
senza rumore come un ramo di cenere
si disfà nel caminetto già brace coperto.20
molto tempo, non so dove sei, forse vedendoti
non riconoscerei la tua figura. Sei certo
viva e pensi talvolta a quanto amore
fu, quegli anni, tra noi, a quanta vita
è passata. E talvolta al ricordare
tuo, come al mio che ora ti parla, vana
ti geme, e insostenibile, una pena;
una pena di ritornare, quale
han forse i poveri morti, di vivere
là, ancora una volta, rivedere
quella che tu sei stata andare ancora
per quelle sere di un tempo che non esiste più
che non ha più alcun luogo
anche se io scendo a volte per questi viali
di Firenze dove ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo e nei giardini
bruciano i malinconici fuochi d’alloro.21
dell’antenato che sono o divengo
indifesi
ragni esili pendete.22
Tra le compagnie incontrate alla ricerca dei ricordi e delle torsioni del tempo narrativo del ricordare ho ritrovato, per me essenziali, alcuni film. La torsione del tempo nel suo ripetersi e configurarsi in ciclo e destino della “ominazione” (molto vicino al senso delle ultime poesie di Fortini sulla morte, sulle generazioni, sulla memoria) tempo lineare progressivo e insieme tempo biologico e ciclico mi è rimasta dentro attraverso le enigmatiche immagini del prologo e dell’epilogo del film di Kubrik (anche a lui ora possiamo rivolgere quel grato ricordo e quell’impegno di buona memoria che si addicono al nostro rapporto con “loro”, con i morti) 2001 Odissea nello spazio. La straordinaria immagine della memoria d’essere fondati, del nerudiano doloroso e fiero «confesso che ho vissuto», l’ho incontrata nel mare-mente aliena che attrae i ricordi in Solaris di Tarkovskij. Il ricordo del padre, la casa del padre, l’incontro con una donna, il dolore, il rimorso, la speranza sono nel film di Tarkovskij una incarnazione vivissima di tutte le tematiche di Heidegger riprese in Italia da Ernesto De Martino sull’appaesamento al mondo, la terrestrità, le patrie culturali e il radicamento nella terra (intesa come padre e madre).
Il cinema entra nei nostri ricordi ci fa riconoscere parti di noi, si innesta nelle nostre visioni e nei sogni, ma non sempre glielo riconosciamo.
Sul tema della madre mi ha emozionato terribilmente La messa è finita di Moretti (mi sono riconosciuto come generazione, con un dolore tale da scoppiare in lacrime, forse per la prima volta al cinema). Mi ha colpito e sollecitato alla ricerca l’episodio «Colloquio, con la madre» nel film Kaos dei fratelli Taviani. Quest’episodio prende spunto dall’ultimo testo delle Novelle per un anno di Pirandello, quello intitolato Una giornata, testo anch’esso molto forte per chi indaghi sulla natura del ricordo, o sul rapporto ch’esso intrattiene con la morte e il bisogno di oltrepassamento della morte, la possibilità di tradizione intesa come “diventare futuro”. Ma la verifica dei due testi, quello narrativo e quello cinematografico, che ho perseguito minutamente, e dei due codici che li attuano, produce una differenza impressionante.
I Taviani hanno scritto, nello stesso scenario, un’altra storia, essa non riguarda il padre che rivede stupito le generazioni nate da lui, ma un figlio che torna in pellegrinaggio sui luoghi della madre. Sollecitati da una atmosfera riflessiva di nessi fondativi del sé, i Taviani hanno scritto forse il film del loro rapporto con la loro madre, nella scena della Sicilia di Pirandello.
Una giornata vede il protagonista che torna, e da vecchio, da “ritornante” (come uno dei morti della poesia di Fortini, che sono poi morti alla vita di ora e vivi a quella di allora), in una casa nota dove vede stupito la moglie e i figli piccoli che poi invecchiano davanti lui (ancora come nella poesia di Fortini: «e si invecchia di due, di cinque anni in un giro d’occhi»), hanno a loro volta figli e il protagonista si muove infine dall’orrore dell’essere vecchio e riconoscere la vita passata, alla compassione per le generazioni e la vita che si continua ignara, in un ciclo di torsione tra fanciullezza e vecchiaia dello sguardo:
quaranta, cinquant’anni e mi ritrovo
di colpo, gli occhi abbarbagliati, in piena
vecchiaia, mia e del mondo…23
Così dice il protagonista del film alla madre, presente nella pellicola ma come incarnazione della memoria,
Sono le generazioni la forza e il modello del tempo, del ricordo, del racconto.
Nella poesia di Eugenio Cirese, poeta in molisano di valore ormai riconosciuto, la vicinanza delle lingue locali con i mondi primari della vita si esprime in alcuni testi assai significativi, sulla madre, sulle generazioni:
Com’era doce lla parola
quande me la decìve: iessa sola
bastava a farme areturnà guaglione:
– Figlie miè, figlie. –
Scié morta, mamma
nen songhe chiù figlie…
[Com’era dolce quella parola
quando me la dicevi: essa sola
bastava a farmi ritornaie bambino:
– figlio mio, figlio. –
Sei morta, mamma
non sono più figlio]24
Chi vè? Chi vè?
Zurréia ru canciélle arruzzenite.
Com’a na prucessione
ze sente, ma nen passa.
Na ventata z’abbassa:
nu suspire de fronne.
Pe l’aria lu respire
de le generazione.
[Chi viene? Chi viene?!
Cigola il cancello arrugginito.
Come una processione
si sente ma non passa.
Una ventata s’abbassa;
un sospiro di fronde.
Per l’aria il respiro
delle generazioni]25
Anche noi siamo persi se si perde la memoria di noi. Ma questa è la legge della vita. Noi cerchiamo di lasciare al futuro quanta più memoria sia possibile. E di immaginare futura la memoria che ancora non possediamo. Immaginare futuro, immaginarla futura. Zio Francesco Paulesu, medico condotto a Meana Sardo, il paese di mio padre e di mia nonna materna, tenne un diario verso gli ottanta anni. C’era il senso degli affetti e della loro rete che si allarga lungo la genealogia, i figli lontani e la guerra, e c’era il senso fortissimo delle stagioni e dei loro beni terrestri: i fichi, i ceci, le fave, il maiale, e infine il senso delle rose che fioriscono e delle rondini che tornano. Zio Paulesu finisce il diario domandandosi se vedrà l’anno prossimo ancora tornare le rondini. In quei pensieri e in quelle note veloci, scabre, centrate sui parenti, la commensalità, e i cibi delle stagioni, egli mi ha incluso come un insetto nell’ambra («arderemo / fino al nido dell’anitra, alla fibra del tarlo», Fortini, Una facile allegoria), e mi ha dato memorabilità futura in quanto bimbo appena nato. Gli studenti del corso di Siena 1998/99 hanno trascritto questo diario e hanno vissuto questa vita passata che si porteranno nel futuro: è il 1944 il mese di Aprile:
12. 1944. Arriva Bianca con Pierino e Totore!
13. Pioggia era attesa, fave
21. Bello. Peppe va a segnare i vitelli a Mazzaccara, ceci
22. Nuvolo. Pane fagioli, ancora nessuna notizia di Salvatore né di Vittoria. Ho detto. pane, Nina da mane a sera non si occupa che del forno
23. Bello. La primavera è tutta nel suo splendore, a casa le rose che hanno fiorito tutto l’inverno, fioriscono di nuovo e sono cariche di boccioli.
Il figlio di Francesco Paulesu, Salvatore, Zio Salvatore, è stato magistrato a Milano e dintorni per tutta la vita. Passavo la domenica a casa sua quando ho provato a studiare Architettura in quella città così significativa per la mia vita. Forse perché c’era lui mi iscrissi all’Università nel mondo della nebbia che mi suscitò immagini, metafore, poesie giovanili, e non a Firenze o Venezia dove sarebbe stato più logico. Averci un parente è sempre stata la base delle logiche migratorie, anche universitarie. Mi ascoltava come un giudice benevolo zio Salvatore nel salotto di casa sua – escluse le donne – dopo pranzo; vedeva nascere le mie passioni universaliste e la mia ansia di giustizia sociale da diciannovenne, come se fosse un evento processuale o la ricostruzione di qualche attenuante per particolari motivazioni sociali del mio agire, quel mio modo di pensare come un “comunista” (non lo ero ma così non potevo che essere classificato) non gli era incomprensibile, forse per una idea aperta e liberale dell’esser giovani come motivazione adeguata ad essere così utopisti. Mi prestò le critiche di Benedetto Croce al marxismo, un libro che non gli ho mai restituito, ma che segna un buon modo dì rapportarsi a un giovane utopista: non arrabbiarti, ascoltalo, non disilluderlo troppo, dagli un libro da leggere. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica. L’ottava edizione riveduta, è di Bari, Laterza, 1946, ma ha una annotazione in prima pagina a penna con pennino a inchiostro: la firma Salvatore Paulesu e l’anno 1951; sono stato lungamente marxista e non ho mai letto il libro, molte cose che avvengono nella vita sono poco logiche, forse è tempo ch’io lo legga per ricordare chi me l’ha affidato. Grazie ancora Zio Salvatore di avere avuto questa fiducia in me, ancora dopo tanto tempo, telefonandomi dopo la pensione e considerandomi quasi un interlocutore di spinose memorie di una vita, o di desideri di riflettere sulle radici lontane del paese. Andato via io da Milano gli mancò questo ingenuo nipote da ascoltare e cui opporre un cinico e concreto liberalismo da uomo temprato a tutti i modi del vivere, svezzato da processi come “Navi e poltrone” di cui allora si parlava, pessimista più per esperienza e prudenza che per scelta, e mi rimproverava di ingratitudine perché non tornavo più a trovarlo. In pensione aveva preso particolare passione alle memorie del suo paese natale, paese anche di mio padre, Meana Sardo, e desiderava scrivere un libro su Meana, mi telefonava ogni tanto. Ed io sono tornato a trovarlo con Ida e le mie figlie sui 12, 13 anni — forse era verso il 1982, nella sua casa dal mobilio severo e parco, quasi vuota come spesso le case della nobiltà sarda. Aveva 74 anni se davvero era l’82, ed aveva voglia di passato. Ho sempre pensato a lui come al Salvatore Satta de Il giorno del giudizio, un uomo che ha vissuto tutta la vita lontano dalla Sardegna, che ha un altro mondo, ma il cui imprinting iniziale un giorno torna dal profondo, prepotente, e lo costringe a ricordare e a scrivere con tanto più impeto quanto meno lo si è rivisitato: un fenomeno eruttivo. Zio Salvatore voleva ricordare quel sé lontano, quel mondo morto ma ancora presente entro la sua memoria. E cominciò a parlarci in meanese, traducendosi, almeno per mia moglie e le mie figlie:
Ci sedemmo a mangiare pane e formaggio dalla bisaccia e un po’ di vino dalla borraccia. Quando andammo da lui ci disse che le vacche erano state viste passare da lì e la direzione in cui andavano, più o meno sud ovest, verso Oristano. Le tracce non le trovammo più ma Zio Peppe voleva mettere a soqquadro Oristano perché intuiva che c’era qualcosa. Poi andò al porto e per amicizie indirette gli fecero consultare i bollettini di carico, e lì trovò la descrizione delle sue vacche ed anche la firma di chi le aveva spedite via nave a Palermo, vendute e già macellate se non ricordo male. Tornammo a Meana un po’ delusi, ma dopo qualche giorno Zio Peppe mi chiamò e andammo in un paese vicino, io non conoscevo bene i posti, ero studente di leggi a Cagliari e non avevo più tanta pratica con il paese. Non era lontano e tutti e due avevamo il cavallo ora, forse erano una decina di chilometri. Zio Peppe chiese di un tizio in una casa discreta di gente benestante, fu fatto entrare e aspettammo vicino al camino in sedie basse. Quando quello arrivò Peppe si presentò, ci fu offerto il caffè, e alla fine Zio Peppe disse, per quelle venti vacche fa tanti soldi, e lui – tutti non ce li ho, va bene in tre rate? – Va bene sa dove trovarmi. E così per tre volte mi capitò di vederlo arrivare con i soldi, si sedeva beveva il caffè faceva due parole e se ne andava, poi non l’ho visto più.
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo,
d’un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno,
sbattuti continuamente
eppure aguzzi
come freccia verso il bersaglio,
non negarmi mai il mio ritorno,
da dove che sia aprigli il tuo regno,
fosse pure il trascorrere di un’ombra
dal nulla al nulla…27
Comme d’avoir aimé un mort ou une morte
On devient si pur qu’on en arrive
Dans les glaciers de la mémoire
A se confondre avec le souvenir
On est fortifié pour la vie
Et on n’a plus besoin de personne.28
VIII. Bruno Caminada
Questo scritto è un fritto misto, o uno zibaldone come si dice senza voler scomodare Leopardi; mi vien da dire, è un “pastiche” come la genealogia regionale di mio nipote Giovanni: mio nonno pugliese venne in Sardegna per lavoro, vi restò, e sposò una sarda, mio padre, nativo di Meana Sardo, studiò a Portici e lì importò per nozze in Sardegna una partenopea di origine lucana, io studiando a Milano ho analogamente importato una piemontese di padre lombardo. Le mie figlie vivono a Siena e ne hanno preso l’accento, la minore ha avuto un bimbo da un senese i cui genitori sono di origine grossetana. La parte della madre di Giovanni è dunque per metà lombardo-piemontese, e per metà lucano-apulo-sarda. Comunque Giovanni avrà, se vorrà sceglierlo, un ottavo di storia lombarda nella sua genealogia. Una quota che lo connette a Bruno Caminada.
Negli ultimi anni della sua vita Bruno Caminada, mio suocero, aveva un desiderio crescente di rivedere i luoghi della sua infanzia, di rivedere tracce del passato, certificarsi il suo essere stato, confessarsi il suo avere vissuto, riconoscere la sua differenza.
Volevo raccogliere la storia della sua vita, e non l’ho fatto, così come non lo farò con mia madre: c’è come una piccola profanazione del sacro, facendo il nostro mestiere di antropologi sollecitatori di testimonianze, a usurparlo per le nostre stesse radici. Non registrerò mai la voce di mia madre, e mi mancherà come è mancata a tanti di tante generazioni la voce della loro.
Veniva dal Lago di Como, da Cadenabbia Comune di Griante, era Battista, detto “el Pin”, il padre, Ida la madre: donna energica che aveva lavorato nell’emigrazione in Svizzera, di famiglia comasca. Come al paese di mio padre in Sardegna anche lì sul Lago la gente si conosceva per soprannomi: Battista era “el Pin del Taj”, e suo padre era soprannominato “el taj” perché usava la roncola con una certa facilità, ed era uomo di gerla per i trasporti di contrabbando in Svizzera. Tutti facevano contrabbando allora, da quelle parti. A Meana il figlio di Taneddu, quello che cercò le vacche con zio Salvatore, era detto Nanni “Coa de Castangia” ovvero Nanni Coda di Castagna, essendo coda il soprannome suo e castagna quello del padre. Mio suocero ha fatto il soldato a Bobbio Pellice (Torino) durante la guerra e lì si è sposato con una giovane, dell’unica famiglia non valdese di lassù. E tra Lombardia e Piemonte ha passato la vita, girando queste due regioni in auto per lavoro.
Ma a Cap d’Antibes, vicino a Nizza, era stato emigrato da bambino, e qui – una volta insieme in macchina girando – cercava il suo passato. A Cap d’Antibes Bruno ritrova e rivede la chiesa, poi il luogo dove andava all’asilo, e dove il prete gli diceva di esser “padre”, e suo padre gli ricordava «dì a quel prete che l’unico tuo padre sono io». Ricorda l’attrazione per l’altro sesso già da piccolo, come un destino dell’essere vissuti. Racconta a noi quel passato, a sua figlia e a suo genero, perché è meglio se altri che ti continuano saranno testimoni del tuo esserci stato, vedranno i luoghi del raccontare la vita, e li tramanderanno. Ora Bruno desidera tornare nella Villa dove suo padre e sua madre, con lui bambino, venendo dal Lago e poi da Milano, erano stati autista e cuoca. C’era già stato con i cugini ma senza che gli fosse aperto il cancello della memoria per vedere la casa, il giardino dei ricordi. Il citofono cui ci rivolgiamo delude l’aspettativa, una voce nega l’accesso, chiede un fax con copie di documenti, ma quando faremo il fax non avremo risposta. Paradosso dei nomi: quella villa che aveva al tempo dell’infanzia di Bruno un nome di famiglia, si chiama ora Villa Hiers. E con quel nome nega la memoria di “ieri” a un suo antico ospite. Villa negata dei suoi ricordi. Mio suocero cerca di riconoscere la sua vita nei posti dov’era stato, ma cercava, ormai in pensione, anche le tracce geografiche di quella di suo padre. Siamo stati con lui ad Orbetello, dove Battista era stato militare ed aveva raccontato di un campo di idrovolanti. La vita è una mappa, si svolge nello spazio, e questo ne assorbe i fantasmi, non solo nel tempo. Ovunque Bruno cercava te tracce del suo esserci genealogico e biografico.
A Pragelato, verso il Sestriere, andiamo da Bobbio in una gita di un pomeriggio, lì Bruno cerca la casa di un collega, ma non la identifica, ma non gli esce dalla mente l’idea di quel luogo in cui era stato, di quel luogo di incontri precedenti, di vite intersecate, testimoniabili. Sul Lago di Conio luogo di sua madre e suo padre, dei suoi “poveri” morti, della sua giovinezza e di un destino senza ritorno (sarà seppellito anche per sua scelta a Bobbio Pellice paese di sua moglie e di mia moglie) lo prende una nostalgia della vita passata, del suo senso, una voglia di raccontarci l’essere stato. Ne conosce a menadito la toponomastica, qualche leggenda locale, la storiella del prete di Nesso. Qui per trenta anni, dalla morte della madre, Bruno Caminada ha creato un luogo e un tempo delle memorie, forse un suo “tempio”, fondato sul cimitero di Cadenabbia e sul 2 novembre. Un luogo di ritorni obbligati e quasi rituali alle proprie radici. Un luogo e un tempo dove ricordare gli antenati e se stessi come antenati futuri, un luogo da tramandare. Ora a Cap d’Antibes, a Siena dove è stato tante volte per noi, a Pragelato, a Bellagio, a Barni donde sembra derivi la sua genealogia a sentire dei Caminada emigrati da più di duecento anni in Olanda con cui si dialoga in e-mail, nei progetti di ritorno alla mia ( e per questo in parte anche sua) Cagliari in viaggio con dei cugini, Bruno Caminada si aggira sbigottito nel suo passato, luogo transitato e progettato, come il protagonista di Una giornata di Pirandello, ma con più coscienza, come in un sogno controllato e voluto, perché quel passato non lo coglie di sorpresa ed egli lo vuole assaporare e riconoscere nei luoghi. Come se a tornare nei luoghi del passato si potessero lasciare sugli alberi, graffite, le firme dell’essere già stati. Una giornata la vita. I suoi ricordi, i miei ricordi dei suoi ricordi, i ricordi delle nostre figlie, e del figlio di mia figlia che per un tempo breve l’ha potuto chiamare un po’ approssimativamente bisnonno. Fotografie di famiglia presentificano i volti di storie che possiamo immaginare e portare nel futuro. Rami del Lago di Como, rami della genealogia delle mie figlie. Ricordare come in un film, la trattoria Marianna a Cadenabbia, la tomba della mamma di mio suocero, un 1968 quando andammo a trovarla in Ospedale a Gravedona, con una Cinquecento nera, viaggiando da Cagliari, e al ritorno in Sardegna, mentre percorrevamo rive di mare in un’estate assolata sapemmo che era morta. La nonna di mia moglie. Si volevano bene. A me ogni tanto quando ancora andavo a casa di Ida, che viveva allora a Milano, buttava di sorpresa dell’acqua di colonia sui capelli e me li frizionava.
Storie di famiglia: cliccando con il mouse sulle hotwords della genealogia virtuale di mio nipote una voce racconta, più voci raccontano, una, forte, è quella di Bruno, bisnonno appena incontrato e subito salutato. Dirà forse questa voce le barzellette basate sui fraintendimenti tra francese e milanese, «Chel odeur de pè e de cu» fraintende un milanese i raffinati francesi che in un museo di Milano percepiscono un odore di spade e di scudi. «Comment s’appellent?» chiedono i soliti francesi a un venditore di noci milanese, «Se pelen minga», «Comment», «No coi man, co un martelet» e continua. E cliccata a Natale dirà del panettone che è il «panatal del dì de natun» anziché il «panetun del dì de natal», come spesso ripeté anche allo stupito ramo sardo della sua discendenza acquistata. Come spesso noi ora ripeteremo ed abbiamo già cominciato a ripetere. Così ce lo porteremo appresso nel futuro e lui tornerà come i morti del due novembre in Sicilia nei resoconti del Pitrè: passerà come formica sotto gli usci ed entrerà in casa e si sentirà accolto come lo era in vita. Forse gli faremo trovare sulla tavola apparecchiata il prossimo 2 di novembre i «nervit co i cigul», o la pastasciutta un po’ scotta come piace ai nordisti.
Come si vede se c’è un posto per il passato questo è il futuro. Certo nel passato non c’è nessun posto per il passato. Nel passato non c’è alcun posto.
C’è già nel primo paragrafo una traccia che allude al ritorno di un testo che, per mia conoscenza, è quello che più si è occupato dei paradossi della temporalità tra spazio e tempo, il testo di Maurizio Bettini su L’avvenire dietro le spalle: rappresentazioni spaziali del tempo nella lingua e nella cultura romana.30 Un testo che, trattando di mondo romano, mi riconnette anche ad un altro lavoro fatto a cura di S. Bertelli e mia in cui il tempo passato fu connesso con le Tracce dei vinti.31
Non posso seguire l’argomentazione di Bettini in dettaglio, ma essa si pone il problema della gestione culturale della temporalità attraverso la lingua e con questa attraverso la cultura, e lavora su avverbi e verbi di tempo, espressioni di tempo legate alla coppia oppositiva avanti/dietro. L’esito del suo viaggio nel tempo dei romani connette l’importanza culturale del ‘davanti’ (nel corpo, nelle cerimonie, nel potere…) alla spazializzazione del tempo nel senso dietro=passato, davanti=futuro. Il davanti è più importante e il futuro anche, come il davanti e con esso:
Nel suo percorso Bettini mostra che la postura del ricordante è nota agli scrittori antichi, Lucrezio, Seneca, Orazio, e tra i verbi che compaiono «L’uso del verbo respicere non lascia dubbi: per guardare il proprio passato, bisogna “voltarsi indietro”». Ma il verbo più congruente con le mie annotazioni è di Seneca ed è retorquere: l’espressione «se in praeteritum retorquet» è una descrizione della postura del ricordante, se vi si aggiunge con Seneca «libenter se in praeteritum retorquet» abbiamo l’effetto della nostalgia. Questo volgersi è da Bettini correlato a una idea di saggezza propria della riflessione filosofico-esistenziale e della creazione letteraria. Nel mondo letterario questo tempo è un tempo del “cammino narrativo”, è il tempo del viaggio raccontato.
In effetti se ci si retorquet con Seneca o se «je me retournerai souvent» con Apollinaire, succede che – quando ci si è ritorti – di fronte si ha un nuovo possibile senso di marcia futuro e non un passato. Che girarsi indietro sia guardare al passato è la fondazione retorica di una postura che ha a che fare con il tempo del racconto e con il racconto del tempo, la postura del ricordante non ha coordinate spazio-temporali sottoponibili alla fisica o alla geometria, la sua “torsione” è più che la metafora di un gioco paradossale o di una idea di dinamismo bizzarro, è il luogo di una ‘fondazione culturale’ che dà senso anche alle convenzioni fisico-geometriche della vita. Si potrebbe dire giocando con le parole che il passato non c’è mai fuori di noi, e che quando noi lo evochiamo lo collochiamo sempre nel futuro, anche quando lo facciamo a partire da quell’oggetto atemporale e presente ai miei occhi che convengo ora chiamare un’urna etrusca della quale dico che ha 2457 anni: la mia età più solo 2400 anni. Qualche cosa di impensabile. Anche l’immagine del cammino con i suoi giochi di prima e poi, e le sue precedenze, presenta molte interessanti paradossalità, ma è qui che noi lasciamo Bettini, scusandoci di un uso un po’ strumentale fatto del suo testo, perché queste ultime metafore ci riportano a casa.
«Viaggio insensato la vita, se non ci fosse la morte a darle significato; se non ci fossero questi morti a darle valore».33 Mi pare ora che questo libro, pieno di morti, di memorie dannate, di cadaveri bruciati, di eredi diseredati, di popoli cancellati ma di permanente potenza simbolica dei vinti nell’immaginazione e nella conoscenza, pieno di opposizioni tra indizi e tracce, tra andar sotto e stare sopra, e i tanti disparati saggi di questo strano seminario nato tra Firenze e Gargonza, riattualizzano il mondo del tempo-spazio romano e quello dei paradossi civitellini della causalità. Dov’è avanti e dietro nel nostro mondo? Non sarà guardarsi indietro, «se retorquere», l’unico gesto di futuro che resta a noi moderni che viviamo ogni giorno con una minaccia di bombardamenti, una sfida a un trattato di pace, una strage etnica, uomini che si danno fuoco per un’identità e altri che per lo stesso motivo danno fuoco.
Cos’è il futuro? Il gesto di chi ricorda e così si torce a far diventare possibile futuro un possibile passato è – forse – la modalità del sacro delle parole della madre nel film dei Taviani: «Guarda le cose con gli occhi di quelli che non le vedono più…». Un punto di vista che ci sembra più vivo della nostra vita futura. Durante una premiazione a Pieve Santo Stefano in cui si parlava della storia di vita di Giovanna Cavallo, un lungo diario di amore e di speranza34 e di quello di Vanda Ormanto35 una storia di orrore del matrimonio e di liberazione dall’orrore con la scrittura di un memoriale, il ponte di Mostar veniva distrutto, cadevano bombe a Zagabria, e le mie colleghe di quella città tornavano a sperimentare i rifugi e le cantine, vivevano la guerra e ne scaturiva poi un’antropologia della guerra: che senso ha raccogliere storie a Pieve Santo Stefano (tremila testi che continuano crescere) mentre i paesi europei dove si parla di beni culturali assistono impotenti alla distruzione per esigenze belliche di cose che si proclamano di valore assoluto e appartenenti all’umanità? Raccogliere a Pieve queste storie comuni è un gesto di speranza di sopravvivenza, un gesto che fa parlare la vita contro la morte. Futile di fronte a tanti morti, pieno di speranza se ricorda che tutte le vite hanno un valore e che la morte le rende necessarie e ineludibili. La morte come orizzonte della vita, non la morte come distruzione della vita: la morte nella pace, quella «pace, pace e sempre pace» con cui abbiamo cominciato; l’appello di Stefanile dalla sua memoria lontana per una speranza vicina.
Nelle molteplici storie che si raccolgono e si ricordano un aspetto fondamentale, contro il Grande Fratello, è che non sono solo più i poeti e gli artisti, non solo più Seneca o Lucrezio a ritorcersi verso il passato per testimoniarlo, quella loro idea di saggezza, nel ‘900 dell’alfabetizzazione di massa si estende e si generalizza, e contro la distinzione con la quale la sociologia francese vuole che nel sistema del consumo del gusto le masse non riescano ad autonomizzarsi culturalmente, il modello del romanzo popolarizzato, il diario, l’epistolario della gente comune sono un nuovo gigantesco coro di voci che hanno rotto la barriera della “distinzione” e si presentano come co-fondatrici di storia, letteratura, antropologia, rappresentazione del mondo. Seneca concede a Zio Paulesu e a Bruno Caminada di condividere il desco di una saggezza che nasce in presenza della morte e che si elabora in forma di testimonianza, cosa impensabile nel mondo antico e impensata ancora nei nostri sistemi di conoscenza e di apprezzamento artistico-letterario: radicalismo della democrazia di massa che spalanca con la pressione delle migliaia di storie la porta dell’elitismo dei saperi umanistici.
La dualità dell’io fondata nel cuore della crisi della modernità in ascesa si è massificata, tanti uomini fragili davanti alla morte possono lasciare traccia del loro esser stati con memorie minute, oggetti di famiglia che sono raccolti dai musei, storie che sono raccolte da archivi, ma anche di nuovo memorie di famiglia che verranno trasmesse e raccontate, sensazioni del tempo che contraddittoriamente ci riconquista («ho gli anni di mio padre ho le sue mani»).
lascia ch’io viva del mio passato;
se c’è sul bronco sempre quel fiore,
s’io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d’ombra romita
lascia (l’io pianga sulla mia vita!
E suona ancora l’ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l’ora! Si ritorniamo
dove son quelli ch’amano ed amo.36
IX. Altre torsioni del tempo e La poesia delle rose
In una lacuna della mia memoria, nella voce di una memoria altrui Ivano Fossati canta:
questo taglio di luna
freddo come una lama qualunque
e grande come la nostra fortuna
che è la fortuna di vivere adesso
in questo tempo sbagliato
…e il futuro che viene chissà se ha fiato…37
Le rose del volto già sono pallenti
…Ah della Traviata sorridi al desio;
A lei, deh, perdona; tu accoglila Dio.
Or tutto finì!
Nell’Addio del passato la memoria viene cancellata progressivamente dal sopravvenire della morte, e un futuro anonimo si profila già annunciato dalla assenza di Alfredo (assenza della trasmissione della memoria della sofferenza) e anticipato in pronostico di futuro, ma qui si profila nella violenta “passatizzazione” della vita della morente, anche un futuro sbagliato perché Alfredo la raggiungerà e lei spirerà tra le sue braccia, e la funzione di trasmissione così sarà avvenuta. Un “adesso sbagliato” per Fossati e un “futuro sbagliato o almeno parzialmente infondato” per la Traviata che canta:
Non croce col nome che copra quest’ossa!
Uno spunto di Piergiorgio Zotti, poeta e maestro a Grosseto, e mio amico, mi fa riflettere:
Durante lo stage degli studenti romani ad Armungia le rose legate al ciclo della vita di Nenetta che si racconta, le rose che fanno da scenario a un mondo di case nuove che nega il passato – con le sue case in pietra che a noi di fuori paiono bellissime e a loro paiono simboli di miseria –, le rose come immagine di una nostalgia negata del passato, un bisogno di conciliazione irrisolto con la miseria e l’emigrazione che fa essere loro solidali con il mondo del progresso, della uniformazione e non con quello delle diversità culturali locali che pure vivono, le rose mi hanno sollecitato a riprendere in mano la complicata Poesia delle rose di Franco Fortini.
Sono i suoi ultimi versi a farci da guida in questo punto d’uscita dal testo, senza perdere tutte le sue complesse e condensate torsioni del tempo, anzi accentuandole:
veramente diventa possibile l’amore.
Mai così belli i visi e veri i pensieri
come quando stiamo per separarci, amici.
Esercizio della ragione e sentimento
sono due cose e vivacemente si legano
come la rosa è forma di mente di stupore.
Scrittura parola voce della gente comune, rosa del tempo.
1 T.S. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, Torino, Einaudi, 1964, cd. or. 1816.
2 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1991.
3 G. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989.
4 E. Wharton, La collezione Raycie. Racconti italiani, Firenze, Passigli, 1996.
5 M. Bettini, Antropologia e cultura romana, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1986.
6 E. Lussu, Alba rossa, a cura di J. Lussu, Ancona, Transeuropa 1991.
7 P. Clemente, L’oliva del tempo. Frammenti di idee sulle fonti orali, sul passato e sul ricordo nella ricerca storica e demologica, in «Thelema», III, 9, poi in «Uomo e Cultura», n. 33-66, 1987.
8 G. Apollinaire, Cors de Chasse, in Id., Poesie, Milano, Rizzoli, 1979.
9 G. Apollinaire, Ombre, ibidem.
10 J.F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987.
11 Ma in effetti alcuni miei scritti sulla scrittura e sulla memoria erano già apparsi, il primo essendo una Nota critica a G. Capacci, Diario di guerra di un contadino toscano, a cura di D. Priore, Firenze, Cultura Editrice, 1982; il secondo in collaborazione con M. Fresta e L. Giannelli, Scritti di contadini senesi. Note sul teatro popolare e altri usi della scrittura, in Oralità e scrittura nel sistema letterario, a cura di G. Cerina, C. Lavinio, L. Mulas, Roma Bulzoni, 1982, Ma del 1984, l’anno di Orwell, è il primo testo sulle storie di vita orali: Per l’edizione critica di testi biografici orali. Appunti, in «Fonti Orali. Studi e ricerche». Poi c’è Scrittura popolare. L’approccio demologico, in «Materiali di lavoro», 1/2, 1987 e l’autobiografia di Dina Mugnaini (della quale già si resoconta nel testo del 1984) realizzata da Valeria Di Piazza in V. Di Piazza, D. Mugnaini, Io sò nata a Santa Lucia, Castelfiorentino, Società storica valdelsana, 1988, in cui ho scritto Autobiografie al magnetofono. Una introduzione, è il punto di decollo di un interesse ormai destinato a innovare la mia immagine dell’antropologia. Poi questa attenzione si amplifica pur restando sempre frammentaria e in editoria di scarso circuito, Tredici storie affettuose, prefazione a A. Nesí, Profumi di altri tempi, Pistoia, Pantegruel, 1988, prelato insieme con Francesco Guccini il libro di Sandra Landi La guerra narrata, Venezia, Marsilio, 1989, Intervento, in I luoghi della scrittura autobiografica popolare in «Materiali di Lavoro», 1-2, 1990, Parole di cose, in M. Vergaci, Quaderni di appunti. Oggetti, tecniche, cultura materiale, Grosseto, Comune di Grosseto, 1990, La vita quotidiana San Gimignano in un occhio tecnico affettuoso, in Alfred Bollinger fotografo a S. Gimignano, a cura di S. Paggi, Poggibonsi, Grafiche Nencini, 1990. Poi l’attenzione alle storie altrui diventa attenzione anche alla mia e coinvolge la mia genealogia universitaria, legata alla storia di Alberto Cirese: Nota introduttiva a La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare, di E. e A.M. Cirese, 1953-55, ristampa anastatica, Isernia, Marinelli, 1991, ed anche attenzione alla letteratura che sta al confine con l’antropologia: La ferita contadina: narrativa e antropologia, in «La ricerca folklorica», 2, 24, 1991. Poi entro in contatto con l’esperienza di Pieve Santo Stefano Oltre la frattura del tempo. Diari e storie di vita di anziani, Collana Diario Italiano, 4, Firenze, Giunti 1992 e cerco di tener presente questa ermeneutica delle memorie diffuse nella pratica scolastica, interpolando ricordi della mia infanzia con ricordi di infanzie altrui: Come si diventa grandi. Un invito all’uso del quaderno di Quintilio, in Sandra Landi, Il quaderno dell’insegnante. Itinerari di lavoro per la cultura popolare e i musei etnografici, Siena, Protagon, 1993, analoghi tragitti sono in molti altri testi degli anni ’90, per esempio Paese/paesi in M. Isnenghi, I luoghi della memoria, Roma, Laterza, 1996. Darò altri titoli tra storia orale scritture popolari e antropologia e letteratura per un’idea di completezza autobiografica: Multiculturalismo identità etnica e storia orale, in «Ossimori», 2, 1993, Presentazione a «La prova de “La Prova”»: letture di una novella di Pirandello, in «Uomo e cultura», 1993, Interventi trascritti, in E Mangiameli, La scrittura popolare, in «Quaderni del dottorato di scienze etnoantropologiche», Università di Roma La Sapienza, 1994, Temps, mènioire et recits. Anthropologie et Histoire, in «Ethnologie française», 3, 1994, Fuentes orales en Italia, in «Historia y fuente oral», 14, 1995, Se ti è cara la vita. Romanzo di Angioni, in «Ossimori», 6, 1995, Mafia Palermo racconti della vita, ibidem, Estremo e anticipatore, in «Testimonianze», 386, 1996, su Intellettuali, cultura e società: la lezione di Fianco Fortini. Undici voci narranti, in S. Abati, Voci dal Campansi, Siena, Bruno, Il racconto di Delia, in D. Meiattini, Barriere invisibili. Cronaca di una vita di donna dalla terra alla politica, Siena, Tipografia senese [s.d. ma 1998], La conoscenza e la vita, in Sandra Chimenti, Salvo Buon fine, Siena, Tipografia senese [s.d. ma 1998], Facendo didattica in «Primapersona», 1, 1998, Il passato imprevedibile, ibidem, 2, 1999. Altri testi di militanza della storia di vita e del ricordo debbono ancora apparire o non appariranno mai; L’autore moltiplicato. Testi biografici e antropologia interpretativa, del 1991 è in una dispensa del 1996/97, insieme con Seminario di testimonianze orali del 1991, «Gli ho letto la vita». Esperienze di un lettore di vite di altri, del 1992, Ritorno dall’apocalisse, 1994, Antropologi a confronto con i problemi dell’immigrazione: incontri, dialoghi, racconti, del 1995, e Venticinque anni di storia orale e di dibattito sulle fonti orali in Italia del 1995. Sono materiali per futuri percorsi, ma sono consapevole che più si ama un argomento e meno se ne scrive.
12 S. Tutino, L’occhio del barracuda, Milano, Feltrinelli, 1995.
13 I. Metter, Il quinto angolo, Torino, Einaudi, 1989.
14 G. Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1998.
15 P. Clemente, Estremo e anticipatore, in Intellettuali cultura e società: la lezione di Franco Fortini, in «Testimonianze», 386, 1996, pp. 61-74.
16 F. Fortini, Una facile allegoria, in Id., Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1978.
17 J. Dickson Carr, Delitti da mille e una notte, Milano, Mondadori, 1984, ed. or. 1936.
18 Ho lavorato di istinto, forse antropologico, su quattro raccolte poetiche di Franco Fortini, si tratta di Una volta per sempre, Paesaggio con serpente, Composita solvantur, e di Poesie inedite, tutte di Einaudi. Spero mi si perdoni l’ingenua invasione di campo specialistico, essa aveva una ragione sia d’omaggio a Fortini, sia d’uso dei suoi testi per pensare. Il non-specialismo critico è anche sottolineato nel mio testo dall’uso frequente di “brani” decontestualizzati, e dall’assemblaggio dei testi poetici che costringe i versi a computarsi in righe. Ho cercato di trattarli come se si trattasse di saggi o di racconti: luoghi, immagini, voci e parole della memoria; ne ho fatto un piccolo corpus con orecchiette alle pagine e segnature a matita dei versi. Infine ho privilegiato alcuni, pochi, testi poetici, ma mi sono reso conto che c’è una problematica ricca e intensa della memoria e della morte, in senso lato antropologica, sulla quale un giorno mi piacerebbe lavorare da outsider come sono in questo settore. In fondo se la gente comune si fa la propria antropologia e la propria letteratura anche io mi posso fare la mia antropologia della poesia.
19 G. Raboni, La guerra, in Id., A tanto caro sangue, Milano, Mondadori, 1988.
20 F. Fortini, Nella mia casa di Firenze, in Id., Poesie inedite, Torino, Einaudi, 1997.
21 F. Fortini, Una volta per sempre cit.
22 F. Fortini, Sono nella stanza, in Id., Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994.
23 G. Raboni, Quare tristis, Milano, Monciadori, 1998.
24 E. Cirese, Oggi domani ieri. Ditte le poesie in molisano, le musiche e altri scritti, a cura di A.M. Cirese, vol. 1, 11, Isernia, Marinelli, 1997.
25 Ibidem.
26 P. Clemente, Come si diventa grandi cit.
27 M. Luzi, Siena e dintorni, Siena, Edizioni di Barbablù, 1992.
28 G. Apollinaire, La maison des mortes, tr. it. La casa dei morti, in Id., Poesiecit.
29 G. Batson, Dove gli angeli esitano cit.
30 Parte seconda in otto paragrafi di Id., Antropologia e cultura romana, cit.
31 S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994.
32 E nel dirlo si basa su Károly Kerényi, in Id., Furore, simbolo, valore, Milano, Feltrinelli, 1980, prima ed. 1962.
33 B. Arnoaldi, Viaggio con l’amico, 1990 citato in M. Catani, «Se anche raccontassimo non saremo creduti»: la lezione di metodo di Primo Levi, in S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.
34 G. Cavallo, Ho sognato i suoi occhi, Milano, Baldini e Castoldi, 1996.
35 V. Ormanto, Il signor marito, Milano, Baldini e Castoldi, 1996.
36 G. Pascoli, L’ora di Barga, in Id., Poesie, Milano, Garzanti, 1981.
37 L’unica fonte scritta che ho trovato su Ivano Fossati e la sua Una notte in Italia è il libro di Paolo Jachia, La canzone d’autore italiana. 1958-1977, Milano, Feltrinelli, 1998. In questo testo viene smentita la mia fonte orale in particolare l’espressione “tempo sbandato” invece che “tempo sbagliato”. Mi avvalgo del diritto dei “demologi” per dire che un testo d’autore entra nella memoria orale con il suo modo d’essere e con l’insieme delle sue varianti. La variante che cito mi sembra migliore dell’originale scritto e congruente comunque con la poetica del tempo in Fossati secondo l’analisi di Jachia.
38 Vedi ancora S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.
39 P. Zotti, Il quaderno del padule, in La Casa Rossa. Memoria d’acqua e di vita, genti, lavori, saperi del padule maremmano, a cura dell’Archivio delle Tradizioni Popolari, Grosseto, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province Siena e Grosseto, 1999.
40 P. Clemente, Epifanie di perdenti, in S. Bertelli, P. Clemente, Tracce dei vinti cit.
41 F. Fortini, Non possiamo, in Id., Poesie inedite cit.
42 Il manoscritto di Francesco Stefanile è ora il libro Davai bistré. Diario di un fante in Russia 1942-1945, Milano, Mursia, 1999. Devo notare che al testo di Stefanile è stato praticato un arbitrario e insopportabile maquillage editoriale. Per gli scrittori “popolari” l’ipse dixit ne varietur non esiste ancora.