Nel mio 2° libro (Vieni presto domani, peQuod, 2006) ci sono due iscrizioni. La prima è da Pavese. L’altra da Fortini (Foglio di via):
Pregali, pregali, i sette maestri
Incontrare «i muratori» nella poesia di Fortini per me fu molto importante. Conosco bene, per il lavoro che faccio, la loro saggezza, i loro silenzi, le brevi pause di mezzogiorno, in piena luce, quando si sta raccolti a mangiare un panino, a bere una birra, e ogni parola è di più, non serve. La loro dignità è assoluta in quelle pause di mezzogiorno. E le parole che vengono dette sono spesso scherzose, spesso pesanti, martellate. Sì, poi c’è tutto quanto non va. Come potrebbe essere diversamente? Tirare su un edificio è difficilissimo, è faticosissimo. Ma loro stanno lì, pazienti. E lasceranno quegli spiragli che Fortini chiede loro; li lasceranno in forma di finestre e di porte, e in forma di poesia, di luce e di pane.
2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
Nel 3° (Porta marina, peQuod, 2007, a quattro mani con Massimo Gezzi) ho riportato uno stralcio di un brano di Fortini su Franco Matacotta (anche lui nato a Fermo) per davvero centrale nella mia formazione. Allego parte del testo testo con in grassetto la citazione da Fortini:
In questo senso, quando ebbi a leggere la parte più certa dell’opera di Matacotta, gli Inni, qui pubblicati e scritti fra il 1961 e il 1965, avvertii che cosa era accaduto nel ventennio trascorso fra le strofe scatenate e colorate di Fisarmonica rossa (né ho dimenticato, nel memorabile numero di “Mercurio”, stampato a Roma nell’ottobre 1944 e letto con tanta ansia nel Nord, la sua traduzione, esaltante, di Gli Sciti di Alekxànder Block) e questa sua ricerca interrogativa. Era, niente di meno, passata la vita; tutto era diventato più chiaro e feroce».
Una delle poesie che giudico per me decisiva è Parabola da Poesia e errore, quando Fortini ci dice cosa «è stato» nei suoi giorni; e allora ci dice che «a una sorte» può (e non sente) «assomigliarsi», e quella «sorte» l’ha «veduta nei campi»; è la sorte dell’uva che «ai ricchi giorni di vendemmia […] fu trovata immatura / ed i vendemmiatori non la colsero»; e poi «nella vigna», «smagrita dalle pene dell’inverno / non giunta alla dolcezza / non compiuta la macerano i venti».
È una poesia che t’inchioda letteralmente a ciò che sei, all’umiltà, al tuo sforzo per starci, alla dignità del tuo essere, e lo fa come scrive Francesco Leonetti (Franco Fortini, Poesie scelte, a cura di Pier Vincendo Mengaldo; Mondadori, 1974, p. 27) attraverso quella «sillabazione lenta, attenta e continuamente protratta».
In breve io credo che l’opera di Franco Fortini – la sua poesia, il suo alto insegnamento – costituisca ancora un riferimento necessario di etica e di stile.