
Occorre leggerla abbandonandosi a una scrittura altra, automatica, dettata da una perenne convulsione alla ricerca degli essenziali Princìpi ontologici: ritma un moto mentale schizofrenico, mai conclusivo, registrato appena scaturisce da un tormentato corpo- anima («tutto corpo quest’anima, tutta anima questo corpo. / Tutto nulla questo tutto»). Le frasi brevi che ne escono hanno il mistero di una sentenza o smentiscono abusate convinzioni. Già il titolo di questa singolare antologia edita da Neri Pozza, Questo corpo è un uomo. Quaderni 1945-1948, risuona enigmatico. Ne è involontario autore Antonin Artaud (Marseille 1896-Ivry 1948), personalità di punta del surrealismo sorto in Francia nel terzo decennio del Novecento, e tutt’altro che uniforme nella poetica e nei propositi.
Artaud nel celebre attacco di uno scritto del 1926 dedicato al Teatro Alfred Jarry lancia un ribelle grido di guerra: «Il teatro partecipa del discredito in cui, una dopo l’altra, cadono tutte le forme d’arte». I capolavori del passato sono un repertorio da accantonare. Ora si tratta di coinvolgere il pubblico in attivanti operazioni di smascheramento. Non si dovrà rappresentare una vicenda che sia una sorta di doppio delle consuetudini contemporanee, evasiva e consolatoria. Dalla scena del suo cosiddetto “teatro della crudeltà” dovranno essere scoccati acuminati strali che colpiscano a morte l’artificioso immaginario borghese della tradizione. È con una voglia di sovvertimento esteso a tutte le espressioni estetiche che Artaud, drammaturgo, scrittore, regista, poeta, attore nemico di ogni regola, muove i primi passi. È continuamente oppresso da un’assillante nevrosi, combattuta con l’uso di allucinanti droghe e intervallata da plateali rotture anarchiche, alfine con gli stessi surrealisti, dal momento che ogni “ismo” – classicismo, romanticismo, simbolismo – esigeva un disciplinato ordine e non riusciva quindi a sommuovere la vita, a farsi azione, a non limitarsi alla parola. Più che «ridurre l’ignoto al noto, ovvero al quotidiano e all’ordinario» era fondamentale incamminarsi in direzione opposta e liberarsi dalle pastoie di precetti cristiani e norme statuali. “Maudit” per eccellenza, il rivoluzionario finì i suoi giorni ricoverato dapprima nell’ospedale psichiatrico di Rodez (1943-1946) e successivamente a Ivry, nella casa di cura del dottor Delmas (1946-1948), bombardato da elettroshock e inefficaci medicamenti. In questi periodi compilò 404 arruffati quadernetti che ebbero grosse traversie editoriali. Solo nel 2011 uscirono completi da Gallimard in edizione diplomatica grazie al magistrale lavoro di Évelyne Grossman, prefatrice di questa scelta italiana tradotta e curata da Lucia Amara. La lingua di Artaud si distanzia da quella corrente: «Sento voci – confessa – che non sono più del mondo delle idee. Perché dove sono io adesso non c’è più niente da pensare». Il florilegio è composto dal raggruppamento in quattro sezioni, più un’appendice, di venti integrali “Cahiers”, trascritti per quanto possibile con ammirevole scrupolo, lasciando vuoti e suggerendo dubbi. Glossolalie e blasfemia si sprecano. Frasi mozze, interiezioni sospese, fogli bianchi, spunti diaristici si accavallano in un furioso diagramma di progetti abbozzati e aspre invettive. Ogni sezione ha per titolo una categoria, «Corpo», «Dio», «Nome», «Soffio», «Teatro», intonata alla nota dominante. Sarà sufficiente qualche breve citazione per estrarre la perentorietà di impressioni e temi tenendo conto che sarebbe scorretto congiungere monconi verbali per costruire una sintassi ripudiata. «Io affermo prima di tutto il corpo, / non è una densità, ma una forma in movimento». È stato detto che Artaud è un “mistico materialista”, che muta lo spirito in corpo: ma sente di esserne derubato e va in cerca di un’anima, di una animazione che gli consenta di confrontarsi con l’ineffabile. Jacques Derrida in La parole soufflée (1965) esclude che il testo di Artaud ammetta una qualche forma di commento alla maniera delle dotte chiose riservate ai saperi occidentali. Del resto gli innesti di frammenti o concetti tratti da culture orientali sono assai numerosi e hanno l’impeto di un soffio sconvolgente. «Nel mondo della sensibilità vi sono timbri, volumi di voce, masse di soffio e di toni/ che forzano la vita a uscire dai suoi riferimenti, / a lasciare liberi sull’altezza dell’anatomia umana gli organi, e le forze che essa si compiaceva di imprigionare» scrive Artaud. Un’ansia di liberazione e libertà turbina attorno alla prigionia del corpo.
Un capzioso teologo forse noterebbe l’incrocio oppositivo eppur sintomatico tra la scandalosa opera illuministica L’Homme machine di J.O. de La Mettrie e il giovanneo evangelico: «E così la Parola si fece carne, e dimorò tra noi». Il corpo senza organi su cui Artaud insisté aspetta muto il soffio, il vento che doni respiro e vita. Estenuato e estraneo al movimento che riteneva suo Artaud fugge dall’Europa e approda a Città del Messico, dove riscontra allarmanti similitudini con la crisi da cui credeva di esser fuggito. Si mischia allora con le tribù dei Tarahumara nell’illusione di rivenire in quelle esotiche comunità la formula della salvezza. Di ritorno, è folgorato da una mostra parigina di Van Gogh: «Nient’altro che pittore sì Van Gogh – ne incide un giudizio venato da fraterna pietas – e niente più, niente filosofia, niente magia, niente mistica, niente dramma letteratura o poesia». E in Van Gogh le suicidé de la societé (1947; ediz. it. Adelphi, 1988) ne descrive, rispecchiandovisi, la faccia male illuminata che lo perseguiterà «come quella di un antico beccaio rinsavito ormai e ritirato dagli affari».
[uscito su «L’Espresso», 10 gennaio 2025]