
Nel caso di Gesù una combinazione particolarmente letale di fattori interviene a scatenare l’aggressione da parte degli esponenti del Sinedrio: la reazione dopo il suo attacco inaudito al tempio, la salvaguardia del proprio ruolo religioso e politico messo tanto più a rischio a causa dell’occupante romano che esigeva da loro la custodia dell’ordine, il rifiuto che quell’uomo di origine oscura potesse arrogarsi il ruolo messianico abbinato ad un pericoloso successo presso la popolazione. Invidia, gelosia, zelo si sommano. Che dunque l’invidia dei sacerdoti abbia potuto giocare un ruolo importante, forse decisivo, nella volontà di perseguire quel Galileo giunto a turbare la festività pasquale è verosimile, e l’evangelista ha avuto l’abilità di ricavarne un tratto drammatico assegnando a Pilato il compito di interpretare in questi termini la situazione.
In effetti a ben guardare il passo di Marco, ripreso soltanto da Matteo, si presenta come una glossa redazionale, il cui scopo è di offrire una chiave di lettura circa il comportamento della classe sacerdotale, che getta altresì luce sul ruolo assegnato a Pilato in questa vicenda. Direi, anzi, che in qualche misura l’invidia nell’economia del racconto della passione svolge una funzione che conferisce al dramma i contorni della tragedia, e la tragedia ha bisogno di un motivo conduttore. Una tragedia dell’invidia, dunque, tanto più che ad esservi coinvolta è anche la terza componente dell’azione drammatica, cioè i discepoli, a cominciare dal motivo che induce Giuda a fare arrestare Gesù, determinando altresì il loro venir meno culminante nel rinnegamento di Pietro. Che è per l’appunto la situazione di cui è questione nella Lettera di Clemente, in allarme per i conflitti intestini che rischiavano di condurre alla dissoluzione la comunità di Corinto.
Ma veniamo a Pilato, del quale in Marco si dice che «capiva» perché i capi religiosi gli avevano consegnato Gesù. Occorre supporre pertanto che egli conoscesse bene l’indole di questi interlocutori, i loro intrighi, i loro scopi nascosti, forse indicibili, di autorità soggette all’occupante romano, ma altresì abili nel gioco politico delle parti. Matteo ha cambiato quel «capiva» in «sapeva», suggerendo piuttosto l’idea che Pilato fosse a conoscenza delle ragioni effettive che avevano condotto alla consegna di Gesù al tribunale romano; ma in questo caso il procuratore romano avrebbe dovuto avere per altra via informazioni su comportamenti politicamente rilevanti di quel Galileo. Cosa improbabile. Ma lo scopo di Matteo è di accentuare il contrasto tra i sacerdoti e Pilato a favore di quest’ultimo. Tanto basta a cambiare l’andamento del racconto imponendo una lettura improbabile del ruolo e della figura stessa di Pilato come di un politico maldestro che di quella faccenda scabrosa si sarebbe volentieri lavate le mani, ma che si sentiva in dovere di far valere la sua autorità contro quella schiera di interlocutori malevoli, salvo infine si lascia prendere nella loro rete: «Se rilasci costui non sei amico di Cesare…», è la battuta che chiude il contenzioso secondo Giovanni 19, 12.
Dunque Matteo mette i fatti in prospettiva in modo che possano essere letti da un certo punto di vista. Mentre Marco si limita ad accostarli. Così nel suo racconto, la folla sopraggiunta per chiedere a Pilato di liberare loro un prigioniero in occasione della Pasqua sembra ignorare il caso di Gesù. Essa sale in un secondo momento al pretorio con l’intento di chiedere che fosse graziato Barabba, evidentemente non un delinquente comune ma un sovversivo (Luca 23, 19 mette il suo arresto in rapporto ad una recente sommossa). Pertanto a proporre loro inaspettatamente la liberazione di Gesù è piuttosto il procuratore romano. Diversamente dal racconto di Matteo, dove la folla è in scena fin dall’inizio e fin dall’inizio è associata alla volontà mortale dei sacerdoti al punto da riconoscersi infine responsabile in solido per aver versato sangue innocente (27, 25).
Penso che in questi racconti si dovrebbe prestare molta attenzione al gioco delle parti tra potere religioso e potere politico, che si fa più chiaro se si mette da parte l’idea improbabile che Pilato possa aver preso le difese di Gesù (un motivo chiaramente antigiudaico introdotto da Matteo e portato al culmine da Giovanni). Raymond Brown ha proposto sulla scorta di Marco un’ipotesi più verosimile, cioè che Pilato non fosse tanto interessato a salvare Gesù quanto a condannare Barabba che considerava, a differenza di Gesù, davvero pericoloso; tanto più perché evidentemente la folla, cioè la parte di popolazione insofferente dell’occupante, voleva salvarlo. Dunque Pilato avrebbe cercato di sviare l’attenzione da Barabba, spingendo la folla ad identificarsi piuttosto con Gesù, con colui che si proclamava il re dei Giudei, un ruolo decisamente eversivo; insomma un calcolo da esperto manipolatore che contrasta con l’immagine matteana.
È solo un’ipotesi, ma che ha il merito di rendere realistica la situazione. Pilato era un politico cinico e sbrigativo. Aveva da poco messo in croce una quantità di ribelli galilei e non si sarebbe fatto scrupolo di crocifiggerne un altro, colpevole o innocente che fosse. Al più si può immaginare che in veste di giudice non gradisse di essere scavalcato dal Sinedrio e abbia voluto farne una questione personale. Forse è tutto qui, e non c’è di che sorprendersi se si ha una qualche cognizione di come funziona la logica del potere. Perché se c’è qualcosa che emerge in tutta chiarezza dai quattro racconti della Passione, aldilà degli intenti specifici degli evangelisti, è proprio la messa in scena del potere di vita e di morte esercitato da potenti in balia delle passioni. In questione non è la colpevolezza di Gesù, ma ciò che il suo caso mette in questione: la volontà omicida dei sacerdoti a difesa del loro ruolo politico-religioso e, d’altra parte, il tentativo del prefetto romano di sottrarsi alle beghe religiose di una popolazione irrequieta e litigiosa. È in questo meccanismo implacabile che l’accusato finisce stritolato moralmente e fisicamente. È così ogni volta che si fa violenza alla giustizia.
Non meno rilevante è in questo dramma la figura di Giuda. Nella versione di Marco, che è la più antica, si narra solo del suo accordo con le autorità giudaiche per consegnare loro Gesù (a loro non ai romani) e della sua comparsa nel Getsemani a capo della squadra di armati inviati ad arrestarlo. Sempre secondo Marco, Giuda non è nominato nell’episodio centrale dell’ultima cena, durante la quale Gesù non denuncia direttamente lui, bensì «uno dei dodici», i quali reagiscono parimenti con cattiva coscienza, a cominciare da Pietro che ostenta una fedeltà non richiesta. Diversamente da Luca e da Giovanni, in Marco la cena non rappresenta il momento del congedo in cui si salda l’unione tra Gesù e i discepoli, ma segna il culmine dell’incomprensione circa la vocazione e il destino di Gesù, che si risolve in conflittualità interna: «Uno di voi mi consegnerà»; di fatto lo abbandoneranno tutti.
Si direbbe che qui l’evangelista non miri tanto a mettere a nudo la debolezza umana, ma piuttosto i sentimenti latenti di delusione e frustrazione per il volgere delle cose, che in Giuda erano già maturati fino a cristallizzarsi in quel complesso mortale di invidia-gelosia-zelo che aveva mosso per altra via i membri del Sinedrio: Gesù non era il Messia che egli si aspettava, non era in grado di cambiare davvero le cose, il regno di Dio non sarebbe venuto e loro, i discepoli, non avrebbero avuto in esso il ruolo che si aspettavano, come è chiaramente attestato dalla richiesta dei figli di Zebedeo (Marco 10, 35-37). A quel punto Gesù diventava ai suoi occhi pericoloso per se stesso e per loro, bisognava impedirgli di continuare su una china senza via d’uscita. Non c’entra dunque il denaro, un motivo matteano che in Marco resta una promessa senza seguito dei capi dei sacerdoti. Giuda avrebbe fatto dunque arrestare Gesù dal Sinedrio non immaginando che lo avrebbero consegnato all’autorità romana, cosa che lo trasformava da delatore a fin di bene in effettivo traditore. Dal Sinedrio ci si poteva in effetti aspettare che si sarebbe limitato a mettere fuori gioco quel falso messia umiliandolo pubblicamente e disperdendo i seguaci; ma che si appellasse all’autorità politica dell’occupante, attestandone così la superiorità, pur di ottenerne la crocefissione non era nell’ordine delle cose. È qui in effetti che il dramma raggiunge un vertice tragico. Le ambigue intenzioni di Giuda e Pilato sono travolte dalla volontà politica del Sinedrio convinto di operare per la salvaguardia della «nazione», come afferma Caifa nel Vangelo di Giovanni (11, 49). Si può così capire la disperazione di Giuda di cui è rimasta traccia nel racconto matteano del suicidio e, d’altra parte, il fastidio o l’imbarazzo di Pilato: ma questi cosa vogliono? perché non se la sbrigano da soli con le loro faccende religiose: il Messia, il re dei Giudei, figurarsi!
Quanto alla parte che Gesù ha in questo conflitto di passioni, va rilevato il suo diverso atteggiamento rispetto ai racconti della vita pubblica, atteggiamento che nel caso di Marco muta drasticamente dopo l’arresto. L’uomo che si era presentato come l’annunciatore di un rivolgimento che avrebbe instaurato il regno di Dio in terra, che si era confrontato duramente con i Farisei in Galilea e con la classe sacerdotale a Gerusalemme, appare infine in balìa di chi ne vuole la morte. Comportamento che si rovescia solo in Giovanni, dove egli resta il dominus della situazione fin sulla croce.
Nei Sinottici, anche tenuto conto dei cambiamenti operati da Matteo e Luca, la storia della passione andrebbe letta come il rovescio dei racconti degli atti e della predicazione di Gesù lungo le strade di Galilea. Cioè come la negazione dell’annuncio del Regno dei cieli da parte dei poteri di questo mondo (religioso e politico), di cui il Messia si trova infine in balìa. Cosicché le due parti del dramma stanno insieme per contrasto. Di qui l’ombra che avvolge tutta la vicenda, l’incombere della croce anche nel tempo dell’annuncio del Regno, delle guarigioni, della festa. A proiettare ombre sono in particolare quelle predizioni di morte e risurrezione attribuite a Gesù stesso, che sono sì post eventum, ma non fuori luogo.
Noi fatichiamo a riconoscere l’inconciliabilità di questo contrasto perché leggiamo il racconto alla luce della risurrezione, e più sulla scia di Giovanni che dei Sinottici. Di conseguenza lasciamo sullo sfondo i racconti della vita pubblica, o meglio prestiamo attenzione ai singoli episodi non al loro significato complessivo; vale a dire che guarendo, istruendo, perdonando, ecc., Gesù rendeva visibile e sensibile il Regno di Dio, lo prefigurava come già in atto esclusivamente in forza della sua fede escatologica.
Marco avrebbe potuto limitarsi a scrivere la storia della passione, perché comunque la si presenti in quella storia c’è il nucleo della fede cristiana. Va infatti da sé che l’avvenimento sconvolgente della condanna a morte di Gesù sia stato per i seguaci il punto di partenza per ripensare tutta la vicenda in cui erano stati coinvolti. Avrebbe potuto svolgere narrativamente la sequenza attestata da Paolo: ultima cena, condanna, morte, sepoltura, risurrezione, apparizioni. Ha invece voluto raccogliere anche le tradizioni relative alla vita pubblica, dando così alla passione un significato pubblico oltre che individuale. Quella morte, messa in rapporto a ciò che ne è seguito (resurrezione, apparizioni, ascensione), ha assunto significato salvifico per i credenti, ma in rapporto a ciò che la ha preceduta e motivata sta a significare l’inconciliabilità della predicazione di Gesù con la realtà di questo mondo sottoposto al potere del male. Un significato che attesta i tratti essenziali della fede escatologica di Gesù, che i discepoli diretti hanno trasmesso e che gli evangelisti hanno attestato, ciascuno a suo modo.
Penso che bisognerebbe imparare a leggere i Vangeli tenendone presente ad un tempo il significato individuale e il significato pubblico, che in definitiva si riconduce alla distinzione, da sempre occultata, tra la fede salvifica in Gesù e la fede escatologica di Gesù. Di fatto una distinzione insostenibile per la cristologia così come è stata elaborata già a partire da Paolo e dal Vangelo di Giovanni. Non per caso Paolo ha ignorato la vita pubblica di Gesù e il Quarto Vangelo la ha interamente teologizzata alla luce dell’incarnazione, per cui dall’inizio alla fine Gesù è, si presenta ed opera come il Figlio di Dio incarnato. Entrambi hanno dato un contributo decisivo alla costruzione di una mirabile concezione religiosa in contrasto o in opposizione rispetto a quella ebraica entro la quale Gesù si è espresso rivolgendosi ai suoi correligionari. Non era perciò affatto scontato che a distanza di oltre quarant’anni e dopo la predicazione di Paolo, si sentisse il bisogno di recuperare qualcosa della memoria storica di Gesù, come è avvenuto grazie alla composizione del Vangelo di Marco. Ma di quella memoria, arricchita da Matteo e Luca con materiali relativi alla predicazione, si è secolarmente fatto un uso astorico, cioè a prescindere dall’intento che aveva mosso il predicatore Galileo.
In conclusione. Mi rendo conto che queste osservazioni critiche risulteranno forse interessanti per qualcuno, ma sono in definitiva superflue commisurate all’attuale assetto del vivere cristiano: in concreto che cosa ce ne possiamo fare? Poco, a meno che non conducano a rendersi conto che solo una parte, seppure grande e preziosa, dell’enorme potenziale rappresentato dalla vicenda di Gesù ha fin qui preso forma e ha avuto esiti storici, avvolgendosi altresì in una quantità di distorsioni, di cadute, di pervertimenti fino all’esito critico attuale. Una storia bimillenaria che volge al termine. Ma quel potenziale è tutt’altro che esaurito, piuttosto va pensato di nuovo. È un’operazione difficile, ma possibile a condizione che si abbia una coscienza altrettanto forte del proprio tempo, e dunque dell’inconciliabilità dello spirito cristiano con lo spirito che governa gli apparati di questa società globale. Simone Weil pensava che a determinare la diffusione straordinariamente rapida del cristianesimo nel mondo antico fossero state le condizioni di vita sociali, morali e spirituali imposte dall’Impero romano all’ampia parte di mondo assoggettato. Condizioni appena confrontabili con quelle ben più gravi e decisive a cui noi siamo assoggettati in questa società grazie agli attuali mezzi di controllo e condizionamento esercitati su dimensione planetaria.