Isabella Adinolfi,
Giorgio Brianese,
Il paradiso sulla terra
Andrea Dal Sasso
«La vita è un paradiso, e tutti siamo in un paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo, ché se volessimo riconoscerlo, domani stesso s’instaurerebbe in tutto il mondo il paradiso». Queste parole, pronunciate dal fratello morente dello starec Zosima in I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, riassumono al meglio il senso di fondo dell’ideale che guidò intimamente la ricerca spirituale e religiosa dei due più grandi scrittori della letteratura russa dell’Ottocento. La citazione è ripresa all’inizio della prefazione di Isabella Adinolfi a Il paradiso sulla terra. La religione di Dostoevskij e Tolstoj, raccolta di suoi scritti e del compianto Giorgio Brianese, già docente a Ca’ Foscari, allievo di Emanuele Severino e raffinato studioso, cui la silloge è amabilmente dedicata.
Il progetto editoriale, si capisce dalla dedica, nasce infatti nel segno irrinunciabile dell’amicizia, sollecitato dall’esigenza personale dell’autrice, anch’essa docente nell’ateneo veneziano, di rendere un omaggio al collega e compagno di studi, scomparso prematuramente nel 2021. Del resto, i saggi qui presentati e dedicati ai due giganti del romanzo russo, cui rispettivamente sono assegnate le parti in cui il volume è suddiviso, assumono come fil rouge un tema che è stato e sta al centro dell’attenzione filosofica di entrambi gli studiosi: il “Paradiso sulla terra”, come simbolo del Regno di Dio vissuto in interiore homine, via di fuga dal nichilismo imperante, redenzione e salvezza da un mondo in cui “tutto è permesso”, luogo terreno, ma anche e soprattutto – come vedremo – luogo del “cuore”, dove solo è possibile rintracciare quella dimensione di armonia universale e di gioia, che solleva l’uomo dalla contraddizione e dall’irrazionalità del male, che ineluttabilmente lo attanaglia. Ma cosa significa pensare al paradiso come ad una dimensione del qui e ora? E quali sono le vie interpretative battute da Adinolfi e Brianese?
Per quanto concerne struttura e contenuti, il volume raccoglie, nella sezione «Dostoevskij», tre contributi. Il primo è di Brianese, che mette a tema il silenzio di Cristo nella leggenda del Grande Inquisitore, argomento su cui egli è tornato ripetutamente nel corso dei suoi studi e nel quale la figura di Cristo, interpretato come “maestro di libertà”, viene accostato al Cristo nietzscheano. Il suo silenzio, in questo senso, suggerirebbe indirettamente all’uomo l’opportunità di cercare la possibilità del Paradiso per via interiore, “dentro di noi”, senza riporla – come insegna Zarathustra – in fragili speranze legate ad un mondo ultraterreno.
Seguono due saggi di Adinolfi, uno dedicato proprio a Brianese lettore di Dostoevskij, dove l’autrice rilegge La tragedia di un uomo ridicolo, introduzione all’antologia di scritti di Dostoevskij pubblicata dallo studioso veneziano nel 1998, nella preziosa collana di Gallone Editore, rimarcando tratti comuni e divergenze rispetto alla propria personale prospettiva; l’altro, incentrato sui Ricordi dal sottosuolo, in cui Adinolfi colloca la figura ancipite e tragica dell’uomo protagonista delle memorie nel contesto dell’itinerario speculativo dostoevskijano, avvertendo il carattere di “cesura” rappresentato da questo racconto rispetto al periodo precedente e, al contempo, il suo essere “stazione” rispetto all’esigenza di una nuova antropologia, trascendimento della condizione sotterranea in vista di una salvezza raggiungibile solo attraverso un calvario di dolore, pentimento ed espiazione.
Nella parte dedicata a «Tolstoj», troviamo dapprima un saggio di Brianese su Michelstaedter lettore dello scrittore russo, “vegliardo divino”, in cui l’autore accosta queste due figure sulla scia di alcune suggestive indicazioni lasciate dallo scrittore goriziano, al fine di mostrarne l’intima vicinanza in relazione al rapporto tra arte, vita e pensiero: Tolstoj avrebbe colto, per Michelstaedter, la necessità di vivere e gioire il presente, come solo i Greci avevano inteso. Un Tolstoj “persuaso”.
I tre successivi scritti di Adinolfi sono invece rivolti, il primo, alla concezione della storia in Guerra e pace, dove l’autrice, concentrandosi soprattutto sulla seconda parte dell’Epilogo, fa chiarezza sulla concezione tolstojana della libertà del volere: nella massima “fa’ ciò che devi, accada quel che può” sarebbe contenuta, in nuce, un’idea dell’umano e della storia, in cui resterebbero escluse tanto una libertà intesa in senso assoluto quanto la più stringente necessità. Il secondo, in cui sono prese in esame le due etiche sottese al romanzo Anna Karenina, “la morale delle regole” e “la morale del cuore”, in cui Adinolfi fa il punto sull’etica tolstojana mettendola in relazione al pensiero di Kierkegaard e all’impossibilità, da questi rivendicata, di un’etica “autonoma” come via esclusiva verso Dio. Chiude il libro un articolo che ripercorre l’itinerario tolstojano dal giovanile amore per la caccia alla successiva scelta per il vegetarianesimo, verosimilmente esito di una raggiunta maturazione del rapporto con l’idea della morte, che assillò l’autore russo per tutta la vita. In questo senso, Tolstoj avrebbe scoperto che la liberazione da questo pensiero angosciante sarebbe possibile, scrive Adinofi, «solo nell’amore-compassione per ogni vivente» (p. 169).
Entrando ora nel merito del confronto tra le prospettive dei due studiosi, osserverei quanto segue. Se Brianese – ha ragione la coautrice nella sua analisi – orienta teoreticamente la propria interpretazione in senso immanentistico, auspicando l’uscita dal sottosuolo nichilistico attraverso la concezione di un “cristianesimo pratico, una religione non teistica fondata sul comandamento dell’amore” (p. 69), Adinolfi percorre invece dichiaratamente la via della trascendenza, prediligendo il sentiero della fede in Cristo. Una fede che deve essere, sì, vissuta anzitutto interiormente, ma che non potrebbe spingersi oltre l’oscuro stallo del peccato, se non facendosi strada attraverso il chiarore della grazia divina.
La pubblicazione di questo volume diventa così occasione, per l’autrice, non solo per ricordare un caro amico e per compiere insieme a lui un’ultima navigazione, ma anche per esplicitare una divergenza di prospettive teoretiche sulla base, invero, di una radicata e comune convinzione: la responsabilità di ogni essere umano verso ogni altro essere vivente e verso ogni cosa, fondata sull’abissale necessità dell’interconnessione di tutti gli essenti. Ma se per Brianese l’ontologia che fa da sfondo a questo comune sentire è quella, tematizzata da Emanuele Severino, del “destino della necessità”, anima, secondo la sua personale interpretazione del pensiero del filosofo bresciano, di una “mistica senza Dio”, per Adinolfi è il messaggio evangelico, supportato dalla fede in Cristo e dalla grazia, a fondare invece quella “mistica dell’esperienza di Dio”, di cui alcuni personaggi soprattutto dostoevskijani sembrano essere custodi.
D’altro canto, Adinolfi sente di dover discutere, a ragione e consapevolmente, uno dei problemi cruciali legati alla possibilità di un’ermeneutica filosofica del pensiero di Dostoevskij che assuma come base teorica le idee formulate dai personaggi all’interno dei romanzi. La “polifonia” di voci quale cifra stilistica e poetica del grande russo, evidenziata soprattutto dagli studi di M. Bachtin, presterebbe il tema del paradiso sulla terra a molteplici letture, anche contrastanti, come quella che vi scorge un progetto di tipo prettamente politico (quel “socialismo utopistico”, al cui disegno pare avesse partecipato lo stesso Dostoevskij, quando a Pietroburgo frequentava il circolo di M. Petrašev e, a motivo del quale, fu poi arrestato e condannato a morte, salvo poi essere graziato e spedito ai lavori forzati in Siberia).
Tuttavia, lo ha mostrato bene Simonetta Salvestroni nel suo saggio su Dostoevskij e la Bibbia, cui entrambi gli autori fanno puntualmente riferimento, le rappresentazioni del paradiso sulla terra sono spesso accompagnate, nel testo del romanziere russo, da mirate citazioni bibliche che consentono di illuminare il significato della vicenda narrata e di orientarne l’interpretazione. Se pertanto, da un lato, il racconto del Genesi fa da sfondo per quell’idea, spesso ricorrente nel testo di Dostoevskij, di un paradiso sulla terra come luogo fisico, geografico, determinato (il giardino sulle Alpi svizzere del principe Myškin di L’idiota, piuttosto che “l’età dell’oro”, tanto agognata da Versilov di L’adolescente e Stavroghin di I demòni, ispirata loro dall’osservazione del quadro di Claude Lorrain Aci e Galatea, che tanto impressionò Dostoevskij); dall’altro, è al versetto del Vangelo di Luca (Lc 17, 21) sul Regno di Dio, tradotto secondo la sensibilità della tradizione mistica dell’oriente cristiano («Il Regno di Dio è dentro di voi»), che andrebbe ricondotta la rappresentazione più fedele al sentire dostoevskijano. Certo, Dostoevskij è maestro nel lasciare aperte tutte le porte, nel gioco funambolico della rappresentazione tragica e drammaturgica delle voci in controcanto; eppure, ad un esame attento delle Lettere, a chi abbia un certo orecchio ed una certa sensibilità di lettura, non può non apparire la tacita preferenza che l’autore, nonostante la sua dichiarata affinità ai figli della miscredenza e del dubbio, accorda ai suoi personaggi “buoni”. Tra tutti: Myškin, Alëša Karamazov, Zosima.
Questa seconda versione del paradiso sulla terra è, dunque, certamente la decisiva per intendere il percorso di redenzione dei personaggi dostoevskijani, con un tragitto che va, ha ragione Adinolfi, dal male al bene, dal peccato alla salvezza, complice, sì, la grazia divina, verso quella gioia che è, però, innanzitutto, luogo dell’anima, accessibile mediante un difficile e tormentato percorso di purificazione esistenziale, che può iniziare con la confessione della propria colpa oppure mediante un’esperienza di dolore estremo, che trasforma interiormente il vecchio io, aprendolo alla dimensione di fede. Determinante, per Dostoevskij, fu l’influenza degli scritti di Isacco di Ninive, uno dei padri della chiesa orientale («Sforzati di entrare nel tesoro che è in te e vedrai il regno dei cieli»). Un itinerario interiore, mistico, quindi, mediante il quale si rende visibile l’accesso, coadiuvato dalla luce divina, a quella dimensione di eterna armonia che consente di sporgere lo sguardo oltre il peccato, espiando la colpa nel proprio consegnarsi a Cristo-Dio.
Diversa è invece la via intrapresa da Tolstoj, che affida non a Dio, ma all’uomo morale ed al suo solo sforzo una possibile palingenesi della storia. Paradigmatico in questo senso è il saggio Il Regno di Dio è in voi, dove il Regno dei cieli coincide con la realizzazione dell’imperativo morale e dove Tolstoj, attraverso la metafora del viandante che cammina nell’oscurità, guidato dal bagliore di una lanterna, disegna il simbolo del cammino dell’uomo guidato dalla ragione morale. Quello di Tolstoj, anch’egli come Dostoevskij alla ricerca del Regno di Dio, è però – scrive Adinolfi – «un misticismo senza Dio, senza Cristo, il Dio-uomo» (p. 29).
Se differenti sono quindi i sentieri percorsi dai due grandi russi, comune fu invece l’assetata ricerca che li animò e che Adinolfi interpreta, suggestivamente, mediante la metafora dell’esodo biblico, spasmodica e tormentosa fame di una “terra promessa”, intesa anzitutto e daccapo alla maniera dei padri della chiesa orientale, quale dimensione da rintracciarsi primariamente in interiore homine.
«Lo scopo della vita», scrive Tolstoj nei Diari, «la sua vocazione è la gioia». «Gioisci del cielo, del sole, delle stelle, dell’erba, degli alberi, degli animali, degli uomini. E fai in modo che nulla possa guastare questa gioia. Se la gioia si guasta, significa che hai sbagliato qualcosa: cerca l’errore e correggilo».
Un’ultima parola per Giorgio Brianese. Non sarebbe fuorviante supporre che anche la sua ricerca filosofica (come quella di Dostoevskij e Tolstoj) sia stata sollecitata, nel suo incedere più profondo, nel suo ripetuto interrogare i pensatori a lui più cari (Michelstaedter, Schopenhauer, Nietzsche, Spinoza, Severino), dalla ricerca della gioia; una ricerca che, come scrive giustamente Adinolfi, Brianese consegnò, nella sua interpretazione soprattutto di Dostoevskij, all’irrinunciabilità del sogno, all’evidenza della sua necessità per l’uomo che non voglia arrendersi al non senso, al male, al negativo. È questa «la sua risposta ultima al nichilismo» (p. 75)?
Sono convinto, in veste di allievo e amico di Giorgio Brianese, quale ho avuto la fortuna e l’onore di essere stato, che, se solo il destino glielo avesse concesso, egli avrebbe avuto il tempo di mostrare che il sogno non è tanto, o non solo, la risposta ultima al nichilismo, ma che il nichilismo è il sogno stesso e che basta aprire gli occhi per vedere che la gioia – il paradiso – è già qui, hic et nunc, perché – come insegna Severino, che alla “gioia” ha dedicato pagine di rara intensità – è ciò che noi stessi, in verità, siamo. C’è pertanto un sognare che dal sottosuolo guarda la luce e che ci spinge oltre la gabbia del nostro ego, viatico trascendente le nostre persuasioni (innanzitutto, quella di essere mortali e destinati al nulla), ma, oltrepassato questo confine, siamo in verità noi stessi, con le nostre persuasioni, ad apparire come in sogno, perché è la gioia dell’eterno a mostrarsi con gli occhi della veglia. Certo, anche per Brianese, come per i personaggi di Dostoevskij e Tolstoj, il percorso è accidentato, colmo di dolore e di sofferenza, intriso di contraddizione, forse infinito, perché è pur sempre a partire dallo sguardo del mortale che prende abbrivio il processo di redenzione. Ma vi sono rari momenti in cui è proprio il sogno dell’eterno a fare breccia, come un lampo epilettico che ci desta dal torpore nichilistico, lasciandoci spiare il suo nitido volto tra le pieghe oscuranti del velo di Maya. Sono le “occasioni” dell’eterno, in cui si fa vivo in noi quel senso di appartenenza ad una comunità universale, luogo di armonia e pace, dove ogni essente è insieme ad ogni altro e ne condivide il destino. Da quel luogo, che è anzitutto una dimensione del cuore, Dostoevskij e Tolstoj, insieme a Brianese, continuano a chiamarci, per ricordarci, come spiega il “visitatore misterioso” a Zosima in I fratelli Karamazov, che «il paradiso sta annidato in ciascuno di noi».