La «città nemica»
e la Dite infernale
Commento a una poesia di Foglio di via
Maurizio d’Adamo
Le letture di questi anni sono molte, ma il poeta fiorentino riconosce come maestri, in primo luogo, Shakespeare e Dante. Luca Lenzini in Un’antica promessa evidenzia alcuni legami con la Commedia comuni a tutta la prima raccolta: il tema del sogno e del sonno nella lirica di apertura, l’ambientazione in continua oscillazione tra concretezza e allegoria.1
Nella poesia La città nemica, composta nel ’39, le riprese dantesche si fanno più frequenti come segnala Lenzini: la poesia si divide in terzine, benché irregolari, compare uno scenario infernale e viene richiamato il tema del ricordo e dell’esilio.
Quando ripeto le strade
Che mi videro confidente,
Strade e mura della città nemica;
E il sole si distrugge
Lungo le torri della città nemica
Verso la notte d’ansia;
Quando nei volti vili della città nemica
Leggo la morte seconda,
E tutto, anche ricordare, è invano;
E «Tu chi sei?», mi dicono, «Tutto è inutile sempre»,
Tutte le pietre della città nemica,
Le pietre e il popolo della città nemica,
Fossi allora così dentro l’arca di sasso
D’una tua chiesa, in silenzio,
E non soffrire questa luce dura
Dove cammino con un pugnale nel cuore.2
Nel 1946 Fortini si esprime in questi termini sull’eredità che i classici hanno tramandato ai contemporanei e, in particolare, sul lascito di Dante:
Il titolo del componimento, che fa notare Lenzini pare riferirsi a una città ben definita, potrebbe evocare la città nemica per eccellenza: la città di Lucifero, la Dite infernale. I richiami testuali ai canti IX e X dell’Inferno sono numerosi: le «mura» e le «torri» della descrizione fortiniana sono le medesime della «città dolente» di Dante («dentr’a quel muro» e «l’alta torre». Inf. IX, vv. 26 e 36).
L’incipit della Città nemica riprende l’apertura di Inf. X; Dante scrive: «Or sen va per un secreto calle / tra il muro de la terra e li martiri», Fortini invece: «Quando ripeto le strade / che mi videro confidente, / strade e mura della città nemica». Oltre al lessico («calle» e «muro» in Dante, «strade e mura» in Fortini) si nota una ripresa tematica riguardante un viaggio che per entrambi è personale e allegorico. Sia Dante che Fortini divengono testimoni di errori e ripensamenti, propri e collettivi; la visione della città, «dolente» e «nemica», rappresenta in questa prospettiva un’espiazione necessaria per concludere una fase e aprirne un’altra: la via del Paradiso per il primo e una nuova stagione per il secondo.
Nell’anno di stesura di questa poesia il ventiduenne poeta fiorentino subisce una doppia mutazione: non solo, grazie alla conoscenza di Noventa, vengono meno in lui «le illusioni di progresso» e si consuma la sua «iniziazione alla teoria politica»,5 ma sempre nel 1939 il giovanissimo scrittore si converte alla fede valdese dopo anni di «conflitti ed esitazioni».6 Entrambi i motivi sono validi per ritenere «ostile» quella città che un tempo era ritenuta «confidente». La Firenze di questi anni è la stessa che dava voce al «rozzo populismo»7 della rivista «Il Bargello» e che era rimasta impassibile di fronte a quel Manifesto in difesa della razza che aveva tanto danneggiato la famiglia Lattes: Franco viene prima espulso dai Gruppi Universitari Fascisti e poi aggredito a causa dell’ebraismo del padre e del suo presunto “antifascismo”.8
«Di quanto in quel tempo – dall’autunno del 1939 al luglio 1941 – si consumava nell’Europa Centrale non sapevo nulla. Ma era come se da quella consumazione una luce di cenere fosse scesa sulle muraglie di Firenze e sulle colline», scriverà Fortini ripensando a quegli anni.9
L’ambiente in cui il poeta si muove evoca indubbiamente un paesaggio infernale10 in cui «il sole si distrugge» e il buio è una «notte d’ansia». Nella terza strofa la città viene connotata dai volti dei suoi abitanti: i «volti vili» che popolano la città nemica ricordano il pallore di Dante sulle soglie della città di Dite («quel color che di viltà fuor mi pinse», Inf. IX, v. 1). In Dante la paura, «viltà», deriva dal male che si concentra nella città, in Fortini la paura è quella degli abitanti per le punizioni future e per i peccati commessi o fatti impunemente commettere; tale paura rende gli abitanti sfiduciati a causa della «morte seconda» che non li potrà risparmiare.
La «morte seconda»,11 quella che condannerà definitivamente nel Giorno del giudizio coloro che sono dannati, viene evocata con una perifrasi anche nel X canto dell’Inferno: «Tutti saran serrati / quando di Josafàt qui torneranno / coi corpi che là su han lasciati» (Inf. X, vv. 11-12). Se la «morte seconda» non potrà che acuire le pene che i dannati già patiscono, ben si può spigare la disillusione degli abitanti della Città nemica che agli abitanti di Dite sono paragonati; «tutto, anche ricordare, è invano» dicono e, poi, ribadiscono: «tutto è inutile sempre».
Dando per assodata una certa somiglianza tra le due città ci si potrebbe spingere anche oltre. Se Fortini auspica di trovar rifugio «dentro un’arca di sasso», i dannati danteschi, di cui riconosciamo Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, espiano le loro colpe all’interno delle medesime «arche», tanto che Farinata per parlare con Dante deve sporgersi da una di queste: «subitamente questo suono uscìo / d’una de l’arche» (Inf. X, vv. 28 e 29).
Le somiglianze tra le due città rendono legittimo il tentativo di arricchire il significato della lirica fortiniana. Nel IV cerchio (Inf. IX-X) i dannati reclusi sono gli epicurei, coloro che inseguendo i piaceri e i dispiaceri terreni non hanno creduto nell’immortalità dell’anima e per questo, dopo la morte, sono costretti a giacere in sepolcri infuocati. Se in vita non hanno saputo guardare più in là del loro presente, in morte possono solamente leggere il futuro, incapaci di comprendere i fatti contemporanei. Come in vita furono miopi, in morte, per contrappasso, divengono presbiti.
Nella poesia di Fortini gli abitanti della città, probabilmente la stessa Firenze di Farinata e di Cavalcante, si sono limitati a guardare la loro triste condizione presente, non si sono opposti, hanno disperato vilmente in ogni futuro («tutto è inutile sempre») e si sono, per questo, condannati alla dannazione eterna. Il fatto che il loro orizzonte sia ancorato pesantemente al suolo e che il loro sguardo, come quello degli epicurei danteschi, non abbia saputo alzarsi emerge nei numerosi riferimenti alle pietre («le pietre della città nemica», «le pietre e il popolo», «l’arca di sasso»). Entrambi i poeti si muovo estranei a quest’ambiente ed entrambi non vengono riconosciuti («Chi fuor li maggior tui?» chiede Farinata a Dante, «Tu chi sei?» chiede un indistinto abitante a Fortini).
La condanna di Fortini sembra derivare dall’assenza di ogni ribellione, dall’accondiscendenza alla dittatura fascista12 o dal disimpegno di intellettuali e poeti, come certi autori dell’Ermetismo nella sua giovanile Firenze. Fortini si sente sempre più estraneo a questo ambiente.
Fin dall’anno precedente, durante la frequentazione dei Gruppi universitari fascisti, sente una speciale vicinanza con alcune personalità meno allineate al Regime; sarebbe troppo precoce parlare di vere eversioni: «erano quasi tutti coloro che avevano pronunciato interventi non ortodossi. Non c’era bisogno di troppi discorsi. Si era creata un’atmosfera comune, una cospirazione silenziosa e tanto più indimenticabile […] Avevo ventuno anni e le cose mi si chiarirono una volta per tutte».13
Nella lirica Di Maiano (paragone segnalato da Lenzini),14 datata nel ’39 e quindi coeva alla prima poesia, Fortini sembra profetizzare l’arrivo di un’inevitabile catastrofe o liberazione: «il passo atteso nella veglia era d’un distruttore-liberatore».15
felici i giorni vili, il sonno morto
che ora grava la mia nemica città.
Tutta la notte si dovrà vegliare
soli e vicini in ascolto
del passo ancora lontano.16
Alla luce di questi confronti si possono comprendere gli ultimi versi posti a chiusura della poesia; versi che denunciano tutta l’insofferenza fortiniana per la miopia e la viltà dei suoi contemporanei: «e non soffrire questa luce dura // dove cammino con un pugnale nel cuore». La «luce dura» di Fortini richiama la «mala luce» di Farinata, da intendersi come la vista difettosa che non riesce a squarciare il “velo di Maya” e comprendere appieno la realtà circostante: «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose» (Inf. X, vv. 100-103). Quando la vista è in difetto, a causa della rassegnazione o dell’eccessiva miopia, la disperazione rende inutile ogni azione: «tutto è vano / nostro intelletto» (Inf. X, vv. 102-103), «tutto è inutile sempre» (La città nemica, v. 10).
Note
1 L. Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini, Macerata, Quodlibet, 2013, pp. 86-93.
2 F. Fortini, La città nemica, in Id., Foglio di via, Torino, Einaudi, 1946, p. 11.
3 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 1256.
4 Ivi, p. 1279.
5 F. Fortini, P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 38.
6 Ivi, p. 36.
7 Ibidem.
8 «Sporco ebreo antifascista!»: queste parole accompagnano l’aggressione del ’39. La vicenda accade in un clima tutt’altro che pacifico: poco tempo prima Franco aveva difeso la «Riforma» di Noventa in un interrogatorio con la Polizia politica. F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. 432.
9 Ivi, p. 433. A conferma della profonda immersione nelle vicende storico-politiche contemporanee si veda F. Fortini, P. Jachia, Fortini. Leggere e scrivere, cit., p. 37: «Tanto varrebbe raccontare e interpretare gli anni che conducono dalla vigilia della guerra all’isolamento per la campagna della ‘razza’, al servizio militare […]. Credo che di tutto questo un segno si legga nel mio primo libro di versi».
10 L’associazione tra Firenze e il paesaggio infernale è anche in Montale, nella lirica coeva Primavera hitleriana inserita nella raccolta La bufera e altro.
11 Segnala Lenzini il riferimento ad Apocalisse 21:8: «ma per i codardi, gl’increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda».
12 Lenzini scrive in proposito: «C’è nell’aggettivo “vile” una allusione al contesto storico, cioè ad una mancata resistenza al Fascismo da parte del “popolo” della Città? Può darsi, certo: la poesia è del ’39, dell’anno precedente sono le Leggi razziali». Un’antica promessa, cit., p. 89.
13 F. Fortini, Saggi ed epigrammi, cit., p. 84.
14 L. Lenzini, Un’antica promessa, cit., p. 87.
15 F. Fortini, Prefazione 1967, in Id., Foglio di via, Torino, Einaudi, 1967, p. 6.
16 F. Fortini, Di Maiano, in Id., Foglio di via [1964], cit., p. 33.