Nuova
“haine de la littérature”?
Jean-Charles Vegliante

Et tout le reste est littérature.

P. Verlaine, Art poétique (1874)

Avrei potuto intitolare, forse meglio, odio contro la Poesia; ma l’equivoco tra la “poesia” e il “poetico” è pur sempre così diffuso che mi sono risparmiato per lo meno lunghe disquisizioni sulla differenza tra mondo dei referenti (ove il volto della mia vicina di convegno mi pare davvero poetico) e mondo del linguaggio (ove dirle «Hai una faccia poetica» non è certamente né sarà mai, tale e quale, poesia; e potrebbe anche sortire risultati non graditi).

E poi, come si vedrà, di odio alquanto generico contro lo stile – un distintivo comunque della scrittura – pur sempre si tratta. Ho sentito ripetere in queste fervide giornate (12-14 giugno 2014) che, per un giovane poeta sperimentale, oggi si può scrivere poesia “anche” a proposito del (o matericamente sul) cavalcavia di cemento dietro casa. Bella scoperta: si sta parlando ancora là, credo, di poesia del paesaggio (più o meno tutto urbano ormai), quindi di elegia, o anti-elegia, in quella “struttura d’orizzonte” già teorizzata dal nostro collega Michel Collot, parecchi anni or sono. E ad ogni modo di contenuti, poetici o impoetici, cartacei, orali, graffiti. Molto più radicale il vecchio Montale, a mio parere, quando scriveva per il traduttore francese – a completare la sua ben nota Intervista immaginaria, fondamentale come tutti sanno per il rapporto fra poesia e paesaggio –, che «oggi in Italia si può scrivere in versi o pseudo-versi persino il verbale di un consiglio d’amministrazione».1 E la novità risiedeva soprattutto allora non nei contenuti, ma nella commistione dei generi, dal giuridico o pseudo-giuridico al retorico-poetico appunto. Ossia non in relazione e urto al (o contro il) “reale”, come potevano essere già “i fili di metallo” pascoliani del telegrafo (1886), bensì al discorso, impuro quanto mai (seppure innestato a forza dentro uno stile e una letterarietà), e quindi all’istituto “poesia”. Ora, a sentire certi esempi addotti qui, certo per illustrare la novità dei poeti in questione, giovani e preparati, non me la sentirei di tentare un qualsiasi discorso di tipo tradizionale sulla cosiddetta literaturnost di jakobsoniana memoria. E se essa non è certamente, né è stata mai parola evangelica, resta da proporre però una qualche diversa categoria che ci possa aiutare a superare adesso – se non altro – le secche del semplice ready-made, cut-up o collage, non di primo pelo e neanche, diremmo, di secondo. Mettiamo, se apro quasi a caso un risultato della ricerca “realismo” sul solito Google:

In base alle norme in materia art. 14B TUF e 151-sexies le persone di mer. controllate sub (1) consob di attuazione zero degli stakeholders e CdA nonché…

lingua transnazionale, allitterazione in -m- e sospensione sintattica sono senz’altro di buon interesse, come anche il fatto conturbante che semplicemente io non capisco, ma forse non oltre il tradizionale gioco patafisico, ad esempio (in Francia questa volta):

oh! vadocliffe asplane!

oh! Exclamation dont le but est de créer un suspens initial et de fligraner une angoisse qui saisit le lecteur mais ne le fait pas fuir [magari!]. vadocliffe asplane: L’asplanéité du vadocliffe a rarement été évoquée avec une telle force. Placée en début de poème [tornerò su questo termine] il s’agit là d’une véritable mise en demeure qui peut désorienter le lecteur. Certains y ont même vu une provocation, mais il s’agirait alors d’une anticipation à rebours assez difficile à concevoir à la veille d’un siècle nouveau [anzi d’un nuovo millennio]. Etc. etc.2

e, alla fine, la dichiarazione generica della natura medesima – di “poème” – del pezzo, vale a fornirci la chiave di lettura forse più importante da un punto di vista sociale e di legittimazione. Ho provato a suggerirlo, forse in maniera confusa, durante l’incontro. Volevo dire, in altri termini (quelli già usati da Fortini), che prevale innanzitutto in tal caso l’esistenza o meno di una specie di cartello che annunci “Qui poesia”; tale cartello, ce lo mettono ovviamente gli editori; e beati coloro che riescono a farsi pubblicare – quindi socialmente legittimare – quelle sbalorditive filze varie di “chiffres et lettres” (parafrasando un gioco televisivo noto) più o meno formanti quel minimo di unità, detto da qualcuno ipersegno (Tynjanov), unità e coerenza che ci permetta di dichiararle “testo”. Non entro nemmeno, qui, nel merito di un qualche “plaisir du texte”, sia pur esso disforico e bucato da impreviste tmèses narratives, beninteso, per non scomodare l’amico R. B. – dove egli sia, forse. Il problema, davanti a certe filze di caratteri illeggibili, è proprio quello della loro natura stessa (di testo). Ripesco, quasi a caso di nuovo, dal facile net:

In alcuni momenti la semplicità era perfino più forte della realtà. Pensavo di tradirla. Era pieno di macchie. Nessuno poteva verificare quello che dicevo. Quando fu trascritta dai cronisti la frase più celebre, relativa all’amore, molti non ne compresero l’oggetto. Per quanto semplificassi tutto, a rischio di mentire, non tutto per loro era chiaro.3

I propri o altrui testi si possono però anche ripudiare, rifiutare. A cose fatte – ma cose, direi nel caso, non di nulla importanza –, si può anche dichiarare che le poesie prodotte siano state solo “rinçures” (acqua di lavaggio, broda), anzi succo da plagio: «rinçures de Gautier, de Coppée, de Hugo, de Baudelaire» (Rimbaud, secondo André Billy, a un suo associato in affari Maurice Riès). E i testi degli altri si possono anche non mai leggere, o leggere distrattamente, a mo’ di stralci di giornali, nel generale traffico massmediatico di cui si è parlato, e bene, in questi giorni. Panta rhei, come capita sempre. Volerlo imitare, quel flusso, fa parte certamente dei compiti dello scrittore: anzi, non è altro in sé che classica mimèsi, già sperimentata da qualche crepuscolare (per non citare di nuovo Montale: «Nulla resta di classico fuori delle bottiglie / brandite come stocchi da un ciarlatano del video», La Fama e il Fisco, Diario del ’72), oggi da un Valerio Magrelli, da qualche oggettivista, ecc… – «Abitiamo l’epoca del gremito» (G. Majorino), o: «Adesso parleranno tutti uguale, / tutti la stessa lingua che ci ha tolto la nostra» (V. Magrelli). Eccetera. Un tempo, invece, Flaubert poteva scrivere – quasi da benevolo mèntore –, alla signorina Leroyer:

Ne lisez pas comme on fait des enfants, ni pour vous divertir, ou comme les ambitieux, pour s’instruire. Non, lisez pour vivre!4

Siccome la “funzione poetica” non basta a definire, caratterizzare e legittimare la poesia (anzi), così neanche la presenza di lacerti “vissuti” o di furbi “effetti di reale” basta a fare che il testo – se testo c’è davvero – diventi un oggetto espressivo “realistico”. Vedi i messaggi pubblicitari e/o politici (zeppi di “funzione poetica” strumentalizzata e di pathos “vissuto”). Ma, ma, di nuovo, ci sono i contenuti, conturbanti, spesso scottanti (Saviano), a volte grezzi e di riporto (e saremmo di nuovo al collage della poesia sperimentale già toccato sopra). La loro forza d’urto, proprio perché sono immessi in contenitori detti “romanzo” o “poesia”, Letteratura insomma, può essere rilevante, è vero, se si vogliono leggere. Si osservi da vicino, allora, la forma di essi contenuti, come si deve pur sempre analizzare la forma dell’espressione: senza semplificare ad oltranza, come si è sentito in questi giorni (ancora, stupisce, nel 2014), in vaghi approssimativi “fondo” e “forma” (ossia, traduco: contenuto e espressione). Si vedrà come dileguano da sé certi pregiudizi e stereotipi sulla presenza “scottante” di certe “realtà” appena appena documentarie-giornalistiche (mentre, Jean-Louis Comolli insegna, il documentario stesso è racconto, “anche” immaginario). Dileguano le nebbie di pretese verità. Un urto scaccia un altro urto, entrambi si consumano.

Nessun contenuto vale – fatta salva la sua funzione informativa secca, beninteso – senza un lavoro (poetico, manco a dirlo) sulla forma dello stesso contenuto. Nessuna espressione basterebbe – a parte per un gradevole rumore dei significanti là usati – indipendentemente dalla forma di tale espressione. E tale forma, ma non è qui la sede giusta per tornarvi sopra, spesso non è affatto “mimetica” (neanche, talvolta, nei casi estremi di imitazione onomatopeica!) bensì segnale di letterarietà, o meta-letterarietà nel generale arcitesto in cui viviamo. Oppure giocoso pretesto a pura immersione nel tripudio del ritmo: l’astratto e concretissimo ritmo (dello stesso Giovenale, si veda, fin troppo scoperto: «coi suoi lari, coi colari e i latrari, loro, batteri birilli, altari a bielle»). Si fa presto a dire “corpo”, o fisicità, se questa componente (tecnica, in fondo) manca. Vedi G.B. Marino, nientemeno: «Ed empiano con musica che crepiti / quest’isola di fremiti e di strepiti», già… Certo, e bisognava dirlo, sappiamo ormai che «nessuno è innocente» (Vasta), oppure che «più nessuno è incolpevole» (Montale, sì, ancora, La primavera hitleriana), oppure che, volendo, si salva forse solo chi sia «incapace di peccare senza rimorso» (Leopardi)… e insomma, che nulla di tutto ciò basta in sé a produrre novità. Forse, si è fatta confusione tra mezzo e oggetto (testuale), linguaggio e poesia. Tornano a interessare invece gli studi precisi di sociologia letteraria, a cominciare dalle politiche editoriali, montature varie (editoriali, giornalistiche) di sempre nuove tendenze: i “nuovi realismi” compresi, dopo i “cannibali”, e altri. Viene da pensare, rispetto alla posizione di un realista antico (Flaubert, citato sopra), se non ci sia in atto qui una nuova «haine de la littérature», entrata però nel campo stesso della Letteratura, grazie a opportune operazioni editoriali, e giornalistiche, ossia economiche. Buono, il cavallo di Troia. E ben atto a guadagnarsi il plauso di chi (alla grossa) sarebbe contro ogni tipo di preparazione, se non altro di lettura altrui, insomma contro ogni speciale impegno, confuso con una qualche vieta “separatezza”. Nelle forme estreme del capitalismo, o post-capitalismo che vogliamo dire, “leggere per vivere” rappresenta infatti uno spreco poco ammissibile, ormai. Leggiucchiamo, piuttosto, per distrarci e seguire le fluttuazioni del mercato e del protagonismo imperante; percorriamo sempre più alla svelta le sempre più sbrigative e febbricitanti nuove proposte; e non disturbiamo nulla se ignoriamo la forma (Flaubert ancora: «credo più che mai all’odio inconsapevole dello stile»), se cerchiamo pseudo-novità degli argomenti trattati. Uso, usura, consumo. Con quel po’ po’ di astio, certo ben comprensibile, contro chi occupa il campo e rilutta a far posto ai nuovi venuti. Il tutto portato via dal fiume in piena evocato sopra, mentre la scrittura vuole, quale che sia, tempi particolari, “separati” per l’appunto. E vedi tutt’altro: velocità frastornata dei vari siti, blog, facebook e twitter che dir si vogliano (aggressivi più che altro, cattivi, inaspriti, narcisistici). E poi, banalmente, lo sai: se non sei informato (degli ultimi ritrovati) non esisti. La grande macchina culturale (o di soft power) è lanciata, con la potenza mediatica moltiplicata dal net, dalle cosiddette reti sociali. E chi la ferma più?

[intervento estemporaneo al convegno CIRCE «Nouveaux réalismes», Parigi, 12-14 giugno 2014]

Note

1 E. Montale, Poésies I : Ossi di seppia / Os de seiche, tr. P. D. Angelini, Paris, Gallimard, 1966, p. 213.

2 Vir Candela, Carnets trimestriels du Collège de Pataphysique n. 15, marzo 2004, p. 62.

3 M. Giovenale, per altro uno dei poeti italiani più interessanti al momento, credo.

4 Cit. D. Cohen, in Les écrivains et l’argent, dir. O. Larizza, Paris, Orizons, 2012. Montale riprende il verso di Verlaine dato in epigrafe come explicit di Storia di tutti i giorni : «[…] e “il resto è letteratura”» (Quaderno di quattro anni).