Antonio Prete pubblica nella «Bianca» di Einaudi Convito delle stagioni dando vita a un libro di bellissima fattura. L’eleganza e la musicalità stilistiche, la calibratura delle immagini e dei concetti, la grazia contemporaneamente sapiente e spontanea del dire caratterizzano già anche i precedenti lavori in versi, i libri saggistici e quelli in prosa narrativa, testimoniando una scrittura esercitata nel corso del tempo al fuoco di un’acribia e di una severità nei confronti dei propri testi che non poteva non dare frutti anche in poesia. Ed ecco il nodo: la scrittura si fa scrittura in poesia perché talvolta viene avvertita l’esigenza di dire seguendo ritmi e prosodie che soltanto il testo poetico possiede e restituisce.
che si perda nel nulla.
[…]
Niente muore davvero.
[…]
O forse questo è solo il sogno
di una metamorfosi.
Un sogno che la parola oppone
al silenzio che la abita,
la materia al vuoto che l’assedia. (Metamorfosi, p. 5)
ha il vento nelle sillabe, la musica
del mare nelle vocali. […]
Il libro che non scriverò mai
ha fogli d’alga, margini d’aria […]
libro mai cominciato,
libro da sempre incompiuto.
Il libro che non scriverò mai
ha una lingua innamorata di ogni
altra lingua. […]
“Disponi ogni parola che tu scrivi
all’ombra di quel libro”, mi dice
una voce che viene ora da un libro.
È seguendo Passi d’ombra (pp. 8-9) che proprio Jabès e poi Mario Luzi e infine Yves Bonnefoy vengono ricordati con struggente nostalgia e immutata amicizia:
dove m’accade d’ascoltare il passo
di amici che camminano in silenzio,
tutti raccolti in sé, nel tempo immoto,
privo di turbamento. Essi affidarono
la stella dei pensieri a quel tripudio
della lingua, a quell’azzardo del dire
che è vita, grazia e spina della vita.
E quella dolce ossessione del nome,
la poesia, conoscenza e insieme
angustia per le ferite del mondo,
fu fuoco per ognuno. D’essi scorgo
ora, in questo crocevia di presenze,
mentre vanno, le distinte postille.
Poco dopo si è qui come sai bene,
fila d’anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare
aveva in sé l’incanto di desertiche
dune mentre serbava dell’esilio
l’aspra sapienza. Il Libro spalancato
sull’assenza […].
Ancora è qui la tua voce che prima
di sera su una riva dello Jonio,
gli occhi a una vela, mi diceva d’altre
rive, di altre lontane sabbie, là
nell’Egitto […].
i tuoi silenzi, poi sgorgava ruvida,
eppure lieve, la parola […]
Era ricolmo di tempo
il tuo verso, […]
andando tra calanchi e folti olivi,
lungo le Crete, e la tua indignazione
per la cattiva signoria, e il misto
di vertigine e quiete, ch’è sostanza
viva di cose sperate, con gli occhi
di Simone che scorgono il fulgore
di una sempre negata perfezione.
Per Yves Bonnefoy Prete ha parole cadenzate in sublime armonia, come merita chi quell’armonia ha cercato non solo nelle parole, ma anche nelle arti figurative: «E i pensieri sempre intenti / a dare forma e danza all’apparire […] / La lingua, / d’altri e tua, t’era mare, t’era porto, / odissea di pensiero e di sentire» (vengono alla mente i versi «Il rêva qu’il ouvrait les yeux, sur des soleils / qui approchaient du port, silencieux / encore, feux éteints; mais doublés dans l’eau grise / d’une ombre où foisonnait la future couleur», prima quartina della lirica
Tornerà nell’Aiuola del ricordo (pp. 20-21) l’elegia per amici perduti o defunti («Amici che un giorno mi diceste addio / senza dirmelo, vi penso in una solitudine / quieta, priva di ogni rimembranza, / assorti nella vostra assoluta lontananza») a reiterare il sentimento di stagioni passate, musicalmente rievocate in versi melancolici ma mai funerei, dolcemente nostalgici ma mai tristi. Tornerà in Divagazione su un viaggio in Messico (pp. 38-39) il ricordo di amici scrittori e poeti (qui Ida Vitale, Álvaro Mutis e Valerie Mejer Caso) entro una «geografia / del viaggio» che è anche contatto umano, scambio d’idee e d’arte – è convito di voci, d’incontri, di memorie, di luoghi, di circostanze, tessitura di una ricerca nella quale l’arte e il contatto umano tra gli artisti illuminano la vita e le danno senso. La postura di ascolto che caratterizza lo studioso pertiene anche all’uomo e al poeta (ammesso che le tre figure possano essere scisse) ed è per questo che Convito delle stagioni è anche uno spartito musicale vivificato dalla dialettica tra suono e silenzio: «c’era nella musica degli alberi / un silenzio che era specchio / del cielo, dei suoi silenzi» (Silenzi, p. 10), attraversato da un moto continuo di pensiero e di emozioni, «Le parole camminano con noi // […] // Lo stormire è il pensiero delle foglie. / Attendono, le parole, in silenzio, / che appaia, prossima, la terra dove / la lingua è vento, fiume, albero, stella» (Le parole, in cammino, p. 11), per giungere subito, in questo breve giro di pagine iniziali, alla rievocazione della figura materna e delle stagioni della propria vita. Convito delle stagioni può allora essere interpretato come uno spartito musicale, appunto, giocato su numerose variazioni e su ritorni tematici che, accennati e impostati fin dalle prime pagine del libro, si dispiegano nel corso della scrittura il cui io lirico non ha nulla di narcisistico né di egotico, ma, anche nei frequenti riferimenti più propriamente autobiografici, sa dare voce a esperienze comuni, sa essere voce di una storia comune e comunitaria.
al cancello. La casa rosa è dietro di te:
non so da quale lontananza ti vedo,
quale istante è tua veste, tuo profumo.
[…]
La tua figura
non ha cancellato il corpo di fanciulla,
la sua bellezza trepida, antica, raccolta
in una grazia acerba: […]
Mi chiedi
di avvicinarmi, mi porgi un fazzoletto
con i fiori ricamati a punto erba, prendo un capo,
lascio l’altro nelle tue mani e m’allontano:
si apre e slarga il fazzoletto, ha strade su pianure,
alberi, poggi, il vento lo curva, lo gonfia,
è una vela che scivola di là dall’isola,
va verso quella linea dove il mare è cielo,
il cielo mare. Poi sono ancora solo,
[…]
sono nel giorno senza tempo della tua assenza. (Nel giorno senza tempo della tua assenza, p. 13)
Tornando ai testi, ecco l’altro paesaggio ricorrente nella scrittura di Prete, ossia quello delle Crete senesi che, come il salentino, pur fedele alle proprie peculiarità esteriori è, in verità, paesaggio interiore del sentire e del pensare, amata geografia di complessi segni: «Dune di creta affondano nell’ombra. […] // La sera imbruna già gli ulivi. […] // Tra le stelle, / una vertigine di tempo s’incendia / in un vuoto di tempo. // La lontananza, un abbaglio d’infinito» (La sera che scende, p. 22); «Il fogliame della magnolia è d’oro, / sul fondo di un celeste che confina / con l’onda scura delle crete. […] // La Via Lattea / è lì, con Vega e Cassiopea, / è lì con il tripudio delle Pleiadi: / mondi che ora la luce solare / ha sospinto nell’assenza» (Mattino di mezzagosto, p. 23) e a pagina 35 Verso Asciano dice dei calanchi e delle dolci onde collinari, del Site trasitoire di Jean-Paul Philippe, del viaggio di Luca Signorelli alla volta dell’abbazia di Monte Oliveto – torna a cogliersi anche in Convito delle stagioni il piacere sensuale con cui il poeta scrive (e pronuncia) i nomi dei luoghi, delle stelle e delle costellazioni, costante riemerge il significato della lontananza e c’è l’albero dell’olivo che sembra congiungere Terra senese e Terra salentina, lì dove la linea e l’onda delle Crete prefigurano confini e lontananze, appunto, così come nel Salento svolgono una funzione affine il mare e l’orizzonte marino. Non è un caso, infatti, che nella terz’ultima parte (Quaderno blu marino) questi due paesaggi tornino a incontrarsi e come a congiungersi e, sempre a proposito delle Crete senesi, si legge: «stare sulla linea dove / l’argentea geometria del Cigno / si riflette nelle venature / della giada e nei solchi delle crete» (Stare, p. 93).
“Paesaggio” significa, in questo Convito, sia sua rappresentazione musicalissima per ritmo, figure retoriche, costruzione dei versi, sia sua resa pittorica attraverso le immagini che le parole sanno generare:
contro il rosargento del cielo,
[…]
Ora atterrano sul prato gli anni saltimbanchi:
corpi leggeri con ghirlande di carta,
fanno passi di danza sull’erba
nella sera scura che scende.
Sono ombre, con berretti d’ombra. (Autunnale, p. 25)
per la neve, la collina, la foresta.
Non c’è parola che dica ginepro, tramonto, cervo,
che dica luce, finestra, pietra, non c’è parola
che congiunga il vedere e la bellezza.
[…]
Senza un nome le stelle vanno nel vortice
del loro fiammeggiante viaggio.
Una voce allontana la visione.
“Come proteggere”, dice, “quel vincolo
che lega insieme il visibile e la lingua?”
E ancora: “Come difendere quel che rimane
della terrestre perduta integrità?”. (Nessun nome, p. 41)
Riprendiamo la lettura seguendo l’ordine dei testi e inoltrandoci nella seconda parte (Tempo rubato) costituita da dieci prose che permettono al discorso lirico di distendersi in un tempo più ampio; anche la dimensione della prosa (più o meno breve) è congeniale alla scrittura di Antonio Prete, il quale dà alla propria scrittura queste variazioni di tempo e di ritmo, riflessi di tempi e di ritmi che sono anche del pensiero e del vivere. Accade così che l’immaginazione permetta un viaggio a ritroso nelle stratificazioni del tempo e che “l’isola” sia un Salento mediterraneo incrocio di migrazioni e di storie, stratificazioni fino all’origine stessa della crosta terrestre:
Non è affatto un caso che l’esergo all’intero Convito sia l’affermazione eraclitea «Il sole è giovane ogni giorno», che è sì introduzione immediata al tema del tempo, ma anche evidenza di un divenire nel quale l’arte stessa è immersa, senza poterlo fissare in una rappresentazione definitiva; ma, leggiamo nelle pagine di Prete, “fissare il tempo” e quindi il reale significherebbe fermarlo, cioè ucciderlo, mettendo così fine proprio al processo vitale che permette tutta la bellezza che instancabilmente ogni pagina del Convito celebra, ché questo libro è contemplazione e celebrazione della bellezza del cosmo, addirittura esso è cantico di laico francescanesimo il quale, tra l’altro, si esplicita nella terza parte (Per un bestiario) che, ordine animale delle cose, mette in scena un’altra folgorante epifania («Un lampo: nella sparizione / lasciò il cervo un biancore di corna, / un’orma nivea nell’aria, il disegno / dell’angelo tornato già nel regno» – Un cervo, p. 63), tratteggia i moti e le immobilità della lucertola («Un tremito è l’attenzione, uno scatto / fulmineo la domanda della luce» – Lucertola, p. 64, quasi un “bestiario salentino”, ma non solo ovviamente, che potrebbe far pensare anche a Salvatore Toma), celebra «gli stellari / silenzi, l’indecifrata distanza» di Due gatte (p. 65) di baudelairiana suggestione, unisce la figura dell’airone ricamata dalla madre su un cuscino ricordo d’infanzia a questo che ora vola e che è cenerino (p. 67), rievoca la lupa Luna (p. 69, già apparsa in Nominazione) o il gallo udito nell’infanzia, poi a Istanbul, poi a Creta e l’amatissimo gallo silvestre, protagonista dell’Operetta leopardiana e titolo della rivista che Antonio Prete ha fondato e diretto per diversi anni (p. 74).
Se il grande tempo del mondo e del cosmo, il tempo interiore del vivere sentire e pensare, quello ciclico delle stagioni, quello a ritroso della memoria ha innervato fin qui il libro, con Lezione di tenebre siamo nel centro fisico, per dir così, del Convito (tre parti lo precedono, tre parti lo seguono, seppure ognuna di diversa consistenza in numero di testi) e il tempo è quello presente della storia, dei conflitti in atto, delle migrazioni. La voce che, in esergo, apre la sezione appartiene a Paul Celan: «Wahr spricht, wer Schatten spricht / Dice il vero, chi dice ombra» e invita a fare i conti con l’ombra malvagia e violenta scatenata dall’uomo contro l’uomo, con «la trama / sconfinata di ferite che è il mondo», com’è già scritto nei versi finali di Mattino di mezzagosto a p. 23. La poesia s’immerge in pieno nel dolore del mondo, guarda Di là dal sipario (p. 79) che inizia con una quartina d’idilliaca quiete: «Il cielo, questo meriggio, è una maiolica / blu. Dal tappeto delle spighe il rombo / lontano della trebbiatrice. Nuvole / stordite corrono verso la faggeta» – il “rombo” è quello del lavoro pacifico della mietitura, il cielo delle Crete sembra maiolica blu, MA – «Ma di là dal sipario vagano ombre. / Vagano tra i crolli, nel fumo, vagano / tra le rovine. Corpi insepolti, intorno. / Il confine è un altare: voragine di vittime». La guerra in Ucraina infuria, «Alta è la fede / nella perfezione delle armi» (ibidem), «Pugnalate tutte le lettere della pietà» (ibidem), mentre dalle tre quartine centrali (da cui ho citato alcuni versi) si giunge alla quartina finale che chiude circolarmente l’intero testo: «Qui volano le gazze, radenti, verso gli ulivi. / Sul sentiero, tra i corimbi del sambuco, ginestre già sfiorite. Si spegne la primavera. / Il mondo corre verso la sua sera». Gli amati animali (qui le gazze) e gli altrettanto amati olivi non possono e non devono far ignorare la Distruzione (è Prete stesso a scrivere il vocabolo con l’iniziale maiuscola) che divora altre regioni del mondo; senza alcuna retorica, ma affidandosi proprio alla forza espressiva ED ETICA della poesia, Antonio Prete compone questa sequenza di testi che nello Stabat mater di p. 80 sembra raccogliere anche l’insegnamento dei grandi pittori senesi del Duecento e del Trecento che espressero nella figura della Vergine e del Crocifisso l’amore e il dolore umani, messaggio diretto e parlante a chiunque, credente o meno:
Una spada la memoria del suo verbo, del suo riso,
del suo passo nella gloria.
Sul volto spento del Figlio
i bagliori delle stragi,
sul vetro scuro del ciglio
i riflessi dei naufragi.
[…]
Siamo, stille del suo pianto,
nella tenebra dell’ora.
Come scorgere l’incanto
d’una trasparente aurora?
l’angelo è solo. Inservibili le ali:
non c’è volo in un cielo fatto tenebra.
[…]
Aspro il sapore della conoscenza.
C’è un globo: con fulgore di nevi
e incanto di foreste. Lungo il viaggio
la rovina scurisce la bellezza.
Lezione di tenebre accoglie anche un testo che ricorda la pandemia da Covid 19 per articolarsi poi nei sette testi eponimi i quali, nello spirito della “lezione di tenebre” classica, commenta le prime sette lettere dell’alfabeto ebraico:
[…] L’alef è l’ala del visibile: la gloria del suo essere abolisce il vuoto. Dissolti, al suo passaggio, i riverberi del niente. Ma l’eden presto fu in fiamme: sopra il fumo si levava il vortice delle galassie, la perfezione delle ellissi astrali. Senza confini la geografia terrestre del dolore. (p. 85)
Bet
[…] C’erano carovane in cammino verso nuovi attendamenti: corpi feriti portavano sulle spalle altri corpi privi di vita. La distruzione fu vestita di ragioni, prese il nome di storia. E nella storia tutte le lettere dell’alfabeto furono scompigliate. (ibidem)
Dalet
Il suo pensiero era rivolto alle quattro direzioni del mondo, era questo che la lettera dalet chiedeva, ma andando seguiva un solo cammino, quello che conduceva verso la porta della città. […] la memoria del naufragio sulla pelle, i volti degli scomparsi nel battito del cuore. […] Nell’esplosa primavera ciascuno era solo con il suo dolore. (p. 86)
Vau
E vide che tutt’intorno era cenere. Le strade erano fiumi di polvere, i piedi si sollevavano a fatica dalla melma. Sopra, il cielo ea di pietra.
Armi nelle strade: gli inermi trucidati. E di là dal confine, rase al suolo le città, gli ospedali e i campi dei profughi bombardati, tutto un popolo messo in fuga, allontanato dalle proprie case, i feriti nascosti sotto le macerie. (p. 87)
Zayn
[…] Di qua, il barcone sferzato dalle onde, occhi che vedono i corpi spenti galleggiare, braccia che stringono il vuoto di un figlio senza respiro. (ibidem)
Avviamoci ora nella terz’ultima parte del libro, riaffacciamoci sul mare salentino attraversando il Quaderno blu marino e, anche, ricordando che in Tutto è sempre ora esiste una parte intitolata Taccuino blu, circostanza che mi spinge a consigliare, se possibile, di leggere insieme i due libri einaudiani, scoprendo così che si tratta di un dittico le cui due ante posseggono molte corrispondenze e molti rimandi reciproci e, volendo, si possono aggiungere Menhir e Se la pietra fiorisce in un ideale polittico poetico spero ancora in fieri:
pensosi visi di leoni, stemmi
inghirlandati d’acanto, febbrile
grido di pietra tra statue di martiri
sulle facciate delle chiese, dove
lo scirocco sfigura in arabeschi
le cornici, vicoletti di calce
in cui la luce trascina l’azzurro,
ombrose corti, con il ficus alto
addossato alle arcuate scalinate,
torri moresche che graffiano i cieli,
cupole che da maioliche rosse
mandano lampi verso l’imbrunire,
sfilacci viola di nubi che cadono
sopra le insenature, acqua che romba
nelle grotte e schiaffeggia le scogliere:
è il Sud, lingua del ricordo, polvere
celeste nella materia dei giorni,
il Sud che è lontananza e insieme spina,
terra rossa, tumulto di partenze,
il Sud delle ferite e dell’attesa,
dove gli angeli stanno rintanati
dentro l’anima della cartapesta,
il Sud che è il vento dei pensieri. (Il Sud nei pensieri, p. 91)
e alla ginestra spinosa ho cercato
i resti del Cenobio basiliano.
[…]
Il suono della simandra, cadenza
di preghiera e di scrittura, è il soffio
del libeccio nel canneto. L’affanno
sulla metrica d’un epodo greco
è grido della poiana che cerca
la palude.
Da Dante a Mandel’štam il cammino appare quasi obbligato, per cui dal verso incipitario, mandel’štamiano «Simile a una cesura il giorno si dilata» (Le sillabe, il giorno, p. 102 – si noti anche la bellezza in sé di molti titoli) si sviluppa una danza di gru, di sillabe che si cercano come nuvole, quel che non accade è un lampo nel cuore del verso, la sopravveniente notte, dopo il vespro estivo, «affonda le frasi nel vuoto», mentre brilla una moltitudine di astri e «non c’è lingua che possa decifrare / il geroglifico di quel perduto scintillio» (altrove Prete aveva detto della luce stellare che spesso ci raggiunge nel momento in cui la stella che la emise è già estinta in una dolorosa asincronicità tra tempo astrale e tempo umano). Ci si soffermi sul significato della cesura, non semplice elemento del verso e della prosodia, ma presenza fondante del respiro stesso e quindi dei ritmi vitali in un rispecchiamento continuo tra macrocosmo e microcosmo, tra vita biologica e vita intellettuale, tra cicli naturali e cicli interiori dell’essere umano; il dilatarsi del giorno-cesura è in rapporto diretto con la percezione che gli umani hanno dell’alternarsi di luce e di buio, di moto e di stasi, di suono e di silenzio, musica sottesa all’esistere stesso del cosmo tutto (e si veda qui il senso profondo di Convito delle stagioni, la sua capacità di restituire l’intuizione di tali ritmi); la concezione dell’armonia cosmica – che, è vero, Dante eredita dagli antichi, ma che con sensibilità eccelsa trasfonde nel mirabile poema e che il poeta russo, pur tra atroci sofferenze e pur fatto oggetto di feroci minacce, mai perde di vista esprimendola anche in forma di lingua della poesia – accende di bellezza la scrittura di Prete, induce a rileggere certi notturni leopardiani (anche il Convito è denso di notturni e di lune), certi testi di Jaccottet, di Machado, di Eliot, di Rilke…
Ma Quaderno blu marino si chiude con un breve testo in prosa che rievoca la Xylella (p. 110) iniziando con una bellissima immagine («Lungo le strade, selvose onde di ulivi, un tempo: un mare che confinava con il blu dell’altro mare») che il triste presente rende struggente ricordo, ché «Dovunque, ora, intrichi di brunite ramaglie, grovigli di spettrali fronde»; la brevità del testo e l’assenza di toni patetici, il realismo invece impietoso della descrizione della devastazione ne sigillano la necessità (non si può tacere su quello che è accaduto nel Salento negli ultimi anni, né su errori ed equivoci) e testimoniano un’attenzione che rifiuta di rifugiarsi infantilmente in un “tempo che fu”, in paesaggi belli e idilliaci che non sono mai esistiti, visto che lo splendore della campagna salentina significava anche fatica, lavoro malpagato per migliaia di contadini, sfruttamento delle classi subalterne. Antonio Prete non possiede mai un atteggiamento estetizzante nei confronti del reale, la ricerca della bellezza non significa affatto non voler vedere le ferite inferte alla natura e agli esseri umani.
I Fiori d’aria della penultima parte sono sei testi in versi composti (prendo in prestito l’espressione contenuta in Il nome a p. 116) con «velature da pastello acquoso», assai interessanti in quanto non esplicitano mai il loro tema, ma, accennandovi e subito come ritraendosi, sembrano muoversi in regioni, appunto, sfumate (velate) tra elegia, memoria, ricordo di un amore passato, lutto per un’assenza. Antonio Prete, all’interno del rigore e della coerenza che contraddistingue tutto il suo lavoro, sperimenta le diverse possibilità espressivo-artistiche della scrittura: seguendo filoni tematici acclarati («Nello specchio della lontananza / traspaiono volti salvati dalla giostra / del tempo» in Incerta luce, p. 118, «Un fiore d’aria, il ricordo» in Lungo la scogliera, p. 117, «Il desiderio, insonnia delle sillabe, / arsura dei pensieri» in Nozione dell’alba, p. 115) egli modula le diverse possibilità ritmico-linguistiche. L’amore per la lingua sta anche in queste modulazioni e variazioni ed esplorazioni. Il fatto che sia sempre una figura femminile a profilarsi (la madre o l’amata) torna a rafforzare l’idea che scrivere in poesia significhi coltivare la lingua materna in quanto trasmissione, lungo la linea del concepimento e della vita, di un saper dire il vivere e il vivente.
Lingua materna (o come lui stesso efficacemente scrive in nota «lingua prima») è per Prete sorgivamente il dialetto salentino di Copertino, La lengua, lu ientu dei tre testi in versi con i quali si chiude il libro:
nuegghie neure, sta chiànginu li pethre.
A’ n croce la spiranza cu lucesce,
l’angilu ti lu crai stae ‘n funnu a mmare. (Tempesta, p. 121)
[Turbina, pazzo, il vento in mezzo agli alberi,
nuvole nere, piangono le pietre.
Crocefissa la speranza dell’alba,
l’angelo del domani è in fondo al mare]