Jean-Charles Vegliante,
Incontri, seguito da Altre Babeli
Mario Pezzella

Jean-Charles Vegliante, Incontri, seguito da Altre Babeli, Latiano, Interno Poesia, 2023.

Nelle sue raccolte precedenti Vegliante realizzava un incontro ricco di tensione fra le due tradizioni poetiche del ‘900 a cui appartiene, per il suo bilinguismo e per la sua attività di traduttore; quella francese più propensa a una verticalità ermetica (per esempio in Char e Dupin) e quella italiana incline a una effusione narrativa come in Raboni. Ne scaturiva uno stile inconfondibile: narrazioni che si accendono in visionarietà improvvisa, lampi di immagini che conducono a straniati racconti. Questo stile pienamente maturo lo ritroviamo nella prima sezione del nuovo libro. Poi però Vegliante va oltre e pone in stato di emergenza il suo stesso linguaggio. Le due sezioni successive proseguono con giochi estremi di significanti implosi – arabi, spagnoli francesi italiani tedeschi portoghesi – che però non hanno nulla di uno sterile avanguardismo; i suoni provengono da corpi vecchi, blateranti, sofferenti, minacciati e si capisce fino a che punto quella lingua disarticolata, come lalangue lacaniana, corrisponde all’esperienza di un ordine simbolico che implode – individuale e collettivo. Voce sotterranea precedente ad ogni articolazione, «nocturno nombre de la dea della langue» (p. 145), essa è in contatto col romorio sordo e confuso, coi movimenti muti del corpo, al di qua e insieme al di là del linguaggio, strato della lingua ancora vicina ai gorgoglii del grembo materno, rinvio a ciò che il corpo corrode e trascende. Se è vero, pensava Walter Benjamin, che al fondo delle lingue conosciute insiste l’appello di una voce comune e dimenticata, questo libro di Vegliante si sporge ad ascoltarne il suono, i barlumi, gli improvvisi abbagliamenti. L’incontro babelico tra le lingue divise non avviene però all’insegna della restituzione dell’origine perduta, ma è dominato da cancellazioni e disfacimenti, da un presentimento di apocalisse, annunciato fin dalla prima poesia: «Siamo tutti sospesi sopra l’infero / disastro che minaccia e ci disfà. / Ci disincanta» (p. 7). Il poeta segue una «morta scordata» e cioè dimenticata, ma anche con le corde rotte, incapaci di suono, disaccordata da se stessa: un seguire casuale e sbandato «tra le nuvole sui tetti di piombo il segnale / sicuro della fine». Anche se il viandante trova il tempo e il modo di sorridere e di irridere con la comicità della sezione Epigrami.

La dissociazione delle lingue è il tema della poesia Babbell (p. 134). L’inversione di genere del significante italiano (turgido luno – accaldata sole, o anche solita amore – duro morte, contaminando italiano e tedesco), o l’uso del dialetto («lascia che l’uocchie belle / ‘nnammorate se perdano s’accechino / senza resa di sole dentro a te»), non sono mai fini a se stessi, ma intonano una ballata tragica con una risonanza arcaica, come in una parlata ancora non giunta a una forma scritta definitiva. Quasi in ogni verso insiste un dualismo e una scissione, che sono contemporaneamente del linguaggio e dell’identità, una lotta senza quartiere e conciliazione tra eros e thanatos, maschile e femminile che si scontrano nei due versi finali, ancora evocando la luna in generi capovolti: «la mour est un sec faucheur da, / luno di lunä accanto stella fredda». Aggettivi maschili si riferiscono a soggetti femminili, o femminili a sostantivi maschili, in una inversione continua dei generi, che può anche esprimere una gioiosa sovversione, ma più spesso una inquietudine ansiosa, la stessa delle «semivocali / mozze in una parlata di vento» della poesia Perifeerie (p. 155). La babele sul piano del significante corrisponde alla confusione delle identità culturali su quello del significato, in una sorta di lamento sulla fine dell’Europa; che non manca però di un risvolto utopico, come se una più arcaica voce comune, imprendibile e selvaggia, emergesse e ricordasse un’origine perduta. L’impossibilità di raggiungerla è sottolineata dall’intraducibile composizione verticale che unisce semiparole ad altre (qui-sou-ffre-cé-lèv) nella poesia Énigme (de) poétique (p. 39):1

Cherche ce qui est au centre
De chaque souffle du vers:
comme un coffre reste ouvert
tu verras céder dans l’air
le son de lévres charmantes…

Cerca ciò che è al centro
D’ogni respiro del verso:
come uno scrigno si apre
lo vedrai cedere all’aria
il suono di labbra adorabili…

Il soffio, il respiro del verso, è entità prelogica, interna al ritmo dei corpi, che precede e poi scandisce l’articolazione dei linguaggi e segue alla loro rottura, a malapena riusciamo ad ascoltarne qualche battito; in ogni caso non al di fuori del senso e delle parole, ma alla loro estremità.

Piccoli movimenti bambini
Ombre aborti di scatti di tendini
Represse rivolte nelle arterie
Flusso inverso dei sangui sognati
Quasi gridolini d’aria dentro
Corpo adorato in sonno si disfa
Chi guarda teme ignoto risveglio
O caduta nell’ignoto scuro
Vertiginoso dietro le palpebre. (p. 50)

Siamo in uno stato di sospensione, di sonno, di inazione, in cui ciò che amiamo, «il corpo adorato» si disfa piuttosto che permetterci un incontro; e come ci risveglieremo da questo sopore inquietante? Sarà un vero risveglio, un ritorno alla luce e alla speranza, o una caduta nell’oscurità? La possibilità di rivoltarsi contro è ridotta; gli «scatti di tendini» in cui si annuncerebbe la ribellione restano ombre di azione. I sangui sognati, le utopie e i desideri, si estinguono in esili «gridolini», invece che vere grida. Ciò che ci attende, il non–ancora in questo tempo che non è più, è ignoto, è una vertigine che scava dietro le palpebre e sconvolge ogni riferimento, ogni rassicurante ordine simbolico, perché «un globo collassa e trascina con sé / i parassiti che tutto hanno succhiato» (p. 51), l’aria vibra «di gelo nero» (p. 52), «nel vorace tramonto che tutto cancella» (p. 53), voracità dell’accumulazione, dell’incremento illimitato della potenza, dello sfruttamento della terra e dei corpi. La poesia registra lo stato dell’inconscio del collettivo come un sismografo, con le sue metafore ossessive: «Tutto è attesa della novità che distrugge» (p. 111), o anche: «Vers quel nouveau / verso qual nuovo / disastrato / désastreux / voyage» in Sol (p. 164). Attesa intimorita e insieme desiderosa della distruzione di un ordine simbolico consunto e inaccettabile; o rassegnata alle innovazioni distruttive del capitale, che sembrano portare il nuovo, accendono luminarie di illusioni e poi accelerano la corsa verso il nulla. Della morte come unica novità aveva scritto Baudelaire, ma in Vegliante il tema perde ogni valenza euforica per diventare una constatazione di amaro disincanto, priva di superomistica sfida; mentre il bilinguismo in Sol particolarmente sottolineato, quasi che il poeta traducesse in simultanea se stesso, ci induce a pensare a un male che trascende ogni confine di culture nazionali. Viviamo in uno stato di cose in cui i sommersi si consumano nel fondo del mare e noi distogliamo lo sguardo,

Se il cadavere permane a lungo in
acqua i batteri ne fanno sapone
oppure in mare cristalli di sale
altro che “into something rich and strange”
poveri coralli grigi morenti
e plastica nella melma invadente
cibo per gamberetti il rimanente.
Cessate lagrime, lasciate angeli…
(anofeli)
(eadem) (p. 38)

Sapone come avveniva ai corpi di Auschwitz; non vogliamo vedere, ma questo innominabile scava nello stato d’animo collettivo, apre vertigini di angoscia repressa, di colpa irredimibile. Il motivo della metamorfosi ad opera delle acque è una citazione dalla Tempesta di Shakespeare, le parole di Ariel si riferiscono al corpo di Alonso, tramutato appunto in qualcosa di ricco e strano, cullato da «ninfe salmastre», dove già c’è un passaggio perturbante dall’organico all’inorganico; il passo viene ricordato nella Terra desolata da Eliot con un tono fra il tragico e l’ironico, riferito a Phlebas il fenicio che «sgretolò in bisbigli le sue ossa»; i sommersi di cui parla Vegliante finiscono in melma e plastica, non c’è riscatto e redenzione per queste morti. Del resto la trasmutazione incessante dei viventi e delle cose promossa dal capitale, è più una decomposizione senza ritorno, che una metamorfosi alchemica come quella che probabilmente ispirava Shakespeare, e di cui l’affanno delle merci è una caricatura grottesca e priva di ogni sacralità. L’acqua è una metafora ricorrente nella poesia di Vegliante,2 spesso col senso positivo di un disciogliersi di vincoli e rigidezze, un «rimpianto di piogge» (p. 8), ci ricorda una terra più mite dove il sole non è feroce e non ci consuma, un’atmosfera più velata e avvolgente; ma in questo libro prevale il suo aspetto dissolvente: «Lei va deblaterando di ‘occhi che camminano sull’acqua’ / di occhi scuri», «gli occhi stanchi di sostenersi nell’acqua vanno a fondo» (p. 17). Siamo segnati da una universale esperienza di corrosione e privazione di contorni: paradossalmente la fantasmagoria in cui viviamo ci conserva nello stesso atto con cui ci annulla, in una parodia dialettica, è una protratta disparizione dilatata all’infinito, «termitaio movente neon / della grande respirazione che ci mantiene, ci cancella» (p. 8; pensiamo al moto del desiderio verso le merci e alla moda che le pone e le supera-abolisce incessante), ci aggrappiamo per sopravvivere a ciò che ci consuma, la dissoluzione periodica di ogni forma è la forma assoluta.

«Siamo tutti estromessi / forse / Siamo tutti offesi dal torto subito / Quando?» (p. 24): lo stato d’animo collettivo è ferito dall’irruzione di un trauma non superato e non elaborato, dimenticato agisce come una potenza muta di oscuri risentimenti, eredità di generazioni precedenti, rigurgiti attuali di guerre e stermini passati, ombre dell’inconscio che deflagrano in gesti inconsapevoli, «nessuno ricorda ma soffre aspetta / la slatentizzazione… / la retenzione» (ibidem), il trauma irriflesso si palesa in forme violente, distruggenti e autodistruttive, in istinti aggressivi di morte, «parole feroci dilagano / – volevo dire siamo nell’età crudele / o forse imbecille e felice» (ibidem): e non si legga questa come un’alternativa, è una complementarità che pone insieme l’imbecillità e la tragedia, il grottesco e il grido, la smorfia del clown e il sovversivismo neofascista ed isterico, «pareti di cartapesta marcia / vengono giù a lembi da gelidi occhi» (p. 108), il mascherone clownesco, il variopinto marciume scopre dentro di sé il gelo astratto, sono i due lati del capitale, «viene / sulle acerbe piste / per pianure aliene / lo stesso svanire» (p. 26).

I capannoni «disfatiscenti, lungo acque fatali e aranci» di una qualche sordida periferia di Roma o di Parigi sono l’emblema della «distruzione-sistema» (pp. 44 e 45), ritmo che mantiene e cancella: è questo che indica l’aggettivo «disfatiscente», non qualcosa di già in rovina, neanche una maceria, ma un fantasma che vive una paradossale durata dell’atto di disfarsi, e che del moto del disfarsi si fa una ragione o una sragione di vita, «mode, età e facce: / cose fuggitive: / come noi al macero» (p. 54). Atonia e anaffettività psichica conducono all’ebetudine a un «non sguardo interiore» (p. 14), sintomi depressivi che collocano l’esperienza sotto l’«astro atro» della malinconia.

Corpi dissolti o torturati come avviene in ogni parte del mondo, come è avvenuto a Giulio Regeni, «corpo usato come una lavagna. / Più mani di boia hanno torturato e marchiato / finirlo ruotando il suo volto sfigurato su se stesso fino a spezzargli il collo» (p. 139), non vogliamo vederlo l’intollerabile, non ci rivoltiamo contro di esso, solo gridolini, movimenti bambini, ombre, aborti di scatti. Si aprono «porte d’abisso così rotte, broken, brisées» (p. 140), mentre «the basement of the word» è uscito dai suoi cardini ed è affannoso il tentativo di rimetterlo in sesto. Alla disgregazione antropologica si accompagna quella della natura, e si leggeranno questi due versi in senso allegorico ma anche letterale: «Adesso che siamo tutti al sole feroce / sotto la sferza dell’astro che ci consuma» (p. 159); perché c’è un riferimento all’inferocito riscaldamento climatico reale, ma il sole che consuma è più in generale la tensione verso l’illimitato di una volontà di potenza che l’astrazione reale del capitale rende sempre più intollerabile ai corpi viventi.

ni mur où se réfugier si l’murailles tombe(nt)
ni étoile au ciel’ labouré de missiles ’aveugles
Aspettiamo se spettar si possa ‘n tal frangente
nel terribil rhasciab o alt Wald pieno di teschi
ove migliaia perirono o feriti anco soffriranno.
(p. 141)

Ritorna qui il tema dell’attesa nel tempo uscito dai cardini, ci si chiede se in queste condizioni di crolli di antiche mura, di cielo travagliato da ciechi missili, si possa davvero ancora aspettare, siamo vicini, come ad Auschwitz, a un’antica foresta piena di teschi, a foreste nere come quelle immaginate da Kiefer, in cui affonda e si spegne nella cenere l’Europa, nei suoi linguaggi ormai balbettanti e babelici. Lo stato babelico delle lingue, gli idioletti confusi, sono la mimesi della nostra condizione, della perdita delle articolazioni dell’esperienza e dell’ordine simbolico. «Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata», il nostro può essere il tempo della fine del capitale o più in generale «la fine di un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria» (W. Benjamin). La lingua franta a cui si affida Vegliante nell’ultima parte del libro è il contrario di un esperanto, è un documento della perdita di ogni identità culturale europea, e il tentativo estremo di far ascoltare l’eco di una voce comune oltre la scomposizione dei linguaggi.

Molte poesie sono un dialogo con poeti italiani, Porta, Pagliarani, De Signoribus, Benedetti, Cucchi, Fortini… Ogni poesia è infatti in certa misura traduzione dell’altro e risposta ad un altro, immersione nel flusso collettivo del linguaggio in cui l’io e l’altro vivono solo nel riconoscimento reciproco. La traduzione è in effetti riconoscimento di un’alterità entro un fondo comune. C’è un centro sconosciuto e inafferrabile in ogni «respiro di verso» (p. 39), quella voce sconosciuta che può anche essere feroce e sfuggente come una «nebbiosa pantera» (p. 32), o come le parole imprendibili di De Signoribus (p. 34).

C’è in queste poesie una meditazione sul corpo fragile e indifeso e sull’insensatezza di voler rimuovere la caducità delle vite trascorrenti «avant le saut / dans l’inconnu aux derniers maux» (p. 27). Del resto di fronte alla morte (abbiamo passato gli anni dal 2020 al 2022 sotto la presenza costante del suo astro atro e il corpo anziano e malato è stato scisso con violenza dal “normale” sopravvivere) una religiosità laica può andare poco oltre l’enunciazione esitante: «Dio è – troppo Dio; il verme – troppo verme» (p. 30), oppure soffermarsi su presenze enigmatiche: come «l’aria ddoce da nottë passa su sa fronte / come ’na mane sente jje fa na carezza» (p. 136), nella poesia Il vecchio solo.

Il «pobretonto» della poesia O viejo (p. 137) oscilla tra i suoi brandelli di memorie confuse e l’ignoto, «ombre strisciano intorno alla bruma dei capelli», perde la distinzione tra presente e passato. Dramma creaturale del nostro essere, che tuttavia si intensifica in una dimensione sociale dove il venir meno e il trascorrere dei corpi viene misconosciuto, medicalizzato o recluso in un «mouroir» (p. 27), ridotto a oggetto numerato, in corsie in cui ci si risveglia «attoniti di starci» (p. 150). Eppure si potrebbe ancora ascoltare nell’ «osso vecchio» (p. 142), «che più omai non punzecchia l’appetito d’animale», l’ansimare «dell’antico mare ubriaco del suo sale», l’affiorare dell’antica madre. Ma come è violata la sacralità della vita, così anche quella della morte, che nel nostro universo non ha riti di accompagnamento e non conosce il lavoro del lutto, né sapienza creaturale. Le poesie sulla vecchiaia in questo libro hanno certo il tono di un compianto o di un lamento, di una dignità e di una dicibilità da restituire alla sofferenza, ma anche quello dell’indignazione per la trascuratezza di ogni pietà. Alcune di queste poesie hanno la tensione di quello che Luca Lenzini ha definito «stile tardo», segnato da crepe e macerie, pronto a incrinare ogni forma precedentemente acquisita:

Accogliamo pure quest’ultima espressione, catastrofe, nel senso etimologico, insieme di mutazione e rivolgimento; senza dimenticare che nell’arte della vecchiaia, allorché si manifesta il demone dello stile tardo, si aprono strade incognite al presente ma feconde per il futuro… l’elemento messianico e quello apocalittico si fondono per porre in modo stringente e ultimativo il tema dell’eredità.3

Siamo sull’orlo, dice una poesia dedicata ad Antonella Anedda (p. 37), di un vuoto del tempo, un «tempo che rode», in cui «tutto va cadendo nel vuoto», e noi «stiamo sospesi nell’attesa della caduta». Questo essere in sospeso, Stillstand lo definiva Benjamin, è un’apocalisse dilatata, che non si manifesta in una crisi verticale e improvvisa, in un giudizio con trombe e angeli, ma in una lenta progressiva erosione, che tutto contribuisce a renderci inavvertibile; perché lo sforzo maggiore dei poteri dominanti del capitale non è volto a evitare la fine della terra, ma a renderla inconscia e inesorabile: «nada, vide effrayant vide / sotto ’l navigio tua tirant sur sa chaîne rugissant» (p. 147). È un «tempo sospeso come ceneri» (p. 181), e quest’ultima immagine rinvia a un trauma primario che ha determinato il vuoto attuale, ceneri dell’Europa, della Shoah e di Hiroshima, ceneri delle città distrutte dalla guerra, ceneri che sempre di nuovo avvelenano l’aria.

Anche le notti incerte vaneggiano
Il buio si sfalda in residui di spaventi
Rumori si mescolano al respiro dei dormenti
La traversata del cieco fiume ci cambia
E non riconosciamo più il passaggio
In delirio anonimo tarda un’alba.

Nel vuoto di tempo che è il nostro non possediamo più strumenti di pensiero e forme di esperienza che ci permettano di riconoscere il punto di transito nel fiume cieco che dovremmo attraversare, quelli che abbiamo ereditato sono fragili e transitori, residuali, rumori sordi entro il sonno; le grandi figure dell’ordine simbolico cristiano non ci consolano più veramente, i messianismi del secolo passato sono tramontati o hanno condotto al dissesto attuale (chi potrebbe dire oggi cosa sia il socialismo?), le parole, anche quelle più nobili, si mescolano in un delirio senza soggetto, impersonale, confuse e rimestate in un nulla di senso dalla società dello spettacolo che le riassorbe e le ricicla in forma di slogan occasionali ed effimeri, in chiacchiera. Così tarda un’alba, una metamorfosi dei fondamenti della vita, la speranza che potrebbe salvarci. Siamo, sintetizza Vegliante, in una «fremenda landa di nessuno o perduta» (p. 143).

A cosa possiamo affidarci? Solo ad un «arso azzurro» (p. 66), «abbaglio feroce nel frinire», alla voce dei sommersi che si dilata in «fiori vapore» (p. 176). La natura nelle sue metamorfosi spesso crudeli ci sospende ciclicamente a «una piccola anima verde», giunta sotto la nostra finestra dove «dormirà nel suo prossimo ente» (p. 185). Questa immagine di metamorfosi riguarda anche noi, che pure abbiamo un sonno «più lieve», «più breve»? Il poeta non può che lasciarci nell’intensità di questa domanda, in cui la verticalità del destino individuale si unisce all’orizzontalità di quello storico e collettivo, perché l’uno è concepibile solo nella coloritura, nell’ombra portata dell’altro. «Tradurre devi ancora per non far morire – la pianticella che comincia ad attecchire – incedere verso un cielo d’olla podrida – / con dignità sempre, che ne va della vida» (p. 145).

Note

1 A cui fa riscontro e controcanto nella seconda parte della poesia: non, qui-s’offre-grandi-ce, che inverte la prima affermazione. In italiano: chi soffre si eleva, no, chi si offre ingrandisce.

2 Così G. Bachelard: «Fort de cette connaissance d’une profondeur dans un élément matériel, le lecteur comprendra enfin que l’eau est aussi un type de destin, non plus seulement le vain destin des images fuyantes, le vain destin d’un rêve qui ne s’achève pas, mais un destin essentiel qui métamorphose sans cesse la substance de l’être… L’être voué à l’eau est un être en vertige. Il meurt à chaque minute, sans cesse quelque chose de sa substance s’écroule. La mort quotidienne n’est pas la mort exubérante du feu qui perce le ciel de ses flèches; la mort quotidienne est la mort de l’eau» (L’eau et les rêves, Paris, Librairie Josè Corti, 1942, p. 17).

3 L. Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008, pp. 25-26.