La funzione Fortini
Risposte al questionario II
Erminia Passannanti

1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?

Come poetessa nasco nel passato: un passato fatto di poesie apprese e interiorizzate, prima come cadenza e ritmo, che come contenuto – contenuto lirico spesso dato didatticamente per scontato, come nel caso di Leopardi, Carducci e Pascoli.

Così, per tutte le scuole elementari – fase importantissima, ritengo oggi come allora, per la formazione del futuro poeta (se rispetto a questa universale vocazione accogliamo le teorie di Vico e Wordsworth), “Leopardi-Carducci-Pascoli”, divinità una e trina, erano la poesia italiana. Ti accorgevi solo al liceo che non erano un’unica “persona”, e che il campione nazionale di “poeta” era infatti costituito dal binomio Cavalcanti-Dante.

Al tempo della mia infanzia, le poesie si apprendevano a scuola, con il grembiulino addosso, conformati ed uniformati al “nuovo” ideale di alunno voluto dalla repubblica – figlio/a di orfani/orfane di guerra, reduci e combattenti, sposatisi in ritardo in pieno boom economico con l’ossessione della ricostruzione. E da nuovo alunno vivevi la tua bella infanzia tra i muri di una scuola che si diceva riformata, ma i cui schemi erano fondamentalmente desunti da quelli dell’epoca fascista in cui tiranneggiava un vero ed unico modello: quello del concordato tra Stato e Chiesa dei Patti Lateranensi.

Nasco dunque come poetessa fuori da un’epoca in cui le poesie si imparavano a memoria, porte da maestri moralmente irreprensibili (ovvero umili padri e madri di famiglia, cresciuti in pieno fascismo, divenuti educatori e “social workers”), e si ripetevano a casa, aiutati dai propri genitori – che nel mio caso erano appunto entrambi insegnanti, i quali in realtà non aderivano affatto a questo falso modello di scuola riformista, essendo entrambi convinti roussoniani, volti al futuro.

Ed è così che sono cresciuta al desiderio e alla consapevolezza della scrittura lirica come fuga verso una realtà più libera sentendomi lacerata tra il frequentare una scuola conservatrice e reazionaria, (che impiegava e retribuiva i miei genitori) e una famiglia anticlericale e progressista, all’interno della quale ero l’autorizzata “anarchica”.

La storia che ha influenzato la mia (diciamo) “vocazione” allo scrivere versi, non parte tanto dal presente degli anni Sessanta, in cui nascevo, ma dal passato: sia della guerra e del fascismo patito dai miei già vecchi genitori – l’una orfana e l’altro ufficiale tenuto prigioniero in un campo di concentramento per due anni dai nazisti – sia della tradizione letteraria dell’Ottocento che si insegnava prevalentemente a scuola, fino alle medie. Le rose dell’abisso, insieme a paesaggio con serpente, di Fortini, mi hanno fatto comprendere quanto abbia profondamente agito su di me, sul mio stile, sulle mie scelte di scrittura, questa tradizione.

Ma la vocazione poetica (che si genera dalla visione del mondo) non è la stessa cosa che la pratica dello scrivere versi: la prima può rimanere inespressa, o sottoespressa, date le condizioni della seconda. La mia vocazione è stata sostenuta dalla prassi della traduzione letteraria e dagli studi universitari di letterature straniere.

La mia prima traduzione poetica è stata quella delle poesie delle sorelle Brontë – Emily Charlotte e Anne – pubblicate da un editore minore ma di buona reputazione – Ripostes. Le condizioni economiche di me come scrittrice e persona in cui queste prime esperienze si collocavano non erano precarie, essendo studentessa con una famiglia benestante alle spalle, ma non erano nemmeno chiaramente propizie, dato che, dopo la laurea, sono rimasta a lungo sottoimpiegata come insegnante, come prevedevo (temevo) accadesse.

La traduzione delle Brontë mi procurò una borsa di studi, assegnatami dall’Istituto di Studi Filosofici dietro indicazione di Franco Fortini, che scelse personalmente la mia candidatura di borsista per il suo corso seminario La traduzione poetica, e mi scelse – seppi in seguito – proprio in ragione della qualità formale di quella mia prima traduzione. Così, per me vale e varrà sempre l’idea di Fortini della traduzione poetica come esercitazione creativa, ma anche marziale, alla ricerca di una propria “voce”.

Quanto al contesto storico, la mia prima raccolta – Macchina – era pronta nel 1993, vinse un premio Nazionale nel 1995 (Premio Laura Nobile, di Siena) ma è potuta venire alla luce nella collana curata da Romano Luperini per Manni, «La scrittura e la storia» solo nel 2000, perché mi mancavano i fondi richiesti dall’editore per autofinanziare quella prima pubblicazione. Aggiungo che malauguratamente, sebbene il premio Laura Nobile consistesse proprio nella pubblicazione dell’opera, questa non fu mai finanziata dall’ente promotore.

Una raccolta successiva l’ho intitolata La realtà (2004) ed era un tributo in primis a Questo Muro, di Fortini, e dunque ai miei ideali marxisti per i quali, date le circostanze di vita, non ho potuto mai concretamente battermi. La “realtà” di questa raccolta è dialettica, in bilico tra procedimenti allegorici e simbolici che parlano della nostra storia contemporanea, ma in modo radicalmente trasversale, dunque, essenzialmente, dalla prospettiva dell’artista e dell’intellettuale non integrato, dissidente, quale Fortini mi ha indicato d’essere.

2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?

Quando mi sono resa conto che la metascrittura iniziava a diventare tra gli scrittori una vera moda, un vezzo, ovvero, una facile scappatoia (non solo una necessità dell’artista nel suo rapportarsi al linguaggio e ai suoi segni) ho cercato di evitare di indulgere in metascritture. Il re-writing e l’intertestualità sono strumenti indispensabili sia al poeta sia al traduttore di poesia, ma bisogna agire un forte controllo sugli allettamenti di queste componenti autoreferenziali, per non farsi prendere in meccanismi consolatori e narcisistici. Nulla può dire di nuovo, può cambiare, la poesia, ammoniva Fortini. Nessun poeta, nessun testo può vantare un’assoluta originalità. Ma bisogna lottare per continuare a scrivere con la consapevolezza di questa difficoltà. L’autoreferenzialità programmatica, come discorso che un’arte fa su se stessa, comunque la preferisco al cinema, sebbene anche quella stia ormai scadendo in maniera tanto da non suscitare più nessuna sorpresa anche nei migliori registi.

3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?

Io credo che al numero tre del questionario abbia risposto con la mia mini-monografia su Poesia delle Rose, dove Fortini affronta il complesso imponente di tutte queste questioni, usando appunto le armi del “camouflage” letterario, che sotto sotto esamina appunto questo lento, profondo, maestoso processo di formalizzazione della poesia. Preferisco citare direttamente dal Fortini di Verifica dei Poteri:

[La poesia] assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento reale, interumano, della propria immagine formale e a un tempo luogo di consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una droga o di un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (p. 254)

4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha» (Fortini, Prefazione al Faust). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?

Sono stata e rimango una traduttrice di poesia in lingua inglese in Italiano: ho tradotto, come dicevo, le Brontë, Sylvia Plath, Geoffrey Hill, Seamus Heaney, e curato una antologia di poeti britannici, Gli uomini sono una beffa degli angeli. Dopo essere stata borsista di Fortini, ho collaborato con lo scrittore tedesco Sebald per tre anni, d’estate, al suo progetto «British Centre of Literary Translation».

Ho collaborato con l’Arts Council del Galles e tradotto poeti gallesi importantissimi, come RS Thomas. Ho fatto della traduzione poetica, come arte, genere, linguaggio, l’argomento della mia tesi di dottorato all’university College di Londra sull’opera di Franco Fortini. Non smetto di analizzare e riconsiderare i contenuti del testo di Fortini che curai in quella sede, Realtà e paradosso della traduzione poetica (1989) – opera inedita in cui Fortini esprimeva le sue idee originali su questa disciplina con cui così intensamente ed intimamente accostava, nella pratica e nella formulazione teorica, la traduzione di testi altrui alla scrittura lirica di primo grado, la sua.

La traduzione poetica è senza dubbio la disciplina cardine che per Fortini fu veicolo di un rapporto unico, autentico e vibrante tra tradizione e presente. Non smetto di essere influenzata dal Fortini poeta, dal Fortini saggista e dal Fortini traduttore, come scrittore in cui questi tre linguaggi raggiungono una perfetta sinergia, e così facendo, mi sento e sono sua convinta discepola. Personalmente tendo a tradurre non solo i poeti che mi insegnano a scrivere ma la cui Weltanschauung mi sembra di potere condividere. Tuttavia, nei casi più pericolosi, come in quello dato dalla prossimità alla Plath, seguendo i consigli di Fortini in Realtà e paradosso della traduzione poetica, cerco di rimanere vigile e di operare una resistenza contro la mera gratificazione della forma. Ho provato a tradurre i versi di Amelia Rosselli dall’inglese, ma a quello stadio, era lei stessa ancora immersa in un work-in-process. Non amo tradurre Juvenilia.

Citerei un significativo e noto brano dalla conversazione tra Fortini and Franco Loi, in Franchi dialoghi:

Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. (pp. 29-30)

5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?

Vedo sopravvivere la funzione-Fortini in poeti noti e meno noti, come Biagio Cepollaro o Enrico Cerquiglini, molto impegnati e sensibili alla crisi del presente, con l’incombente minaccia dell’analfabetismo culturale e storico che investe ampie fasce della popolazione fatta retrocedere ad un centinaio di anni fa per le bieche manovre populiste delle gerarchie al potere. Questa funzione-Fortini come poesia della vera dissidenza, senza bandiera, patriottismi degeneri e dirigenti, ho cercato di farla rivivere in me curando due edizioni dell’antologia Poesia del Dissenso. Fortini, si sa, nelle sue provocazioni, verbali e scritte, porte in forma poetica o discorsiva, saggistica, tendeva a forme di radicalismo che non di rado scatenavano conflitti ideologici, animosità ed inimicizie con i suoi interlocutori, come accadde nella nota polemica con Pier Paolo Pasolini. Spesso ferito dagli esiti i tali scontri, chiedeva ai suoi versi di rendere giustizia al loro fine ultimo, che era quello di conferire senso alle contraddizioni, stabilire un dialogo: «A loro chiedo aiuto perché siano visibili / contraddizioni e identità fra noi / Se un senso esiste, è questo» (Franco Fortini, L’ospite ingrato, 1966). Si trovò a dovere giustificare pubblicamente le intenzioni celate dietro questo suo atteggiamento provocatorio e polemico, che era sostanzialmente la funzione politica a cui allude Mengaldo, di cui per altro Fortini non riteneva di dover chiedere venia:

M’auguro naturalmente che alcune di quelle pagine possano essere intese anche per quel che dicono, lì, punto e basta. Ma più convinto sarei se tra i versi, gli pseudo versi e le prose, chi legge non avvertisse la coerenza di una persona, che non conta niente, ma almeno in traccia riconoscesse le contraddizioni d’una età e che per lui contassero. (Franco Fortini, L’ospite ingrato, 1966)

Fortini, vale ricordarlo, da vero comunista quale mai era stato riconosciuto d’essere, intendeva che la nazione vivesse il presente in nome di una volontà riformatrice e progressista che non indietreggiasse dinanzi alle antinomie della ragione, e che, anzi, sapesse esporne le fratture e farsene carico. E dunque mostrava continuamente di avere profonda coscienza di questo tempo scisso, il quale, per diffuso disorientamento e disordine epocale, necessitava presupposti e procedimenti rigorosi, formalmente controllati. Per questa ragione, il tema della contraddizione emerge ed è, in ogni tipo di scrittura di Fortini, motivo intrinsecamente politico: non l’esito di una rinuncia all’impegno, ma la protesta di un intellettuale incessantemente focalizzato sulla storia e sulla realtà e su come riformarla.