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I.
Zhishi fenzi – i dotati di sapere, coloro la cui specificità è il sapere – è uno dei termini coniati in questo secolo in Cina a tradurre categorie, oggetti e concetti introdotti dall’Europa. I zhishi fenzi sono gli intellettuali. Una categoria forse più esattamente circoscritta di quanto non lo sia stata da noi, in un paese che, durante i regimi nazionalista e comunista, non ha interrotto la tradizione di ben definire i diversi ceti e gradi in ogni parte della società, i ruoli e le funzioni; almeno in teoria.
La caduta dell’impero, all’inizio del secolo XX, introduce quello che era stato l’universo cinese (i confini del mondo, tianxia, coincidevano con quelli dell’impero) nella sfera del relativo e delle nazioni. La classe dirigente letterata, portatrice della dimensione umana (ren) a fianco del mediatore fra Cielo e Terra che era l’imperatore, si ritrova priva di ruolo. Se alla fine del secolo XIX il tentativo, fallimentare, era stato di rinnovare il sincretismo neoconfuciano, coniugando questa volta con la tradizione autoctona alcuni apporti europei,1 gli appartenenti al ceto colto riformatore dei tardi anni Dieci e degli anni Venti guardano ai loro omologhi europei, per la maggioranza, senza riserve. Da allora la storia degli scrittori cinesi, e più in generale degli intellettuali, con le sue specificità, è parte della storia più vasta dei loro confratelli nel resto del mondo moderno.
I figli della classe letterata cercano di ricostruire un proprio ruolo nella società. L’Europa presa a modello è quella nata con la Rivoluzione francese, ed è pure quella dove fin dal secolo XIX ha occupato un luogo l’intelligencija, centrale in Russia; nel XX, la nozione di “intellettuali” si è estesa largamente dalla Francia agli altri paesi; ed è stata adottata sistematicamente nei partiti comunisti e nella sfera circostante.
Gli intellettuali in realtà non corrispondono a un ceto, né ad una attività specifica; si tratta di una nozione elastica e indeterminata. L’idea di che cosa essi siano stati non è data dall’elenco, peraltro mutevole, delle specificità e specialità (scrittori, artisti, studiosi, giornalisti, politici; scienziati anche, medici, e ogni altro professionista…). La categoria è una costruzione ideologica: associa gran parte del settore più istruito della società in un ruolo originariamente attribuito agli scrittori e agli artisti. Quando «il corpo intellettuale della borghesia si scinde in più parti […] la borghesia non toglie agli scrittori il mandato sociale che aveva loro affidato nei secoli precedenti. La funzione di organo della coscienza universale, che era stata dall’Aufklärung, si continua negli intellettuali della democrazia».2 Così il termine viene poi collegato a quello di “impegno” (engagement), anche in versione negativa, e magari fino a denunciare la trahison des clercs – vocabolo che designa il medesimo oggetto e richiama immediatamente all’origine storica della categoria e del mandato conferitole: la borghesia sostituisce i chierici con dei laici ai quali vengono attribuite funzioni sacerdotali. Una contraddizione in termini, dalle radici.
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Alle origini della civiltà cinese sembra esservi una identità, o quanto meno una confluenza, delle funzioni sciamaniche con quelle poetiche. Il processo di formazione del potere politico e dello stato si accompagna a una difficile convivenza fra il nascente potere accentrato e i poeti-sciamani; a un tempo esaltati e perseguitati. Vedi la sorte esemplare di Qu Yuan,3 il primo grande poeta, misconosciuto dal suo sovrano e suicida, ancora oggi simbolo universale della poesia per tutto il popolo cinese. L’impero sceglierà la via dell’insegnamento confuciano, escludendo dalla propria sfera la componente religiosa4 e promuovendo alla gestione del potere i letterati – la classe dirigente colta e laica; che divenne poi un mito degli illuministi.
I letterati sono associati al funzionario e, almeno dall’VIII secolo, al sistema degli esami di stato – inclusi gli scrittori e poeti che falliscono agli esami o si rifiutano di parteciparvi. Sotto questo aspetto i loro omologhi contemporanei sarebbero i ganbu (quadri), versione moderna dei guan (funzionari), piuttosto che i zhishi fenzi. Si perpetua tuttavia anche per questi ultimi il paradigma confuciano. Ma allorché vengono maltrattati o perseguitati dal potere politico, gli intellettuali-zhishi fenzi pretendono a uno statuto di poeti-sciamani che non dovrebbe loro competere, e coerentemente fin dalla nascita dell’impero era stato escluso dai rapporti fra ceto colto e dinastia. (Il potere politico dei letterati, affermatosi durante la dinastia Han, 206 a.C.-220 d.C., ha come presupposto il rogo dei libri da parte del primo imperatore Qui Shi Huangdi, 221-210 a.C.).
È bensì vero che, fin da quando la dinastia si allea con i letterati nella gestione del potere, e la politica si colloca al centro dell’ordine morale e culturale, si verificano inevitabilmente e con continuità episodi di letterati-funzionari in disgrazia, condannati all’esilio e alla morte; fatti accompagnati dalla protesta, dall’indignazione e dal lamento dei soggetti colpiti e in molti casi (quando si tratta di pesrone lodate per la loro virtù) anche dei posteri. Ma la protesta e il lamento non si motivano mai, e non sono in rapporto, col valore e la qualità dell’opera letteraria dei soggetti perseguitati. L’offesa è quella arrecata a chi porta sulle spalle l’autorità e la rseponsabilità di membro della classe dirigente, e viene in qualche modo tradito dal sovrano – specie nei casi in cui la condanna avviene per aver criticato scelte politiche, denunciato ingiustizie, difeso persone innocenti.
Restano, d’altra parte, le tracce della più antica sacertà della poesia (funzione sciamanica), tradotta nel carattere eccezionale e nel ruolo eccellente attribuiti alla scrittura-cultura (wen), che rende chi la possiede candidato al governo, ma ha una suprema validità anche in se stessa. Tanto da venire assunta, ripetutamente, come supercompenso al fallimento nella carriera e alla persecuzione politica.5
Dalla tradizione cinese si ereditava dunque un intreccio già indistricabile, dove funzioni e ruoli diversi si sommano nelle stesse persone e lasciano il segno perfino nell’opera poetica – che ha sempre i caratteri dell’incarnazione e non è mai poesia “pura”. A questi presupposti si sovrapponevano le stratificazioni storiche e le contraddizioni importate dal contesto europeo. Per un verso, era la continuità-rottura con la tradizione mandarinale e con la supremazione del wen; per l’altro, la storia della laicizzazione operata dalla borghesia e il permanere del “mandato” di eredità illuministica; e infine il rapporto, conflittuale ma irrinunciabile, fra partiti comunisti, funzione educativo-propagandistico-culturale e scrittori.
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Lo spirito di restaurazione si manifesta da alcuni anni nella sfera della cultura in Cina e anche fra molta critica sinologica occidentale col riferimento agli anni venti, quali inizio e punto focale, cui ricollegarsi a partire circa dagli anni ottanta, saltando, per così dire, o condannando in blocco il cinquantennio interposto. Con una sfasatura di tempi che paradossalmente riporta i cinesi al rango di colonizzati ritardatari,6 sembra ripetersi quanto Franco Fortini scriveva oltre trent’anni fa, a proposito dell’Europa e dell’Italia di allora: «Gli Anni Venti […] vengono “ripresi” non già con l’intento di interpretare di nuovo i […] valori d’arte e di poesia di quell’età ma per non sfigurare nella conversazione della coesistenza [leggi ora: “dell’entrata nella comunità (nel mercato?) mondile”] e dimostrare che prima delle mésalliances socialrealistiche si era saputo, e come, tenere il proprio rango».7 Risuscitare gli anni venti comporta optare senza mezzi termini per la “modernità” (cioè per l’assunzione dei paradigmi culturali europeo-borghesi) e anche voler tenere in vita una figura di intellettuale pure mutuata dall’Europa, nelle sue varie accezioni.
L’intellettuale erede del “mandato” illuministico che tende nel primo ventennio del secolo a identificarsi, o per lo meno ad avere il suo centro, nella figura dello scrittore, è in primo luogo soggetto sociale, la cui funzione, come abbiamo visto, è di approfondire la coscienza, rappresentarla e trasmetterla. «Se quella funzione è, di fatto, mistificata, gli uomini del socialismo si propongono di inverarla. Tutto l’equivoco del naturalismo e dello scientismo “progressisti” nasce appunto dal prolungarsi nella socialdemocrazia europea della validità di uno statuto dell’uomo di lettere e dell’artista, formulato dalla borghesia ascendente».8
Questa situazione, che Fortini attribuisce per l’Europa occidentale al periodo che precede la prima guerra mondiale, si protrae in Cina nel corso degli anni venti (ed è la stessa che dopo la morte di Mao Zedong si è voluta in qualche modo anacronisticamente risuscitare). Infatti è assente qui una fase socialdemocratica e l’acquisizione dell’eredità della borghesia illuminista avviene quando è già in atto l’organizzazione dei comunisti, la loro partecipazione alla III Internazionale e, nella seconda metà del decennio, non «la separazione dello scrittore dalla unità democratico-borghese», ma la spaccatura del paese in guerra civile. Il momento dell’unità fra gli scrittori,9 e nei settori giovanili e studenteschi del mondo della cultura, è rappresentato dalla rivolta contro la tradizione (neo)confuciana e dal nazionalismo, mentre in rapida successione si verificano le fratture di ordine politico fra l’ala liberale della riforma e quella comunista e gli scontri all’interno di questa. Tutto avviene comunque entro un corpo, se pur diviso, con una propria identità complessiva. Non così distante dall’identità complessiva (o falsa coscienza?) del corpo intellettuale in Europa, alla fine degli anni venti e nei primi anni trenta. Accanto ai grandi scrittori comunisti, come Brecht, Lukács, Lu Xun, fra i quali il dibattito si svolge al livello di coscienza più alto e drammatico, c’è un gran numero di intellettuali, anche non comunisti, toccati tuttavia direttamente o indirettamente da quel processo che veniva portando «gli scrittori vicini al movimento rivoluzionario […] “nel cerchio di chi era in basso e di chi lottava” cercandovi un compito, una funzione, un mandato».10 Se non altro, la ricerca di una comunicazione, di un rapporto col “popolo” ben diversa da quella dei populisti del secolo precedente, perché ora in presenza di una forte e agguerrita Internazionale dei lavoratori e di un movimento socialista in ascesa.
La contraddittorietà di questa ricerca da parte di chi non accetta di formularla nei termini del comunismo (che è cosa diversa dalle tattiche dei partiti comunisti e dagli interessi di quelle burocrazie) è evidente in grandi personalità, come Simone Weil, e più esplicita in quelle meno grandi.11 Il punto di maggiore difficoltà sta nel fatto che la grande eredità borghese pone al centro del reale l’individuo, e dalla libertà di sé quali individui lo scrittore e l’intellettuale derivano la ricerca di comunicazione e l’onere del mandato.
Ma anche gli scrittori comunisti si trovano in una situazione contraddittoria: infatti il rapporto dello scrittore individuo con la «unità democratico-borghese» è rotto, e il suo riferimento è ad una società (collettività) ipotetica, priva di istituzioni e di forma; il rapporto diretto con quest’ultima è tentato da Brecht, che «visse l’una e l’altra funzione: l’estensore di verità da far passare, sotto la camicia sudata […] attraverso i cordoni degli agenti, cioè lo scrivano cui i Ciompi in tumulto impongono di mettere in carta una loro verità, e chi dice a se stesso: Sappi, lo fa per te, e fallo in modo esemplare». Fortini continua osservando come «La situazione del “fuori legge”, per quel che comportava di doppia identità e di doppia cittadinanza era, letteralmente, intollerabile»; da cui la ricerca di un mediatore: «e si spiega quindi come, per molti, il Partito comunista fosse, più ancora che avanguardia del proletariato, società nella società, stato nello stato, emanazione dello Stato Sovietico e anticipazione concreta della società socialistica».12
Nel rapporto «con chi era in basso e chi lottava» e col partito comunista, la rivendicazione di uno statuto anomalo per l’opera poetica e artistica (non riconducibile in sé all’azione collettiva) tende surrettiziamente a confondersi con l’affermazione dell’individuo quale momento supremo di libertà.
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La vicenda cinese, parallela a quella europea, si complica e si arricchisce per alcune componenti, che per un verso sono collegate alla colonizzazione culturale e, al rovescio, utilizzano elementi della tradizione autoctona come strumento di liberazione.
Il momento liberatorio unificante della “nuova cultura” – l’uscita dalla cappa del dispotismo e dei suoi strumenti ideologici – scioglie l’individuo dal legame con le istituzioni (stato, clan, famiglia) e lo pone al centro. Della cultura autoctona passata si valorizza la sfera estranea al curriculum ufficiale degli studi (in letteratura, la narrativa). Nello stesso tempo, l’istanza democratica induce a una ricerca di comunicazione col “popolo” analoga a quella che si registra in Europa ma più estrema e pressante, giacché implica la rottura rivoluzionaria di una struttura radicata nei secoli, dove a ciascuna classe economica, d’età, di genere è assegnato un ruolo determinato nella società, e dove ciascuno/a è membro della collettività per la collocazione specifica entro la propria classe. Libertà e democrazia nella versione europeo-borghese si offrono come il contenitore ideologico universale all’intero ceto colto, inclusi i settori comunisti o vicini ai comunisti.
Ma assegnare all’individuo il luogo centrale, e per di più al di fuori delle istituzioni, se favorisce la ricomposizione in unità dell’intelligencija, altera però irrimediabilmente, come vedremo, quella che era stata la figura del letterato portatore di un mandato sociale, e rende impossibile, in Cina, proprio il rapporto col “popolo” che si voleva instaurare.
Il paradosso è evidente già nelle opere letterarie degli anni venti e dei primi anni trenta, precedenti all’invasione giapponese. Anzitutto nella lingua prossima alla parlata, che gli scrittori adottano in luogo di quella letteraria della tradizione colta (e ufficiale), ricca di forme sintattiche importate dalle lingue europee e di vocaboli moderni: il risultato del faticoso processo di ricerca e di invenzione individuale e collettiva, mirante a creare un mezzo di comunicazione universale, è la fondazione di una koiné linguistica limitata alle sfere urbane più acculturate; il popolo nella grande maggioranza è di nuovo escluso. Lo stesso vale per la ricerca stilistica, il linguaggio, le tematiche: la centralità dell’individuo si traduce nella centralità dell’autore, nell’autobiografia personale o di classe – anche nei casi in cui il soggetto apparente è una collettività contadina.13 L’importazione della democrazia ha ricostitutito l’élite della cultura. Di queste contraddizioni sono consapevoli le menti più lucide – a cominciare da Lu Xun, che già a metà anni venti ridicolizza gli scrittori comunisti di avanguardia, nella loro pretesa di passare dalla “rioluzione letteraria” del 4 Maggio (1919) alla “letteratura rivoluzionaria” – categoria inconsistente che maschera l’autopromozione;14 e in seguito aderisce alla campagna per la “popolarizzazione” (da zhonghua) della letteratura, proposta nei primi anni trenta da Qu Qiubai.15 Ma i nodi vengono al pettine per tutti con la formazione del fronte unito antigiapponese e durante la guerra di resistenza.
In nome dell’impegno patriottico l’intero corpo degli scrittori mette le proprie competenze a disposizione della propaganda contro il nemico comune. E, analogamente a quanto avviene in Europa quando il congresso degli scrittori antifascisti si collega ai fronti popolari, è proprio nella contingenza di un’apparente uscita dal settarismo da parte dei comunisti, di una liberalizzazione e apertura a tutte le correnti, che si accentua la pretesa delle dirigenze politiche di imporre le proprie direttive alla letteratura, in particolare definendone le tematiche. Dalle quali la lotta di classe deve essere esclusa, o debbono esserne smussati i termini, per porre al centro l’antifascismo e la difesa nazionale. In Cina come in Europa, la protesta contro la svolta in questi termini viene da grandi scrittori comunisti di spirito non servile.
Ed è quando, dopo la Lunga marcia, il Partito comunista e l’Esercito di liberazione instaurano nello Shaanxi-Gansu-Ningxia il proprio potere politico, che la “discesa al popolo” degli scrittori dà luogo al rapporto ambivalente col partito stesso, a partire dalla grande discussione sulle “forme nazionali” in letteratura, che si svolge a Yan’an nei primi anni quaranta, coinvolgendo anche autori dell’area nazionalista. La disputa si collega alla “battaglia degli slogan” e alla discussione sulla popolarizzazione, cioè alle tematiche relative all’estensione della comunicazione scritta al più grande numero di destinatari, anche al fine della comune resistenza contro il nemico della nazione.
«Opere socialiste nel contenuto, nazionali nella forma» era stato lo slogan proposto da Ždanov al primo congresso degli scrittori sovietici, che nel 1934 anticipò la svolta che avrebbe condotto alla formazione dei fronti popolari. A parte il significato specifico dell’espressione riferita all’URSS quale stato plurinazionale, lo slogan si presentava anche come l’intervento del partito a metter fine con una direttiva unitaria alla pluralità delle correnti letterarie. L’appello all’unità era fondato sia sulla teoria della pretesa estinzione delle classi, sia sull’esigenza della difesa nazionale contro il pericolo di aggressione fascista. Era il riflesso nella politica culturale dell’orientamento che sotituiva il nazionalismo (russo-sovietico) all’internazionalismo, la dittatura del partito alla lotta di classe, il fronte unito (diretto e manovrato dal partito) al pluralismo. Ne risultò la cancellazione del già ridotto margine di autonomia di cui godevano gli scrittori sovietici, e di tutte le correnti moderne, innovatrici, di avanguardia, rivoluzionarie o sedicenti tali, legate alla realtà contemporanea, e l’imposizione del “realismo socialista”, che doveva collegarsi direttamente al realismo dei grandi narratori dell’Ottocento – esponenti della cultura “più avanzata” del passato, quella grande-borghese al suo apogeo.
La pretesa del partito di imporre alla sfera letteraria le proprie scelte unitarie si riproduce a Yan’an in termini non dissimili, se pure in forma più moderata, anche perché i comunisti controllano solo una zona periferica di montagna, e gli intellettuali che vi si sono recati lo hanno fatto per libera scelta. Ma, nonostante l’apparente somiglianza degli slogan, c’è una sostanziale sfasatura nei contenuti. Agli scrittori allineati con la dirigenza politica si oppongono a Yan’an i cosiddetti modernisti, legati alla tradizione urbana del 4 Maggio,19 che solo in minima parte appartengono all’avanguardia e si caratterizzano principalmente per il riferimento alla cultura dell’Europa borghese, e in particolare al grande realismo ottocentesco nella narrativa: esattamente lo stesso privilegiato non solo da Lukács ma anche da Ždanov e da Stalin. Per contro, quanti in accordo con i massimi dirigenti politici si oppongono all’occidentalismo delle élite sono lontanissimi, in questo periodo, dal proporre qualcosa di simile al realismo socialista. Trasferiscono piuttosto nel campo letterario gli orientamenti che, nella sfera politica, sono stati definiti di nazionalismo contadino.
Non si tratta solo di populismo. Risulta chiaro quando, fra il ’41 e il ’42, si manifesta in pubblico il contrasto fra il partito e gli scrittori. Questi ultimi, accorsi numerosi a Yan’an con spirito rivoluzionario per partecipare alla resistenza, hanno trovato un ambiente assai lontano dalle grandi città da cui provengono. La vita durissima in una regione assai povera è regolata con metodi militareschi; tutto e tutti sono subordinati ai fini primari della guerra e dell’educazione del popolo, in un embrione di nuova società prepotente e vitale, se pure ancora informe. L’attività riservata all’élite colta è di istruire la maggioranza incolta e di organizzare la propaganda, mentre i suoi problemi esistenzial-individuali sono semplicemente ignorati. Il disagio che ne segue è documentato in alcuni articoli e anche in testi narrativi20 con toni ove la frustrazione di quanti nella rivolta contro il dispotismo si sono da poco riconosciuti nell’individuo borghese (di eredità borghese) si mescola al tradizionale rimprovero rivolto al sovrano dai membri della classe dirigente non adeguatamente apprezzati e rispettati. Lo scontro fra scrittori e partito rimane relativamente secondario finché dura la lotta comune durante la guerra e la guerra civile, e si cristallizza con l’avvento della Repubblica popolare. È analogo al rapporto di dipendenza e di conflitto «permanente – e nella misura in cui i termini reali venivano mistificati – inutile», di cui parla Fortini per l’Europa;21 ma è pure il seguito di una contraddizione antica interna alla classe dirigente.
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Nella civiltà cinese il senso della vita umana, la sua giustificazione e l’esorcizzazione della morte si fondano sulla nozione del plurale – il grande, comune, corpo dei corpi umano. Non enll’ugualitarismo (proprio dell’eresia e della vita segreta antiistituzionale)22 il sistema imperiale realizza la comunanza, bensì nell’istituzionalizzazione delle gerarchie. Già nel pensiero fondatore e nella società alle origini dell’impero l’appartenenza alla classe dirigente non dipende dalla nascita ma si fonda sulla saggezza. «È l’uomo comune che, se accumula bontà e completa la coltivazione di sé, viene chiamato saggio».23 Per la classe colta dirigente la mozione morale di “servire il popolo” è il primo imperativo politico e la giustificazione stessa della propria esistenza;24 per il popolo l’imperativo politico-morale è il lavoro, nutrire se stesso e i dirigenti al fine di mantenere l’integrità e il funzionamento del corpo collettivo. L’unità di governanti e governati si realizza attraverso i riti25 ed ha il suo principale strumento nello stato, in funzione accentratrice e di controllo. Su questa base comune teorica e politica, stabilita nell’epoca Han (sec. II a.C.-III d.C.) dall’eredità del grande pensiero dei secoli V-III a.C. (principalmente delle scuole confuciana e legista)26 si definiscono le differenze di orientamento fra la classe colta – dove si riscontrano alcune costanti, in combinazioni diverse col mutare delle condizioni storiche e della composizione dei gruppi sociali con cui essa condivide il potere e dei settori emergenti nella società. Fra le classi che si affiancano in posizione subordinata a quelle “fondamentali” dei letterati e dei contadini, i mercanti emergono periodicamente come gruppo sociale in ascesa. D’altra parte accanto ai letterati, ora più distinta ora più confusa con una loro stessa componente, dura nell’antichità fino agli inizi del nostro millennio una classe aristocratica che detiene un potere di fatto, nelle province e nella corte imperiale. L’aristocrazia delle province può assumere una funzione paternalistico-conservatrice, ed essere assunta come alleata dal settore più moralisticamente confuciano dei letterati; mentre è accaduto che, specie nell’antichità, l’attività dei mercanti associata a quella degli artigiani sia stata accettata come elemento propulsivo da parte dei confuciani più influenzati dal legismo.27 L’aristocrazia di corte, che ha spesso al centro le donne con le loro famiglie e gli eunuchi, dura quanto l’impero.
In ogni caso, aristocrazia e mercanti sono potenzialmente o di fatto elementi sovvertitori del potere accentrato dello stato e dell’equilibrio fra campagna e città, fra produttori e governanti.28 L’incarnazione degli interessi dello stato da parte dei letterati è conservazione dell’equilibrio economico e politico e difesa delle attività “fondamentali” – in primo luogo l’agricoltura – e di chi le esercita. Fra l’VIII e l’XI secolo la civiltà della Cina classica è al suo apogeo; nello stesso tempo, maturano le spinte centrifughe con l’aristocrazia protagonista29 e quelle innovatrici, che partono dalle città, dagli artigiani e dai mercanti. Si definiscono con più chiarezza la figura complessiva e la funzione dei letterati, specie durante la dinastia Song (sec. X-XIII) che è il loro periodo d’oro: salvataggio e recupero dello stato attraverso la riforma – intesa in modi diversi dalle varie correnti. Sul terreno comune di una raffinatissima cultura, a uno spirito di tolleranza degli uni si contrappone lo statalismo degli altri, col rigido richiamo ai principi morali della tradizione. I primi sono più indulgenti, se pure in modo passivo, nei confronti di una civiltà urbana con elementi protocapitalistici. Mentre gli statalisti assumono la difesa dell’agricoltura e del popolo lavoratore contadino.30 Gli uni e gli altri, divisi principalmente da questioni di metodo, saranno alla fine sconfitti dalla conquista mongola, che instaurerà un dispotismo autocratico, estraneo alla tradizione cinese classica, umilierà la classe dei letterati e al primato dell’agricoltura sostituirà quello del commercio. La rinascita cinese dell’era Ming (secoli XIV-XVII) porterà tuttavia in sé l’eredità dell’autocrazia mongola. Mentre le forze economiche urbane continueranno ad affermarsi, con effetti contraddittori.
Resta il fatto che le ripetute spinte a un’economia “di mercato” tendono periodicamente a rompere le gerarchie, ma con ciò stesso l’unità governanti-popolo (mettendo al centro le differenze di classe). Lo statalismo tradizionale, incarnato dal settore più coerentemente e onestamente confuciano dei letterati blocca più volte nel corso della storia, in vista dell’interesse pubblico, possibili ipotesi di gestione privatistica dell’economia, e quindi di evoluzione della società in senso protocapitalistico. Nello stesso tempo, questa politica implica una difesa degli strati più deboli, che coincidono peraltro con i principali produttori: i contadini.
L’accentuarsi del dispotismo imperiale e del potere delle clientele, degli eunuchi di corte e della polizia politica nel corso della dinastia Ming, insieme con l’evoluzione della civiltà urbana, specie nelle province centro-meridionali, favorisce fra i letterati correnti di dissenso. L’assimilazione di elementi buddhisti nel sicnretismo neoconfuciano consente la compresenza di ortodossia ed eresia, razionalismo e misticismo, conservazione ed eversione. Il richiamo al confucianesimo dei padri vale a riaffermare il primato dei letterati; mentre la reazione al dispotismo, alimentata anche dall’esperienza di (sia pur involontaria) discesa fra il popolo dell’epoca mongola, dà luogo alla rivendicazione di autonomia del pensiero individuale, e fino alla promozione rivoluzionaria di comunità di base ai margini delle istituzioni.31
Nel corso dell’epoca Qing (secoli XVII-XX), quando crescerà ulteriormente il peso del dispotismo imperiale, col distacco fra dinastia straniera e cinesi, la funzione istituzionale dei letterati-funzionari sarà sempre più conformistica e di conservazione, mentre la vitalità e l’originalità resteranno nella sfera del pensiero individuale, della ricerca filologica e dell’opera letteraria.
L’affermazione dell’individualità degli intellettuali e la crescita di correnti di pensiero indipendenti o di opposizione negli ultimi secoli dell’impero va di pari passo col venir meno, di fatto, della loro funzione propulsiva quale classe dirigente con un mandato al servizio e in difesa del popolo.
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Oltre che al pensiero europeo successivo alla rivoluzione francese, principalmente a queste correnti di opposizione e ai singoli pensatori individualisti o eretici degli ultimi secoli dell’impero fanno riferimento gli intellettuali riformatori e rivoluzionari cinesi, inclusi i comunisti e quelli che diventano dirigenti del partito comunista.32 Non solo, ma i comunisti accolgono dai loro compagni europei la teoria secondo cui il socialismo è superamento e rovesciamento del sistema borghese, attraverso il quale è indispensabile e inevitabile passare e del quale non si può non essere eredi. L’idea di libertà collegata all’affermazione dell’individuo è centrale nella formazione dei dirigenti del partito comunista cinese; in particolare di quelli come Mao Zedong, che provengono dall’anarchismo.
D’altra parte, la mozione ugualitaria del comunismo implica il sacrificio degli interessi individuali, non solo economici; e il partito comunista funziona in base a principi di collettivismo, spesso con sacrificio degli interessi individuali di ogni tipo. Inoltre, come abbiamo visto, nella tradizione il mandato dei letterati è tutt’uno col riferimento al popolo-collettività, e il concetto di libertà individuale, quando compare, contraddice al mandato; e con l’entrata nella “modernità” (riferimento all’Occidente), l’affermazione dell’individuo, valida per gli intellettuali, li allontana però ulteriormente dal popolo.33
Il modo in cui Mao Zedong nel 1942 affronta la questione del conflitto fra scrittori e partito34 implica una modifica nell’orientamento suo e della sua generazione, individualista e libertario alle origini (egli vi allude quando inserisce nel discorso una breve parabola autobiografica). Per quanto cocnerne la letteratura in senso stretto, è ancora il passaggio alla popolarizzazione, al quale ho accennato sopra; ma si inserisce in una scelta politica generale di grande peso: con l’allentarsi della sudditanza all’Unione Sovietica,35 è il distacco dalla linea “europea” dei partiti comunisti.
Come risulterà chiaro dagli sviluppi successivi, la strada percorsa dai comunisti europei viene sostanzialmente abbandonata da Mao Zedong36 (seguito solo da una minoranza fra i dirigenti del partito ma abbastanza forte per imporsi almeno periodicamente e in parte, fino al fallimento della rivoluzione culturale fra il ’67 e il ’68). L’ipotesi di un passaggio obbligato per una fase di sviluppo del capitale, dal cui seno scaturisce la necessità del socialismo, viene accolta solo per quanto riguarda il dominio mondiale del capitale stesso, nella specie dell’imperialismo. Ma si considera inevitabile, se la si accogliesse anche per quanto riguarda l’evoluzione interna, la ripetizione in Cina di quanto è accaduto in Unione Sovietica: il controllo da parte di uno stato accentratore dell’accumulazione e della riproduzione del capitale, in concorrenza con i paesi dominati dalla proprietà privata. La scommessa socialista è di evitare lo sviluppo del capitale prima che esso entri come ossatura interna alla Cina. È la scommessa eroica di Yan’an,37 che si ripeterà periodicamente negli anni della Repubblica popolare. Nulla è necessario nella storia umana, tutto è possibile; fino alla rivoluzione culturale – tentativo estremo quando, e perché, tutto è dato per quasi certamente perduto.38
Ma evitare l’entrata del capitale comporta il rifiuto dell’eredità culturale europea. Questo programma – nonostante ogni contraria apparenza nella propaganda e negli slogan, che sono un continuo paradosso polemico – esclude la figura del proletario erede della filosofia classica tedesca (cioè del patrimonio borghese), e implica l’identificazione del comunista, dirigente o intellettuale, con gli interessi degli alienati e sfruttati in quanto ultimi e deprivati di tutto nell’ottica borghese (“Cina povera e bianca”). Il programma è incompatibile con la centralità del singolo individuo nella civiltà della borghesia in Europa.
L’invito a cancellare se stessi, rivolto ai quadri e agli intellettuali, si accompagna nei momenti rivoluzionari all’appello a “osar pensare” e, in base a un proprio autonomo giudizio, a ribellarsi all’autorità (che si configura come dispotica, anche quando voglia rappresentare gli interessi popolari);39 fino al “fuoco sul quartier generale”. Il paradosso si spiega solo col fatto che il riferimento non è alla cultura europea ma a quella cinese,40 della quale viene assunta l’eredità. È pure la sola in larga misura condivisa dal popolo, il solo linguaggio nel quale le contraddizioni e le polarità suonino in temrini generalmente accessibili. Le metafore sono “grande disordine” contro “grande pace” e “giusto mezzo”, si rinnova l’antica espressione “servire il popolo”, e così via. La rivolta dell’individuo contro l’unità del dispotismo (“l’uno si divide in due”) provoca il “grande disordine” in funzione del corpo comune umano.
Il programma è fallito perché si è posto come momento estremo rivoluzionario senza mediazioni, privo quindi di alternative all’unità per via di ruoli istituzionalizzati e di gerarchie. Ma anche perché privo di mediatori: non i quadri di partito ormai burocratizzati, che hanno operato tutto il tempo per distorcere il programma stesso, in primo luogo nella politica verso gli intellettuali (il loro alter ego); non gli intellettuali-zhishi fenzi, legati a un’immagine anacronistica del mandato, e troppo frontalmente attaccati e umiliati per avere la forza di concorrere alla messa in questione del proprio ruolo e all’annientamento della corporazione.
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L’annientamento è venuto ad opera delle forze esterne nemiche del comunismo. Tanto più anacronistica, come ho già detto, risulta la resurrezione oggi del mandato alla maniera degli anni venti, tentata dagli intellettuali più anziani e di età intermedia – quando l’ipotesi comunista è sconfitta e il dispotismo di partito si esercita ormai in funzione dell’ingresso e del dominio del capitale; mentre la centralità del “privato” ne alimenta l’affermazione esclusiva. Conformemente, negli anni ottanta rinasce e si sviluppa la problematica della “modernità” e del rapporto fra Cina e Occidente, con la tendenziale condanna, da parte di alcuni, della civiltà cinese nel suo complesso.41 Sul polo opposto, altri vanno alla ricerca delle “radici”,42 in un rapporto col popolo contadino che è ad un tempo di identificazione e di incolmabile distacco, di amore e di orrore: indice di una condizione disperata che finalmente si disvela, con risultati a volte eccellenti sul piano letterario.
Gli intellettuali come presenza sociale scompaiono; sono voci fra il popolo (ora cinico e anarcoide, autodistruttore, ora in cerca di altra identità) dove dal popolo non si distinguono, anche nelle illusorie velleità soggettive; quello che populismo e partito comunista non erano riusciti a fare di loro, lo fa la comune condizione di alienati: ma con esclusione di ogni mandato, con la perdita di identità culturale e l’eclissi – almeno temporanea – del comune corpo collettivo. La “modernizzazione” è contestuale al degrado e al dileguarsi dell’intellettuale moderno, ultima figura del mandarino. Le strade finora percorse sono chiuse, si aprono altre possibilità.
II.
Quanto accade agli scrittori e al ceto colto interessa non per la sterile analisi delle vicende di una o più corporazioni, ma perché è un aspetto centrale della formazione della coscienza individuale e collettiva. Quanto accade agli scrittori e al ceto colto in Cina è pure uno dei risultati della colonizzazione planetaria, attuata oggi non più da singole potenze ma dalla stessa struttura del capitale. Sembra quindi utile ricordare per quali strade si sia giunti alla condizione presente, non solo in Cina.
L’evoluzione della società borghese, che in nome dell’esaltazione dell’individuo negava le forme totalizzanti (medioevali) di controllo della collettività, attraverso una complessa dialettica (dove è dominante il principio del profitto economico) è approdata alla negazione della autonomia degli individui (ivi inclusa quella locale settoriale e parziale pur concessa dai sistemi medioevali) e alla costituzione di giganteschi organismi di controllo globale e in larga misura occulto. Fondati sul dominio del denaro, precludono le organizzazioni in collettività che a quel dominio vogliano sottrarsi. La liberazione degli individui si realizza nel senso della frantumazione dei legami organici e sociali fra individuo e individuo. L’aggregazione in società è consetita se equivale al controllo-manovra di masse di donne e uomini privi di reciproco collegamento interno e incollati con legami esterni; e si attua suddividendo le masse in strati gerarchicamente distinti – secondo un movimento che per un verso moltiplica gli strati, e per l’altro tende a ridurli a due: quello di chi manovra e quello di chi è manovrato. La spinta alla moltiplicazione deriva dall’impossibilità di arrivare a praticare la riduzione a due. È il moto permanente verso la modernità-rifeudalizzazione.
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Il problema delle utopie, o dei socialismi o del comunismo, è stato ed è anche quello di uscire da questa impasse. Diverse strade sono state ipotizzate, e tentate in pratica. In generale, si è cercato di salvare i principi di liberazione di libertà degli individui e delle collettività espressi dalla civiltà borghese, eliminando le cause della dialettica che conduceva alla distruzione di quella stessa civiltà. Le cause sono state individuate dalle varie correnti ora nella proprietà privata, ora nel dominio di minoranze, ora in altro. I tentativi pratici di uscire da quella dialettica di distruzione hanno offerto soluzioni che temporaneamente conducevano a sbocchi parzialmente positivi, ma sono poi tutte state travolte, sostanzialmente da quella medesima dialettica di distruzione.
Rimane il grande interrogativo di come arrivare alla liberazione degli individui attraverso il riconoscimento e l’attuazione delle singole personalità nella dimensione collettiva. Per quali vie ciascuno possa giungere a riconoscere la propria non esistenza, se non come molecola di una collettività complessiva.43
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Nella sfera del leninismo, gli intellettuali free-lance e l’intellettuale collettivo-partito si contendevano il ruolo di portatori della coscienza dall’esterno. Nella sfera non leninista potrebbero essere, all’interno della collettività di massa, gli elementi (individui singoli, o scintilla mentale entro ciascun individuo) stimolatori della coscienza collettiva. In ogni caso, questa funzione è incompatibile con quella di elaborazione e trasmissione di frammenti di conoscenza-scienza o di propaganda-pubblicità attribuita ai più istruiti e ai più intelligenti dal dominio totalizzante. Quest’ultimo infatti mira ad abolire, mettere a tacere, la possibile trasmissione di coscienza; con questo o quel mezzo, fino ad abituare la collettività disgregata a embrioni di linguaggio elementare, tanto che ogni discorso appena articolato diventi incomprensibile e vano.
Il solo modo di reagire correttamente, da parte degli “intellettuali” che non vogliano essere residuo del passato borghese né di quello leninista, è di spogliarsi di ogni carattere di élite e – fin dove possibile – di ogni specifica individualità, farsi esempio vivente e molecola di una collettività cosciente in fieri. Nella frammentazione imposta, operare a cambiare la qualità del frammento (comunicativo, non disgregato).
Questa era la via indicata dalla rivoluzione culturale in Cina. È stata deviata dalla potente sussistenza della struttura leninista, che di un appello in questa direzione ha approfittato a proprio vantaggio, per esaltare l’intellettuale-partito contro l’intellettuale free-lance: riportando così il conflitto a una fase precedente, in posizione di debolezza anche di fronte all’evoluzione delle strutture disgreganti del dominio attuale.44
1 La scuola di pensiero chiamata in Cina “Song” (dal nome della dinastia, 960-1279) e dagli studiosi europei “neoconfuciana”, introdusse nel pensiero confuciano elementi tao-buddhisti. Nel secolo XIX alcuni elementi della civiltà europea vennero acquisiti dapprima in funzione strumentale (Zhang Zhidong), e poi per una effettiva fusione con il pensiero cinese (Kang Youwei, e specialmente Tan Sitong).
2 Vedi Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Verifica dei poteri, nuova ed., Milano, il Saggiatore, 1965, pp. 145-146. Da qui: FF, Mandato.
3 Che visse fra il secolo IV e il III a.C., quando il poeta aveva già una propria identità e il riferimento sciamanico era puramente allusivo.
4 «Il Maestro non parlava di prodigi, violenze, disordini, spiriti» (Lun yu, VII, 20).
5 Vedi la famosissima lettera con la quale il grande storico dell’antichità Sima Quian (II-I sec. a.C.) giustifica con il compito straordinario di portare a termine la sua opera il rifiuto di suicidarsi dopo aver subito l’evirazione per ordine imperiale (estrema umiliazione, inflitta appunto come invito al suicidio). Pure nell’opera letteraria trovarono un compenso al fallimento politico, fra i più grandi e in epoche diverse, il poeta Du Fu (712-770) e il narratore Pu Songling (1640-1715).
6 Nei confronti di chi accetta la colonizzazione torna valida la teoria del “ritardo” dei colonizzati.
7 FF, Mandato, p. 144.
8 FF, Mandato, p. 146.
9 Se si escludono minoranze puramente conservatrici o fascistizzanti, di scarsa o nulla rilevanza culturale.
10 FF, Mandato, pp. 152-153.
11 Vedi, p. ed., il Journal d’un intellectuel en chômage di Denis de Rougemont (tr. it. Diario di un intellettuale disoccupato, Roma, Fazi, 1997), dove ogni proposito di rompere la barriera che separa lo scrittore dalla gente comune diventa velleitario, a motivo dell’anticomunismo estremo e pregiudiziale.
12 FF, Mandato, p. 153.
13 La sola vera eccezione è quella di Lao She, autentico narratore – e scrittore che non pretendeva nessun mandato.
14 Vedi la polemica fra Lu Xun e gli autori della Chuangzao she (“Società Creazione”), di cui faceva parte anche Guo Moruo.
15 Qui Qiubai: letterato amico di Lu Xun, che per qualche tempo fu segretario del partito comunista.
16 L’intervento è riportato per intero in appendice a FF, Mandato, pp. 173-176. Vedere l’interpretazione che Franco Fortini dà dell’intervento stesso e del congresso.
17 Vedi: Da Xu Mouyong bing guanyu kangri tongyixian wenti (tr. it. Risposta a Hsü Mou-yung e sul fronte unito antigiapponese, in Lu Xun, La falsa libertà, Torino, Einaudi, 1968, pp. 319-332).
18 Il 1927 segna il fallimento dell’alleanza fra partito nazionalista e partito comunista; con il voltafaccia di Jiang Jieshi e i massacri di Shanghai, è anche la disastrosa sconfitta della rivoluzione operaia nelle città. (Una versione romanzata dei fatti di Shanghai si legge ne La condition humaine di André Malraux).
19 Fra i nomi più celebri: Guo Moruo, Feng Xuefeng, Hu Feng. Sul fronte opposto, Xiang Linbing e Xiao San.
20 Fra i testi più noti, vedi: Sanbajie yugan (Pensieri sull’8 marzo) di Ding Ling; Liaojie zuojia, zunzhong zuojia (Comprendere gli scrittori, rispettare gli scrittori) di Ai Qing; Lun tongzhizhi “ai” yu “nai” (“Amore” e “pazienza” fra compagni) di Xiao Jun; Ye baihehua (Il giglio selvatico) di Wang Shiwei.
21 FF, Mandato, p. 148.
22 Quali scelte individuali – l’eremitaggio o la non ortodossia dei funzionari nella vita privata; oppure quali fenomeni collettivi – le società segrete, il banditismo e le grandi rivolte popolari.
23 Xunzi, cap. 8. Xunzi (III secolo a.C.) è autore del primo trattato, di scuola confuciana, composto individualmente e privatamente da un autore. Scritto in una splendida prosa simmetrica, è una grande opera letteraria, oltre che il più completo e organico testo filosofico della Cina pre-Han. Si può affermare con Burton Watson che questo libro è secondo solo al Zhuangzi come capolavoro della saggistica antica e, con Herrlee G. Creel, che Xunzi è uno dei più brillanti filosofi di ogni tempo e luogo.
24 I funzionari del sovrano «comprendono chiaramente che avanzare in faccia alla morte […] è la via per soddisfare il loro desiderio di vita; che spendere e provvedere tutti dei beni necessari è la via per soddisfare il loro desiderio di ricchezza», Xunzi, cap. 19.
25 «Se l’uomo si impegna nell’adempimento dei riti, soddisferà il suo umano desiderio e l’adempimento dei riti. Se si concentra solo sull’adempimento del desiderio, non soddisferà né l’uno né gli altri». «Quando [i riti] sono celebrati nella maniera più alta, si realizzano appieno i sentimenti e le forme in cui si incarnano; nella maniera intermedia, sentimenti e forme si alternano; nella maniera più modesta, restano i sentimenti e solo in essi tutto trova l’unione». «I riti sacrificali […] solo il saggio può comprenderli pienamente. Il saggio li comprende, il signore trova conforto nel celebrarli, i funzionari si prendono cura di conservarli, e il popolo li accetta come consuetudine. Per il signore sono una parte della via dell’uomo; per il popolo sono una cosa che riguarda gli spiriti». Xunzi, cap. 19.
26 Il legismo è una delle “cento scuole” di pensiero dei secoli V-III a.C., e pone al centro della formazione dello stato la supremazia delle leggi. Nella specie più alta, quale è quella del trattatello di Han Fei (secolo III a.C.), abbiamo una lucidissima teoria della politica. Rifiutato come immorale e tirannico dalla classe dirigente letterata che adottò il confucianesimo, non meno del confucianesimo il legismo contribuì alla formazione degli stessi letterati e fu guida alla condotta pratica di quasi tutti gli uomini di governo.
27 Di un dibattito svoltosi presso la corte imperiale già nell’anno 81 a.C. fra alcuni rappresentanti del governo e una sessantina di letterati e sapienti (boni viri) convocati nella capitale Chang’an dalle diverse province abbiamo notizia nella Discussione sul sale e sul ferro (Yan tie lun). La disputa verte sulla proroga o l’abolizione dei monopoli di stato del ferro e del sale introdotti, con altre misure di politica finanziaria, dal precedente imperatore Han Wudi (141-87 a.C.). Al controllo statale (primato della politica, sostenuto dai progressisti-legisti) si oppone il laissez-faire (assunto dai conservatori-confuciani): gli uni e gli altri argomentando per il bene del popolo.
28 Scrive Jacques Gernet a proposito del periodo fra i secoli V e X: «The classical tradition shows that they [the literati] were best on maintaining a world of thought, which […] had been proven, and remained, in terms of the practical management of everyday affairs, the only efficient instrument of government. The cohesion of families and village groups derived from respect fro moral principles and the hierarchy, while social peace depended on economic prosperity: the literati’s preoccupations were all oriented toward these concrete goals. Hence the fundamental materialism of the classical tradition, its reprobation of unnecessary expenditure, and its constant praise of the austere moral standards attributed to the rulers of antiquity. The moral doctrine of the literati stood in direct relationship with their economic and administrative program. […] Againts this literati class can be positioned all those who were not trained to such discipline or who felt no particular compulsion to conform to its worthy principles: members of the imperial aristocracy, women especially, and those who stood in the aristocrats’ favor. Their comportment, too, had been moulded by traditions extending back to antiquity: traditions of splendor and prestige, and policies of patronage, in which women played a special role because they were instrumental in forming alliances and, at the same time, interested in the commercial power» (Les aspects économiques du bouddhisme dans la société chinoise du Ve au Xe siècle, Saigon, École française d’Extrême Orient, 1956; le citazioni sono dalla traduzione inglese, Buddhism in Chinese Society, New York, Columbia U.P., 1995, p. 279). Gernet vede quest’ultima classe, nel suo complesso, favorevole al buddhismo; mentre fra i letterati, in linea di principio ostili in quanto classe, possono esservi adesioni invididuali. Vede pure favorevole al diffondersi del buddhismo il mondo popolare e in genere dei villaggi, inclusa la parte benestante. La configurazione e gli effetti economici del buddhismo nel medioevo cinese vengono collegati a una sorta di alleanza con l’aristocrazia e le realtà popolari locali per un comune carattere anticentralistico, associazionistico e industrial-commerciale. Non solo la tendenza, attraverso il monachesimo o il servizio ai monasteri, a sfuggire al lavoro agricolo, alle corvées, alle tassaizoni, ma anche certe attività economiche innovatrici si presentano dannose per l’economia dello stato. «These installations [mulini automatici], which constituted an important source of income for the great lay families and major monasteries, multiplied in parallel with the development of large landed properties under the T’ang. The imperial government was obliged to counter this new abuse, for the paddle wheels reduced the current and entailed the loss of part of the irrigation water. Moreover, they increased the silting of the canals. […] The use of water for irrigation had first priority» (ivi, p. 145). Questo carattere economico e politico si collega poi all’ideologia per cui il buddhismo è asocialità: chu jia, “uscire di casa” per farsi monaco, è antisociale per le classi alte (fuga dalle responsabilità del servizio pubblico), e per il popolo (fuga dalla coltivazione della terra e dal pagamento delle tasse).
29 Al momento del massimo splendore, il paese fu sconvolto dalla rivolta del generale An Lushan (755-762). Concorsero a provocarla la degradazione progressiva del sistema agrario, le spese militari eccessive e l’influenza crescente dei comandanti militari, la rinascita di spinte centrifughe con la risalita dell’aristocrazia terriera in opposizione ai funzionari, le lotte intestine ai vertici del potere e nel palazzo imperiale. Le due capitali, Chang’an e Luoyang, furono conquistate e saccheggiate dai ribelli. Per tutto il popolo fu la perdita definitiva di una sicurezza. Masse di profughi si allontanarono dalle capitali e dalle zone della rivolta. Pure i letterati si dispersero. L’esperienza sconvolgente di quegli ani stimolò in loro la coscienza di come la stessa grande civiltà Han fosse in pericolo, e alimentò il sentimento di responsabilità verso il paese.
30 Due sono i nodi intorno a cui verte il dibattito sulle misure politiche, nelle condizioni di crescente ricchezza e di evoluzione dei modi di produzione e discambio: il peso e la dimensione dell’intervento statale nell’economia; l’opportunità o meno di correzioni d’autorità degli squilibri determinati dal movimento spontaneo del mercato – in primo luogo, l’impoverimento di grandi masse di contadini coltivatori, speculare alla crescita e all’arricchimento dei privati proprietari della terra. L’istanza del bene comune implica per i più coerenti la riforma delle istituzioni. Nell’XI secolo, con l’esplosione dell’economia mercantile e monetaria, sono mature le condizioni per l’intervento attivo dei governanti e per la ridefinizione dei compiti e delle attribuzioni dello stato. È il compito intrapreso da Wang Anshi, con la sua “nuova legge”. Gli si oppone la maggioranza degli altri letterati, per i quali la funzione di governo e il bene comune sono saldati agli interessi dei settori privilegiati della società, e l’azione dello stato diviene arbitraria e irrealistica, ove incrini quella saldatura.
31 Fra il XVI e il XVII secolo esercitò una grande influenza il pensiero di Wang Yangming (1472-1529), il maggiore filosofo del tempo. Pur collocandosi all’interno dell’ortodossia, egli aprì la strada alla liberazione dal dogmatismo, con le sue tesi sulla conoscenza del bene innata, e sull’immanenza della legge morale universale. Secondo Wang, la certezza del bene e del male, di quello che è corretto o errato, viene all’individuo dall’interno della propria coscienza, con certezza, prima di ogni argomentazione “esterna” o raziocinante. Le correnti e le scuole ispirate dai discepoli più vivaci sono connotate da un forte spirito di indipendenza nei confronti della dottrina ufficiale e della politica del governo, arrivando anche all’opposizione esterna, come nel caso della Scuola di Taizhou. Appartenne a questa un personaggio straordinario come He Xinyin, fautore della piena e libera estrinsecazione della personalità di ciascuno e portatore di un’utopia ugualitaria, fondata sul rapporto di amicizia, il solo fra uguali. Organizzò nel suo clan un esperimento di vita comunitaria ed ugualitaria, che durò felicemente per sei o sette anni, finché non fu distrutto dalle autorità locali attraverso l’applicazione di tasse esorbitanti. He Xinyin fu imprigionato a Wuchang e assassinato in carcere. Uno splendido saggio in sua difesa scrisse il grande pensatore eretico Li Zhi nel 1582. Sede di opposizione politica fu l’Accademia di Donglin (Bosco orientale) a Wuxi nel Zhejiang; nel 1625 subì una terribile repressione, e centinaia di letterati vennero arrestati e fatti morire in carcere.
32 È noto l’interesse di Mao Zedong per Wang Fuzhi (1619-1692), pensatore di grande forza, che associa l’indipendenza di giudizio a un fondamentale laicismo, lo spirito di protesta a una concezione non antiistituzionale, una visione ciclica della storia a una difesa dell’etnia cinese, che è stata interpretata come proto-nazionalismo.
33 Non si tratta qui di una casistica relativa al contrasto fra libertà e uguaglianza, ma della questione, ben più fondamentale, se il concetto di libertà identificato con l’affermazione dell’individuo abbia valore e significato al di là dei limiti storici della società borghese.
34 Vedi i famosi interventi alla Conferenza sull’arte e la letteratura, che sono correntemente interpretati come uno dei momenti più autoritari di Mao, sopraffattore della libertà degli scrittori in nome della ragione politica. Tali appaiono decisamente nella versione deformante data nelle Opere scelte e tali sono, in ogni caso, per molti aspetti (tanto più che si collegano a effettive misure repressive). Ma in questa sede interessano le motivazioni profonde e le contraddizioni, che non solo percorrono l’intera biografia di Mao ma riguardano tutti i rivoluzionari cinesi per il corso di un secolo.
35 Come sempre, si deve fare attenzione a non confondere l’apparenza (qui, i riferimenti elogiativi all’URSS) con la sostanza del discorso.
36 Per l’aspetto strettamente politico, vedi quanto dichiarato da Mao: «Anche prima dello scioglimento della III Internazionale, noi non abbiamo obbedito agli ordine della III Internazionale» (Mao Tse-tung, Discorso sui problemi filosofici, in Discorsi inediti, a cura di Stuart Schram, Milano, Mondadori, 1975, p. 173. In questa conversazione Mao prende esplicitamente le distanze da molti aspetti del pensiero europeo, rivoluzionario e non).
37 «La parte materialmente inferiore vincerà la parte materialmente superiore; la campagna conquisterà la città; la parte priva di assistenza straniera vincerà la parte fornita di assistenza straniera» (Jack Belden, La Cina scuote il mondo, Bari, Laterza, 1971, p. 491).
38 È assai interessante in proposito l’interpretazione di Alessandro Russo, che pone l’ipotesi della sconfitta la centro dell’opzione di Mao per la rivoluzione culturale.
39 Vedi le conversazioni di Mao con gli studenti, nel periodo precedente e durante la rivoluzione culturale.
40 «Io sono un filosofo indigeno, voi siete filosofi stranieri» (Mao Tse-tung, Discorso sui problemi filosofici, in Discorsi filosofici cit., p. 179).
41 Vedi la serie televisiva di grande successo He shang (In morte del Fiume), manifesto delle correnti più schierate a favore della modernità e della subalternità all’Occidente. (He shang: autore Xia Jun, sceneggiatori Su Xiaokang e Wang Luxiang. Consulenti scientifici l’ideologo Jin Guantao e l’economista Li Yining. La serie venne trasmessa nel giugno 1988. Per la sceneggiatura, seguita da un’ampia scelta di testi critici, vedi il vol: “He shang” lun [La discussione su He shang], a cura di Cui Wenhua, Beijing, 1988. Un Symposium sul tema è stato pubblicato in Bulletin of Concerned Asian Scholars, XXIII/3, 1991).
42 La polarità è tuttavia apparente, o relativa, se si considerano le forme avanguardistiche, ibride, di “realismo magico”, postmoderne adottate nella scrittura da molti autori di questa corrente (o insieme di correnti).
43 I ripetuti conflitti fra partiti comunisti e intellettuali vertono su dove si collochi la coscienza individuale-collettiva: negli individui, fra le masse, nei gruppi corporati, negli intellettuali, nel partito-intellettuale collettivo? Ma la coscienza nasce dall’interno oppure è portata dal di fuori? – I conflitti si inseriscono in quello che si presenta come un dilemma insolubile, nei termini posti dalla dialettica della civiltà borghese: liberazione degli individui o liberazione della collettività.
44 Questa via è l’opposto di quella “buddhista” propugnata da molti pentiti del comunismo. Infatti la scelta buddhista fa riferimento a un universale natural-cosmico dentro il quale si muovono i frammenti umani, ma che ignora, come abbiamo visto, la dimensione della collettività sociale organizzata in istituzioni, e anzi le si oppone. È una filosofia della non-vita, della non-speranza, che bene si accompagna, come soluzione individuale, alla rifeudalizzazione come soluzione sociale.