La funzione Fortini
Risposte al questionario II
Adelelmo Ruggieri

1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?

Nel mio 2° libro (Vieni presto domani, peQuod, 2006) ci sono due iscrizioni. La prima è da Pavese. L’altra da Fortini (Foglio di via):

E tu pregali i sette muratori,
Pregali, pregali, i sette maestri

Poi la poesia prosegue. I muratori, «che devono murare» vanno pregati perché ti lascino «sette spiragli» dai quali «arrivino a te / La luce e il pane».

Incontrare «i muratori» nella poesia di Fortini per me fu molto importante. Conosco bene, per il lavoro che faccio, la loro saggezza, i loro silenzi, le brevi pause di mezzogiorno, in piena luce, quando si sta raccolti a mangiare un panino, a bere una birra, e ogni parola è di più, non serve. La loro dignità è assoluta in quelle pause di mezzogiorno. E le parole che vengono dette sono spesso scherzose, spesso pesanti, martellate. Sì, poi c’è tutto quanto non va. Come potrebbe essere diversamente? Tirare su un edificio è difficilissimo, è faticosissimo. Ma loro stanno lì, pazienti. E lasceranno quegli spiragli che Fortini chiede loro; li lasceranno in forma di finestre e di porte, e in forma di poesia, di luce e di pane.

2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?

Nel 3° (Porta marina, peQuod, 2007, a quattro mani con Massimo Gezzi) ho riportato uno stralcio di un brano di Fortini su Franco Matacotta (anche lui nato a Fermo) per davvero centrale nella mia formazione. Allego parte del testo testo con in grassetto la citazione da Fortini:

Torno indietro. Risalgo con il fiatone del fumatore la ripida scala. Devo vedere il penultimo libro di Matacotta. È La peste di Milano e altri poemetti. Venne pubblicato nel 1975 dalle edizioni L’Astrogallo di Ancona, via Santo Stefano 43. Lo introdusse Franco Fortini. A quell’ultimo lavoro dedica sette pagine fitte e appassionate passandone in rassegna l’opera intera fino a quell’ultima prova. Quelle pagine iniziano a questa maniera: «La sorte di un poeta che conosce la notorietà da giovane e la dimenticanza del mondo in età matura; che da giovane coglie lo spirito del tempo e quando, non più giovane e percosso dalla sorte, vuole invece ben altro raggiungere, scopre con sofferenza e rabbia una via troppo lunga ormai per poter essere ancora percorsa; e che di questo fa, finalmente, i suoi versi; questa non è, ecco, anche se può sembrarlo, una sorte eccezionale. Essa assomiglia invece alla confidenza che tanti giovani – non perché giovani ma per le circostanze che li investivano – ebbero nella lotta, in senso largo politica e di trasformazione dei rapporti tra gli uomini, una trentina d’anni fa (e di nuovo dieci o cinque anni fa). Avrebbero poi scoperto, non tanto che la speranza aveva loro mentito quanto che le forze, intellettuali non morali e sociali non individuali, erano impari alla grandezza, complicazione e mutevolezza del campo delle operazioni.

In questo senso, quando ebbi a leggere la parte più certa dell’opera di Matacotta, gli Inni, qui pubblicati e scritti fra il 1961 e il 1965, avvertii che cosa era accaduto nel ventennio trascorso fra le strofe scatenate e colorate di Fisarmonica rossa (né ho dimenticato, nel memorabile numero di “Mercurio”, stampato a Roma nell’ottobre 1944 e letto con tanta ansia nel Nord, la sua traduzione, esaltante, di Gli Sciti di Alekxànder Block) e questa sua ricerca interrogativa. Era, niente di meno, passata la vita; tutto era diventato più chiaro e feroce».

3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?

Una delle poesie che giudico per me decisiva è Parabola da Poesia e errore, quando Fortini ci dice cosa «è stato» nei suoi giorni; e allora ci dice che «a una sorte» può (e non sente) «assomigliarsi», e quella «sorte» l’ha «veduta nei campi»; è la sorte dell’uva che «ai ricchi giorni di vendemmia […] fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero»; e poi «nella vigna», «smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti».

È una poesia che t’inchioda letteralmente a ciò che sei, all’umiltà, al tuo sforzo per starci, alla dignità del tuo essere, e lo fa come scrive Francesco Leonetti (Franco Fortini, Poesie scelte, a cura di Pier Vincendo Mengaldo; Mondadori, 1974, p. 27) attraverso quella «sillabazione lenta, attenta e continuamente protratta».

In breve io credo che l’opera di Franco Fortini – la sua poesia, il suo alto insegnamento – costituisca ancora un riferimento necessario di etica e di stile.