Giancarlo Gaeta: I due ultimi libri, nati dall’assemblaggio di interventi occasionali a partire dai primi anni Novanta, li ho costruiti intorno a due temi che si richiamano per contrasto. L’escatologia, in cui ho finito col riconoscere il tratto proprio della predicazione di Gesù e del primissimo cristianesimo, e il crescente stato di criticità attraversato dal cristianesimo nel corso del lungo quanto sterile confronto con la modernità. In questo si è compiutamente rivelato il danno provocato storicamente dall’abbandono della concezione escatologica intesa come ricapitolazione di tutta la storia chiamata a giudizio, sostituita sin dall’antichità da una concezione storico-salvifica che reintroduce l’idea di processo storico, finalizzato a un termine risolutivo che non agisce più sul presente. Il contrasto tra i due temi diventa evidente nell’ultima raccolta, In attesa del Regno, in cui ho anche cercato di dar conto di una criticità che ha investito contestualmente la modernità.
Più ci rifletto, più mi sembra che bisognerebbe andare a fondo di questo connubio, cristianesimo e modernità, inteso come esito di una storia bimillenaria, perché intorno a esso si incrociano una quantità di altre questioni. Bisognerebbe valutare il peso che nella storia del cristianesimo ha avuto il ridimensionamento, lo svuotamento, lo spostamento dell’escatologia, diventata altra cosa da come era stata non solo pensata, ma anche esistenzialmente vissuta da Gesù stesso e dalle prime espressioni di vita cristiana.
Non è difficile osservare che nella storia del cristianesimo c’è stato un primo punto di rottura che ha coinciso con l’orientamento a riappropriarsi della storia e quindi col convincimento di avere un fondamentale ruolo storico da svolgere. «Storico» nel senso pieno del termine, non più come all’inizio, quando l’atteggiamento dei cristiani era piuttosto di vivere in un tempo distinto rispetto a quello del puro processo storico. Di essere cioè testimoni e facitori di un’altra storia, che rendeva di per sé impossibile assumersi un ruolo dominante, non poteva esserci altro che un ruolo di testimonianza, di contraddizione, fallimentare agli occhi del mondo, emblematicamente rappresentato dalla croce.
C’è stata una frattura, un mutamento di enorme portata, come rileva a suo modo Carl Schmitt quando riconosce alla Chiesa medievale il merito di essersi proposta come potere ritardante l’escatologia, da lui intesa apocalitticamente come scontro con l’Anticristo, e di avere perciò preteso che le fosse riconosciuto un ruolo guida a garanzia della stabilità del mondo. È così che la chiesa cattolica avrebbe preparato la nascita del mondo moderno. In un certo senso questa visione è grandiosa, ha un fascino. Allo stato attuale delle cose mi sembra però che si debba constatare un esito drammatico su entrambi i fronti, sul fronte del Cristianesimo e sul fronte della civiltà occidentale.
Fabio Milana: Tu in che cosa riconosci, esattamente, la crisi del Cristianesimo e della modernità?
GG.: La crisi del Cristianesimo la vedo fondamentalmente nell’incapacità delle chiese tutte a costituire un luogo imprescindibile di riferimento. L’istituzione ecclesiastica non appare più in grado di consentire agli individui di collegare la vita religiosa a quella pratica, all’esistenza quotidiana. Anzi, potenzia la scissione, se da parte dei singoli sussiste ancora un’esigenza di ordine spirituale, trascendente. È un fenomeno che è in atto ormai da due secoli almeno, si vivono esistenze scisse: ciò che si vive nella sfera religiosa è contraddetto da ciò che si è costretti a vivere nel mondo, nella vita di tutti i giorni.
Ma questa scissione si manifesta anche nella vita civile, a prescindere che si sia credenti o meno, come statuto dell’esistenza, perché con la dimensione religiosa è entrato in crisi anche qualunque altro tipo di esperienza intellettuale, artistica, sociale che abbia di mira una concezione unitaria dell’individuo, una continuità esistenziale. Su tutto ciò che ha a che fare con l’esperienza della trascendenza opera un condizionamento sociale difficilmente superabile, ampiamente attestato dalle correnti artistiche contemporanee. In questo senso è stata per me emblematica la vicenda di Bruno Pinto, un pittore a cui sono stato molto legato. Pinto era convinto di dover restare fedele ad una cultura per la quale la funzione dell’artista era fondamentalmente spirituale, di ricerca, di messa in gioco di sé stessi e quindi in contrasto netto con la cultura dell’arte contemporanea. Il suo era un atteggiamento che nasceva dalla consapevolezza di essere partecipe di una lunga magnifica vicenda a cui si riferiva come a “l’antico corpo della pittura”. Una storia con cui era per lui vitale misurarsi; altrimenti sarebbe caduto in una dimensione mondana, puramente utilitaristica, funzionale a ciò che il mondo dei galleristi, delle correnti, delle avanguardie propongono come binari su cui scorrere per esistere in quanto artista.
FM.: Perché hai parlato di un caso esemplare?
GG.: Perché è un tipico esempio di fallimento generato dallo stato attuale del vivere.
FM.: Da lui vissuto, riconosciuto?
GG.: Sì, vissuto drammaticamente; alla fine con esiti anche piuttosto duri, aspri. Naturalmente nelle vite ci sono molte componenti che giocano, però il permanere, in uno come lui, dell’incompatibilità della propria concezione dell’arte col proprio tempo, è stato determinante.
FM.: Da qualche parte nel tuo libro accenni a questa crisi dell’istituzione come a qualcosa che è intervenuto a un certo punto nella tua vita, quasi ricordando un momento, una fase in cui l’istituzione era invece accogliente, sufficiente. È esistito per te un momento critico di passaggio, di presa di consapevolezza, o si è trattato di un fatto fisiologico, del necessario disincantamento delle passioni giovanili…
GG.: È una vicenda che ha avuto alcuni passaggi. Io sono stato educato fondamentalmente da mia madre, che non era credente e non aveva molta simpatia per i preti. Mi è capitato di scoprire il cattolicesimo da adolescente grazie a un giovane prete colto, intelligente, un musicista, che mi fece scoprire l’interiorità. In seguito non c’è stato un momento di frattura. C’è stata piuttosto una riflessione in cui la lettura intensa di alcuni autori ha svolto un ruolo importante, che mi ha condotto a seguire una via non lineare, con oscillazioni, ripensamenti. Ci sono stati momenti in cui ho avvertito una sorta di scissione tra il contenuto della fede cristiana e il modo con cui esso veniva detto, proposto.
Ricordo ad esempio un episodio: una domenica a Parigi, siamo nel 1970, andai a messa a Saint-Séverin; era una parrocchia nota per l’impegno nel rinnovamento conciliare. Durante l’omelia percepii che il modo con cui ci si esprimeva, si comunicava il contenuto di fede, non diceva la cosa; c’era un surplus di retorica che non andava dritto al punto, celava piuttosto l’incapacità ad aderire all’enunciato… Forse è da quel momento che le due dimensioni si sono allontanate, il cristianesimo su cui seguitavo a riflettere e a lavorare da storico, e d’altra parte la pratica ecclesiale che è andata perdendosi poco alla volta.
FM.: Dal tuo racconto sembra che sia stato proprio il Concilio un passaggio di dispersione.
GG.: Le primissime cose che ho scritto, a 18 o 19 anni, erano per il settimanale diocesano della cittadina in cui sono cresciuto. Io sono nato a Roma, ma quando ero bambino la mia famiglia si è trasferita a Fabriano, sono cresciuto lì e le mie prime cose le ho scritte appunto su quel giornale come cronache del Concilio. Di fatto, leggevo il quotidiano «L’Avvenire», allora diretto da Raniero La Valle, e altri giornali, e mettevo insieme le notizie. Il Concilio, se non altro per riflesso della grande novità e aspettativa, mi affascinava. Ma devo dire onestamente che la dimensione ecclesiale non è mai riuscita a prendermi, l’ho sempre sentita come estranea; mi interessava, ma l’ho sempre guardata dal di fuori. Senza malizia, proprio come stato d’animo, non mi ha mai emozionato.
Poi è venuta l’università, che ho frequentato a Roma, grazie a quel sacerdote, che mi fece ottenere l’alloggio gratuito presso uno studentato della Fuci (Federazione degli universitari cattolici). Fu una fortuna enorme; di colpo mi trovai a frequentare quella che era allora una delle maggiori facoltà di filosofia in Italia. Ebbene, ad un certo punto la presidenza nazionale della Fuci mi chiese se potevo dare una mano a gestire il loro foglio mensile, rimasto senza direttore. Per un anno ho svolto questa funzione, che mi metteva a diretto contatto con il vertice dell’organizzazione. Ma è finita male. In realtà non avevo capito fino in fondo dove stavo, la realtà politica in cui mi ero cacciato. Avendo in qualche modo una funzione dirigenziale, mi ero guardato attorno, ero andato in giro per l’Italia, avevo preso parte a dei convegni e mi ero reso conto che anche in quella gioventù cattolica impegnata c’era in quei primi anni sessanta tutto un fermento, c’era la volontà di prendere in mano le cose, di parlare in prima persona; ed io ho ingenuamente creduto di potermene fare portavoce. Ho dovuto prendere atto di non avere niente in comune con quell’apparato sotto il diretto controllo del clero.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, in definitiva il Concilio non ha significato molto per me. Se fossi stato più assennato avrei potuto sfruttare l’occasione che mi era stata offerta, ma ciò che avevo sperimentato non era l’aria nuova del Concilio, quanto il peso delle istituzioni. Ricordo una riunione di presidenza alla presenza di monsignor Costa, che si diceva fosse l’eminenza grigia di Paolo VI, in cui ebbi l’impressione di trovarmi in un comitato centrale, un luogo in cui si dicevano delle cose, ma si alludeva ad altro, su doppi e tripli livelli. Per me il rapporto con l’istituzione ecclesiastica è finito lì. Fortunatamente, per l’anno dopo un’amica mi fece ottenere una borsa di studio a Tubinga, dove rimasi per un anno e potei frequentare il seminario di Ernst Bloch.
FM.: I tuoi studi di storia del Cristianesimo?
GG.: Questa è ancora un’altra storia. Io mi sono laureato in filosofia nel 1968, ma prima ancora di laurearmi avevo conosciuto l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, fondato negli anni cinquanta da Dossetti. Me ne aveva parlato un compagno di studi a Roma; mi disse che offrivano delle borse di studio post-laurea. Quindi andai a parlare con Giuseppe Alberigo che dirigeva l’Istituto, raccontandogli qualcosa di me e degli studi che stavo facendo. Non pensavo che ne sarebbe venuto fuori qualcosa. Di fatto, però, Alberigo mi scrisse che era disposto a prendermi anche subito, anche prima della laurea; avrei potuto scrivere la tesi lì e se poi le cose fossero andate in un certo modo si sarebbe visto come proseguire. Lasciare Roma mi dispiacque, ma all’Istituto trovai un ambiente di studio straordinario: la biblioteca a disposizione, docenti di valore come Michele Ranchetti e Paolo Prodi, un gruppo affiatato di borsisti. Il clima ideale per un primo lavoro di ricerca. C’era l’idea, molto dossettiana, che bisognasse studiare con la stessa concentrazione e gli stessi tempi di un operaio in fabbrica, e a me non pesava, anzi accresceva il desiderio di imparare.
FM.: La tua tesi era su…? E con…?
GG.: La tesi è stata su Kierkegaard e l’ho sostenuta con Guido Calogero. Avrei voluto farla sul pensiero di Simone Weil, ma non me la fecero fare. Un assistente di Calogero sostenne che si trattava di una sociologa. Ma sono stato ugualmente contento di lavorare alla tesi su Kierkegaard con Calogero, che accolse la proposta di uno studio sul tema della comunicazione della verità e apprezzò molto il risultato.
Una volta laureato, successe una cosa del tutto imprevista. In realtà, avrei voluto restare a lavorare con Calogero, ma non c’era posto, lui non me lo poteva garantire. Alberigo, invece, mi chiese di restare all’Istituto: mi avrebbe rinnovato a tempo indeterminato la borsa di studio a condizione che entrassi in un loro progetto, suggerito da Dossetti; avrei dovuto applicarmi agli studi di Cristianesimo antico e in particolare di esegesi del Nuovo Testamento. L’alternativa era il concorso per insegnare a scuola; scelsi di restare e di fatto ho ricominciato da capo, mi sono specializzato in una disciplina che con la filosofia non aveva molto a che fare. Per fortuna mi mandarono a studiare non all’Istituto Biblico, ma all’estero. Dapprima alla Facoltà di Teologia protestante di Heidelberg, poi all’ École Pratique des Hautes Études di Parigi, dove potei studiare il Nuovo Testamento con Oscar Cullmann. Erano tutti docenti protestanti, quindi mi ritrovai a confrontarmi con l’ermeneutica biblica tedesca.
Questo passaggio indubbiamente mi ha segnato; da quel momento in certo senso sono diventato doppio, perché la formazione filosofica era stata la mia scelta e ha seguitato a operare. Il lavoro che avevo fatto su Kierkegaard mi aveva introdotto nella cultura europea del sette-ottocento, un mondo che mi affascinava. A questo si aggiunse la conoscenza del mondo antico, il primo Cristianesimo filtrato attraverso l’ermeneutica protestante, e dunque la questione controversa di come affrontare in modo rigorosamente filologico e storico studi che nel mondo cattolico seguitavano ad essere condizionati dai presupposti di fede e dal controllo ecclesiastico. Quindi mi sono trovato a tenere insieme due mondi distanti. D’altronde non sono stato il solo tra i borsisti a dover cambiare pelle. Ma forse questo mi ha salvaguardato dall’accademismo filosofico.
FM.: E anche esegetico.
GG.: Sì.
FM.: Quando si potrebbe considerare conclusa questa fase di formazione?
GG.: Direi con la pubblicazione del primo libro, Il dialogo con Nicodemo; uno studio iniziato con Cullmann, che mi aveva orientato sugli scritti giovannei, ma che ho continuato da solo, perché non riuscivo più a stare dentro la gabbia dell’esegesi tedesca. A Parigi avevo avvicinato lo strutturalismo, sentivo che avevo bisogno di qualcosa di più largo e certo agiva un po’ la formazione filosofica. Tornato a Bologna, ho lavorato a una lettura strutturalista del capitolo III del Vangelo di Giovanni, ma con tutti i crismi della ricerca storico-critica. Ne è venuta fuori un’applicazione critica del metodo strutturalista sotto la quale premeva l’insoddisfazione verso metodologie eccessivamente oggettivanti. In corso d’opera mi è stato chiesto di sottoporre il lavoro ad un controllo esterno, anche perché prima non avevo scritto una riga, neanche un articolo, niente. Alberigo ha pensato bene di far leggere il manoscritto a Ignace De la Potterie, che è stato uno studioso importante del Vangelo di Giovanni in ambito cattolico. De la Potterie stroncò l’impostazione del lavoro. Ancora ancora avrebbe accettato una lettura orientata sull’esegesi tedesca, ma così c’erano delle cose che proprio non gli andavano, né per l’impostazione né per i risultati esegetici. Mi ha fatto delle critiche anche puntuali, di cui in parte ho tenuto conto; ho rivisto alcune cose, poi ho chiuso e ho dato il manoscritto ad Alberigo, che si è ingegnato a cercare una via d’uscita. Non si è fidato a pubblicare il lavoro nella collana dell’Istituto, ma lo ha girato al direttore editoriale di Paideia, che non ebbe dubbi a pubblicarlo nella collana biblica. Restava però da vedere come il libro sarebbe stato accolto dalla critica, perché da questo dipendeva la mia permanenza all’Istituto. Si attesero le recensioni. A salvare la situazione fu padre Dupont, un benedettino, studioso del Nuovo Testamento, che faceva parte del comitato scientifico dell’Istituto. La sua recensione fu molto favorevole; dello studio apprezzò la novità dell’impostazione, anche se si discostava dal canone dell’esegesi corrente. Novità che fu apprezzata anche fuori d’Italia e persino in qualche seminario. Quello fu il passaggio, lì è finita la formazione.
FM.: In che anno siamo?
GG.: Nel 1974.
FM.: E il passaggio all’università?
GG.: Il passaggio all’università è avvenuto contestualmente, ho iniziato ad insegnare nel 1974 grazie ad un concorso che avevo fatto a Napoli un paio di anni prima, un concorso che serviva a normalizzare una situazione preesistente. Io ebbi soltanto l’abilitazione. Poi è arrivata una disposizione ministeriale, che consentiva l’immissione in ruolo anche a chi aveva l’abilitazione. Così ho scelto di fare da assistente a Ranchetti, che copriva la cattedra di Storia della Chiesa a Firenze.
FM.: “Scelto”, nel senso che te ne è stata offerta l’opportunità?
GG.: In linea di massima avrei dovuto restare a Napoli, perché avevo fatto il concorso lì, ma ho preferito chiedere a Ranchetti se era disposto a prendermi con sé. Lo avevo conosciuto all’Istituto per le Scienze Religiose.
FM.: Il suo “seminario Benjamin”, sulle Tesi, lo ricordi?
GG.: Sì, lo ricordo benissimo. È stato nei primi anni settanta, una cosa del tutto anomala nel quadro della programmazione dell’Istituto, interessato a tutt’altri temi. Non è certo un caso se nella Cronologia dei momenti che hanno scandito la vita dei primi cinquant’anni dell’Istituto, stilata da Alberigo, non si fa cenno alcuno a quel seminario. Immagino fosse stato programmato per dare spazio a Ranchetti, che rappresentava insieme a Prodi l’esigenza di non limitare gli interessi dell’Istituto a questioni tutte interne alla problematica ecclesiologica e con un taglio che giudicavano più ideologico che critico. Ne sarebbe seguito uno scontro durissimo di entrambi con Alberigo, che finì col coinvolgere anche i borsisti. Nel giro di pochi anni finirono con l’andarsene quasi tutti, compreso Pier Cesare Bori. La mia via di uscita fu il trasferimento per quasi due anni a Gerusalemme nel 1976 insieme con la famiglia. Ufficialmente per ragioni di studio, in realtà per sperimentare la difficile realtà della Palestina e partecipare un poco alla vita monastica di una delle comunità di Dossetti che si era insediata lì, tra Gerusalemme e Gerico.
FM.: Vuoi darci una testimonianza su Michele Ranchetti: lui, il suo mondo, il vostro rapporto?
GG.: Con lui ho lavorato per tanti anni, prima come assistente, poi come collega. Michele non si è mai preoccupato delle nostre carriere, né della mia né degli altri, tutto il rapporto è stato di intelligenza, di amicizia. Per me ha voluto dire moltissimo dal punto di vista editoriale, perché è stato grazie a lui che sono arrivato a Luciano Foà dell’Adelphi e ho potuto fare l’edizione dei Quaderni di Simone Weil; ed è grazie a lui che sono arrivato alla Einaudi e ho potuto curare l’edizione dei Vangeli. Quindi per me Michele è stato, malgrado alcune pesantezze, alcune difficoltà a gestire l’uomo, un contributo al non-accademismo, a sentire che la cultura è una cosa ampia, che si poteva anche viaggiare da Freud a Wittgenstein, da Wittgenstein a Lutero, da Lutero al modernismo e quant’altro, e che tutto questo poteva stare insieme e aveva una ragion d’essere entro la quale ci si doveva muovere con rigore senza perdere di vista il presente. Il suo è stato più un magistero indiretto che un magistero diretto. Dubito molto che i ragazzi capissero granché di quello che insegnava.
Massimo Cappitti: Forse non aveva una vocazione didattica.
GG.: No, non l’aveva. Inoltre, mano a mano che passavano le generazioni, gli studenti erano sempre meno preparati. È stato già difficile per noi dialogare con lui. Questo ha però avuto un riflesso positivo sui suoi collaboratori a vario titolo, come pure su una quantità di altre persone sia all’interno che al di fuori della facoltà. Persone che da lui hanno imparato tanto, proprio nel senso del come si interroga un testo e dei percorsi critici da seguire.
FM.: Sul piano religioso, era un interlocutore?
GG.: Questo era l’aspetto meno positivo di lui, quando toccavano questo campo, le discussioni tra di noi erano sempre del tipo: “Voi cosa ne pensate?”. Noi dicevamo delle cose, ma poi lui non diceva nulla. A volte reagiva violentemente insultando qualche malcapitato di cui si stava parlando. Ma in generale sembrava non volersi esporre, non voler mettere in gioco con gli altri le sue opinioni. Era come se desse ad intendere: “Sono troppo intelligente per dire quello che penso, vi ascolto, vi pongo delle domande per aiutarvi ad andare più a fondo”, ma difficilmente contribuiva di suo alla discussione.
FM.: Da chi pensi di essere stato più influenzato, stimolato, accompagnato? A parte la giovinezza, nel corso della vita qual è stato l’interlocutore più importante, o anche maestro, se vuoi.
GG.: L’unica persona con la quale ho mantenuto nel tempo un’interlocuzione è stato Pier Cesare Bori. L’ho conosciuto che era ancora prete e io frequentavo l’Università a Roma. Al pensionato della Fuci, lui veniva ogni tanto a dir messa. Poi l’ho ritrovato a Bologna, quando aveva abbandonato il sacerdozio. Alberigo gli aveva offerto una borsa all’Istituto e gli avrebbe consentito di ottenere rapidamente la cattedra. È stato importante anche perché ha rappresentato un modo singolare di pensare il religioso, di viverlo, di testimoniarlo. Diversamente da Ranchetti, si è esposto tutto, sempre, in modo molto chiaro, molto limpido. L’ho sentito come un punto di riferimento, come una presenza. Ma, per quanto singolare, l’unica maestra che ho avuto è stata Simone Weil.
FM.: Rispetto a lei, non hai avuto nessuna mediazione importante?
GG.: L’ho scoperta che ero ancora all’università, per caso. Nella libreria del pensionato c’erano le traduzioni di suoi libri; mi sono incuriosito un po’ dei testi politici. Poi è successa una cosa curiosa, un vero incontro di quelli che innamorano. Era il mio primo giorno all’Istituto bolognese. Avevo ottenuto la borsa di studio e il primo settembre del 1967 mi sono presentato. La biblioteca era vuota, gli altri erano ancora in vacanza, non sapevo cosa fare. Mi sono messo a girare per la biblioteca, non so come mi è venuta in mente Simone Weil e ho cercato i suoi libri per vedere cos’altro avesse scritto, non ne avevo idea… C’erano molte cose in francese tra le quali la prima edizione dei Cahiers, pubblicata negli anni cinquanta, assai malfatta. Ho tirato fuori quei tre volumi, ho cominciato a sfogliarli, ed è stato un colpo di fulmine, una cosa così non mi era mai successa. Fino a quel momento il mio filosofo per eccellenza era stato Kant. Stavo leggendo cose che filosoficamente mi sembravano straordinarie e non capivo perché non l’avessi mai sentita nominare all’Università, ero sorpreso. Ho immaginato di scrivere la tesi di laurea su di lei, ma non è stato così, e ho continuato a leggerla per conto mio fino al momento in cui qualche anno dopo ho espresso a Ranchetti il desiderio di tradurre quella massa di frammenti. Simone Weil ha costituito per me una sorta di filo conduttore. La maggior parte delle idee che ho maturato, dei temi che ho scelto e delle letture che ho fatto sono passati attraverso di lei.
(Pausa)
FM.: Tornando alla questione posta all’inizio: dunque tu questi duemila anni di Cristianesimo sei disposto a considerarli “come se non”? Davvero si tratta di ricominciare “dall’inizio”?
GG.: Ciò che mi sembra di poter dire, con tutte le cautele del caso, è che questa storia lunga duemila anni è giunta a un esito. Forse per come sono andate le cose era inevitabile, si poteva capire già un paio di secoli fa che il percorso si andava chiudendo. Dal Settecento la Chiesa Cattolica si è incaponita in duro confronto con la modernità per il potere sul sociale, quasi una battaglia mortale. Una vicenda drammatica, ma di una drammaticità da “fin de siècle”, di chi, senza averne consapevolezza, combatte una battaglia persa. Ma gli effetti di questo conflitto andrebbero valutati su tutti e due i versanti, perché vi si è consumato anche il destino dell’Europa. Tutte e due le parti alla fine si sono esaurite nelle loro potenzialità, è mancato il contributo che potevano continuare a dare rinnovandosi o ripensandosi. Intellettuali come Horkheimer, Adorno, Lukács, Husserl, Thomas Mann, si sono resi conto della portata della crisi europea, ma pochi hanno colto il nesso con la crisi del Cristianesimo. Lo ha fatto Simone Weil e da ultimo Michel De Certeau. E dunque anche le istituzioni culturali europee… che cosa sono diventate a causa di questo conflitto? Penso tuttavia che questo esito possa avere un versante positivo, non mi appare catastrofico, apocalittico. Una frattura storica apre sempre delle possibilità prima inimmaginabili. Parlando recentemente del libro all’università di Palermo, mi è venuto fatto di riferirmi agli intellettuali pagani tra secondo e quarto secolo: Celso, Porfirio, al loro stupore di fronte al cristianesimo; qualcosa di incomprensibile che sconvolgeva le basi stesse della loro cultura, qualcosa che non erano in grado di controllare. Hanno avuto la percezione che il loro mondo finiva e che le armi di cui disponevano per opporsi erano spuntate. C’era un nuovo soggetto storico che pretendeva ciò che per loro era del tutto assurdo. Adesso siamo forse in una situazione analoga o almeno similmente confusa, aperta a esiti difficilmente definibili.
Io giudico negativamente che il Cristianesimo abbia allora voluto prendere il posto dell’Impero, la ritengo una cosa assolutamente negativa per il Cristianesimo stesso, un controsenso. Ma comunque si è trattato di un passaggio decisivo, quasi un nuovo inizio, che ha significato la fine del Cristianesimo rivoluzionario di Paolo, e l’inizio di un’altra storia protrattasi fino ad ora, e che ora sta finendo. Le fratture sono occasioni che trovo feconde di ricominciamento, naturalmente non in assoluto, ma a certe condizioni: è necessario intanto averne piena coscienza, che vuol dire avere una coscienza storica abbastanza complessa, approfondita, articolata, la “vera coscienza storica” che Etty Hillesum riteneva indispensabile per far fronte al nazismo. Solo così si possono trovare gli elementi per un nuovo inizio.
Nella situazione attuale, almeno dal punto di vista cristiano, i dati di ripartenza possono essere soltanto del tutto iniziali. Il tentativo di Bergoglio di provare a riorientare le cose, può darsi che qualche risultato lo avrà, che qualcosa metterà in moto, ma finché esiste l’apparato istituzionale, che come pensava de Certeau non serve più, è autoreferenziale, e soprattutto finché persiste questo linguaggio, un linguaggio teologico scisso dalla vita dell’uomo comune, insomma tutto l’apparato costruito nei duemila anni, che di fatto condiziona tutto, sarà impossibile venirne fuori. Ma se si mettesse finalmente a confronto diretto questo linguaggio, di cui tutti siamo imbevuti, con il linguaggio del Nuovo Testamento, qualcosa succederebbe, perché non sono compatibili. C’è tutta un’apologetica che ha fatto di tutto per annullare la differenza, per assorbire tutto all’interno di un linguaggio artefatto, a cominciare dal divieto al Concilio di Trento di leggere la Bibbia in traduzione.
Questo per quanto riguarda il Cattolicesimo, ma anche per il Protestantesimo le cose sono andate sì diversamente, ma non meglio. C’è un’osservazione di Certeau che tocca un punto cruciale del progetto luterano: aver consentito ad ogni credente di leggere la Bibbia e interpretarla è stato di per sé un fatto positivo, che si è però convertito presto nella creazione di un’ermeneutica biblica, ovvero in procedimenti storico-critici che fanno del messaggio un oggetto scientifico. La potenza della parola si converte in un linguaggio altro, il linguaggio della scienza.
Di questo mi sono reso meglio conto quando ho scritto il commento ai Vangeli. Il commento presente nella edizione dei Millenni Einaudi è stato in fondo un tentativo di fare i conti con l’esegesi storico-critica. Ho attinto alla massa dei commenti prodotti nell’ultimo secolo dall’esegesi critica. L’operazione nel mio intento avrebbe dovuto portare a liberare quei testi dal cumulo di letture teologiche, morali, politiche che ce li rendono oramai ampiamente inintelligibili. Ma a cose fatte, mi sono reso conto che si trattava di un lavoro solo preliminare, che in realtà bisognava in qualche modo liberarsi anche di questo apparato scientifico, o meglio, farne un uso non ripiegato su se stesso, un uso creativo. Ci aveva provato Albert Schweitzer già all’inizio del Novecento senza trovare ascolto. Sul finire del secolo scorso Kolakowski non ha avuto difficoltà a misurare gli effetti negativi di un’esegesi scientista dei Vangeli sulla stessa cultura europea. In un saggio intitolato provocatoriamente Apologia di Gesù, lasciato incompiuto e pubblicato postumo, attaccava frontalmente l’esegesi critica tedesca, identificata con l’ideologia borghese, rea di aver trasformato la figura di Gesù in una realtà neutra, che non parla più. Mentre, dal suo punto di vista, prima che succedesse questo l’Europa era cresciuta grazie al mito di Gesù. La sua apologia voleva essere l’apologia del mito di Gesù, apologia per ciò che egli ha dato alla cultura europea prima che la scienza se ne impossessasse. Questo per dire che la crisi non concerne solo il cattolicesimo, siamo tutti dentro lo stesso calderone e sarà difficilissimo uscirne. Certeau immaginava che bisognasse ricominciare da piccole comunità, da gruppi nati spontaneamente in realtà specifiche in grado di ridare vita all’evangelo. Di certo occorre rigenerare il linguaggio, una rigenerazione di cui ha bisogno la cultura occidentale, non soltanto la comunità cristiana.
FM.: Quando fai questa diagnosi di fine, non temi di essere un po’ eurocentrico? Tieni conto dell’Africa, dell’America…?
GG.: È vero, la diagnosi riguarda esclusivamente l’Occidente, l’Europa specialmente e anche l’America del Nord. Certamente l’America Latina, l’Africa, forse anche parti dell’Asia rappresentano altri mondi che possono dare un contributo decisivo in altre direzioni. Anche perché forse, a questo punto, è tutto lo scacchiere geopolitico che è in movimento ed è inimmaginabile che cosa può succedere e succederà. Quindi la mia diagnosi, se tale è, è circoscritta.
FM.: E a proposito dell’“inizio”: quando, e in cosa, collochi precisamente la “svolta” che eclissa il primato dell’escatologia? Il rapporto coi destini dell’Occidente, su cui insisti, fa pensare al IV secolo…
GG.: No, nel IV secolo colloco il momento in cui il Cristianesimo prende piena coscienza di poter aspirare al potere. La frattura è avvenuta molto prima, al massimo a metà del II secolo. I primi sintomi di questo passaggio si trovano già negli scritti degli autori, soprattutto latini, che inizialmente si rivolgevano al potere imperiale in termini difensivi.
FM.: Gli apologisti…
GG.: Sì, penso a interventi apologetici come quelli di Tertulliano tra secondo e terzo secolo. Qui sta già venendo meno l’identificazione dell’Impero Romano con la Bestia irredimibile dell’Apocalisse giovannea. Quindi è durata poco la coscienza escatologica, e difficilmente avrebbe potuto durare man mano che si passava da una pluralità di piccole comunità indipendenti a realtà socialmente importanti tendenti a riconoscersi come un corpo unico.
Però è anche vero che, contemporaneamente, ci sono state correnti, gruppi, personalità che si sono variamente opposte alla ricerca di un riconoscimento da parte del potere imperiale. Anche il monachesimo, questo andarsene, uscire anche fisicamente dal contatto con il secolo, era ancora una testimonianza escatologica. Ma la cosa veramente difficile era restare nel secolo “come se non”.
FM.: Ecco, e secondo te questa adesso ritorna ad essere una possibilità.
GG.: Penso di sì, ma bisognerebbe avere la capacità di leggere gli scritti del Nuovo Testamento senza più l’apparato teologico-scientifico che ne condiziona la comprensione.
I brevi saggi esegetici raccolti in Il tempo della fine, originariamente scritti per un pubblico di cristiani comuni, sono almeno in parte dei tentativi di sottrarmi ai condizionamenti sia delle letture religiose o filosofico-religiose, sia dell’esegesi scientifica. Mi sono interrogato piuttosto sulla situazione di volta in volta rappresentata nei racconti dei vangeli sinottici, sul ruolo dei protagonisti e su cosa l’evangelista aveva inteso mettere in evidenza. Per esempio, a proposito del conflitto di Gesù con i Farisei nella rappresentazione di Marco ho dovuto constatare che obiettivamente i Farisei avevano le loro buone ragioni. In fondo pretendono da Gesù solo che dimostri di venire effettivamente da Dio. Non c’è solo il buono contro i cattivi, c’è qualcuno che afferma una pretesa incondizionata e altri che svolgono il loro ruolo di difensori dello status quo della religione. Questo obbliga a un arresto, occorre riflettere, capire più a fondo invece di arrestarsi all’ovvio della vulgata. È un modo corretto per cogliere a fondo il senso dello scontro. Quando provo a dire queste cose, vedo che le persone restano sconcertate. Però, se non si riesce a calarsi nella fattualità degli eventi così come possono essersi umanamente dati, e invece si applica immediatamente una precomprensione teologica, emozionale, ideologica, eccetera… ci si arresta ad una comprensione precostituita.
Così pure a proposito del rapporto di Gesù con i discepoli, quale emerge ad esempio nelle narrazioni dell’Ultima cena. In questo caso siamo indotti a collegare senz’altro le parole e i gesti di Gesù all’istituzione dell’eucarestia, ma se si prescinde da questa interpretazione codificata, si aprono altri scenari, più complessi, più articolati. Così, nel Vangelo di Luca il racconto inizia con una dichiarazione di Gesù ai discepoli che dà il tono a tutta la scena: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi prima della mia dipartita», e subito dopo passa ai discepoli la coppa col vino aggiungendo parole che non sono ancora quelle della consacrazione eucaristica, bensì: «Prendetela e dividetela fra voi; perché vi dico che d’ora in poi non berrò più del frutto della vite finché il regno di Dio non venga». È ben possibile che Luca abbia conservato traccia di uno stadio della tradizione del testo più antico, più prossimo allo svolgimento reale di quel pasto, in cui tutto l’accento era posto sull’intento di Gesù di partecipare ai discepoli che egli, nella situazione escatologica, si offriva in sacrificio in comunione con loro, legandoli così a sé. E dunque il sacrificio non sarebbe stato inteso in prima istanza per «la salvezza di molti», ma per rendere esplicito ai discepoli il significato radicale dell’annuncio escatologico, perché essi ne comprendessero davvero il significato e fossero a loro volta disponibili al sacrificio.
In altri termini, bisognerebbe confrontarsi con la realtà dei racconti nella loro complessità, compreso il punto di vista specifico degli evangelisti, o di Paolo. Perché a guardare da vicino questi scritti, il modo in cui sono modificate scene e parole ricevute…, si coglie chiaramente il lavoro di ciascun redattore sulla propria tradizione, come pure la ricerca di una comprensione più ampia dell’evento fondativo. È il caso in particolare di Paolo e dell’autore del Vangelo di Giovanni, che si sono posti la difficile questione di tenere insieme escatologia e cristologia. Forse questo è il punto critico: se, come scrive Paolo, si è convinti di essere alla fine, se egli invita a partecipare già a un’altra storia, a un altro tempo, la cristologia a cosa serve? Non c’è già tutto? L’annuncio è già completo e d’altronde è questo che ha predicato Gesù, nei Sinottici non si identifica esplicitamente neppure come Messia, tanto meno come figlio di Dio incarnato. E invece Paolo tiene insieme queste due cose: il convincimento assoluto, radicale, che il tempo mondano è finito, che il Regno viene già in questa generazione e, d’altra parte, la realtà trascendente di Gesù e la resurrezione di colui che dalla condizione divina si è fatto servo. Ma da dove nascono questi potenti convincimenti: l’Annuncio a Maria, il Prologo di Giovanni, l’affermazione radicale di Paolo circa la realtà storica della resurrezione: «Se Cristo non è risorto, allora…»? Michel de Certeau, ad esempio, ha colto nei racconti della resurrezione un passaggio illuminante: Maria Maddalena che sulla tomba vuota chiede al presunto giardiniere di restituirle il corpo di Gesù. Certeau pensa che il Cristianesimo sia nato da un desiderio amoroso così potente da vincere la morte. La potenza di un desiderio che genera la fede. Ecco, qui opera un immaginario concreto, pre-teologico, che vieta fughe speculative.
FM.: Tu scrivi che si tratta di mettersi nella prospettiva di quei primi discepoli, ciò che sembra contrastare un po’ quanto dicevi prima sulla “fattualità degli eventi così come possono essersi umanamente dati”…
GG.: Per me non c’è contraddizione. I fatti di cui disponiamo sono quelli vissuti e pensati dai tradenti; loro hanno fatto parlare i fatti e per farlo hanno dato vita a un nuovo linguaggio.
Nessuno di loro era stato testimone diretto. Si sono applicati a riflettere su ciò che hanno ricevuto, su racconti ricevuti, hanno fatta propria, come scrive Paolo, una testimonianza di fede. Questo esercizio iniziale ha poi generato tutta una cultura teologica che ha in buona parte oscurato il dinamismo iniziale. Occorrerebbe mettersi di nuovo in condizione di ascoltare quelle voci, quel linguaggio e di farlo a partire dalla nostra specifica condizione storica. Seguendo in questo l’insegnamento di tanti artisti che nel corso dei secoli si sono applicati a tradurre in immagini, parole e suoni quei racconti. Ad esempio il mirabile breve schizzo delle origini del cristianesimo di Anna Maria Ortese intitolato significativamente Cristo e il tempo; non le è sfuggito che per i Vangeli tempo e mondo sono sinonimi, e che il mondo è assoggettato a colui che è il contrario di Dio.
MC.: O comunque portare fino in fondo il nichilismo, portarlo all’estremo.
GG.: Negli scritti ultimi di Nietzsche c’è una quantità di cose irricevibili, ma nel fondo si sente vibrare un’esigenza di chiarezza. Intanto, l’intollerabilità dell’apparato teologico e pietistico creato attorno alla figura di Gesù, e poi l’incredibile storia della nascita provvidenziale del cristianesimo. Sì, occorre partire da un atto di pulizia; Simone Weil scrive che il cattolicesimo ha bisogno di una pulizia filosofica del linguaggio. Lo stesso vale, tra altri, per Bonhoeffer e per Certeau. Occorre ripartire da zero, cominciando coll’imparare ad ascoltare, se ci si vuol mettere in condizione di pensare non solo la fede cristiana, ma tutto ciò che è vitale per l’umanità, tutto ciò che ha a che fare con la trascendenza in tutti i campi.
MC.: In fondo, anche Dostoevskij avrebbe sottoscritto una visione di questo genere. Poi lui ha un’altra tradizione alle spalle…
FM.: Prova a commentare questa tua frase: «Oltre la porta non c’è niente; per questo s’implora, perché il mondo sappia di essere niente e smetta di voler essere qualcosa, perché “venga il tuo regno e sia fatta la sua volontà”. Che una parte anche piccola di noi resti immobile davanti alla porta e implori per sé e per il mondo di non essere, è tutta la fede che ci è consentita; la speranza è che la porta finirà, a causa della nostra insistenza, coll’aprirsi; la carità è poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tempo».
Per quanto si possa essere pii nei confronti della Chiesa e della storia, pii nel senso di rispettosi, se ci si pone di fronte all’evento senza pre-comprensioni, senza la dottrina, senza la morale, ciò di fronte a cui ci si potrebbe trovare è questo “non”, e scoprire che stare in questo nulla, amando questo nulla, è “la cosa stessa”… Non so quale forma di “debolezza del credere” più debole di questa si possa immaginare.
GG.: Questa immagine, che è quella di Kafka, ovviamente, l’ho fatta mia per esprimere l’incapacità mia di formulare in positivo la fede, la posso formulare solo in negativo, come un’attesa, una disposizione d’attesa. Non so fino a che punto ha a che fare con la fede in senso proprio, ma è quello che anche caratterialmente mi figura, cosa che mi ha anche creato molti problemi nella vita pratica, nei rapporti umani. Il sentimento che non bisogna forzare le cose in una direzione o in un’altra, attendere che la verità delle cose vissute si palesi.
FM.: Ma “se c’è già tutto”, come dicevi, e “l’annuncio è completo”, in che senso l’attesa, precisamente?
GG.: È l’ambivalenza della fede cristiana. Il “come se” di Paolo implica tutte e due le cose: il tempo è compiuto per il credente, ma non per il mondo in cui si seguita a vivere; l’attesa è nell’esperienza di questo contrasto insuperabile, un sentimento doloroso, una prova, ma anche certezza di una trascendenza. D’altra parte, come si vive cristianamente nel frattempo? La soteriologia e l’istituzione ecclesiastica sono apparse presto indispensabili a dare forma vivibile in questo frattempo. Ancora una contraddizione, positiva a meno che, come è accaduto, la soteriologia non oscuri l’escatologia. Simone Weil diceva che la contraddizione è indispensabile per afferrare la realtà, come i due bracci della tenaglia. Ma la contraddizione, da Parmenide in avanti, è stata tolta dal linguaggio filosofico e persino da quello teologico; il pensiero occidentale l’ha rifiutata. Quelle sconcertanti battaglie dei primi secoli in cui si è costruita la dogmatica cristiana, erano battaglie per eliminare la contraddizione per eccellenza, dell’uomo-Dio.
FM.: Quindi, a tuo avviso, non ci sono appigli “soteriologici” nella predicazione di Gesù.
GG.: A me non sembra. Penso al Gesù quale è più verosimilmente enucleabile dai vangeli sinottici, perché poi, quando interviene massicciamente la teologia giovannea siamo già in un’altra dimensione. Importantissima, ma è un’altra cosa. Anche se bisogna osservare che l’evangelista non ha espresso il suo pensiero teologico in forma diretta come Paolo, ma lo ha calato nello schema tradizionale della vita di Gesù. E nella sua vita di Gesù, l’escatologia c’è tutta, anzi è più radicale. Il teologo che avrebbe potuto eliminare l’escatologia, radica la sua soteriologia nell’escatologia, vale a dire nel nucleo stesso della predicazione di Gesù.
FM.: Altrove tu hai indicato in Matteo, 25 il passo che, più di ogni altro, colloca Gesù al di fuori di tutta la cultura religiosa che lo precede, ciò che gli sopravvive più chiaramente. Tuttavia, come si fa a tenere insieme Matteo, 25 con il rifiuto di essere di questo mondo, di avere delle istituzioni, dei soldi, del potere…
GG.: Non si può. Dal momento che l’istituzione si è imposta a questo livello, non più semplicemente come servizio, diciamo, ma come istituzione nel senso forte del termine, ciò che Gesù proclama non è più effettivamente realizzabile. Matteo, 25 è diventato un luogo tipico della predicazione in cui si invitano i cristiani ad essere caritatevoli, ad essere attenti agli altri, che va benissimo naturalmente, ma la radicalità escatologica dell’affermazione è svanita.
FM.: E come la si mantiene, invece? Tu parli a un certo punto di un’etica trascendente.
GG.: Intanto, si fa o non si fa. Come nel caso del discorso della montagna, per secoli la Chiesa ha predicato che quell’insegnamento era riservato a chi usciva dal mondo; chi vive nel mondo non è tenuto a seguirlo, diventano consigli evangelici da adattare alla prassi mondana. Ma che cosa succede se invece dalla prassi mondana ci si astiene moralmente, non si partecipa? Succede che lo sguardo sulla realtà, sulle persone, sulle situazioni, cambia, perché i calcoli cadono ed emerge la realtà di ciò che è in questione. Avete visto l’ultimo film di Tarkovskij, Sacrificio? L’idea centrale di quel film è la capacità di rinuncia a sé stessi, una rinuncia condotta all’estremo, il sacrificio appunto come condizione per lasciare un seme di bene al prossimo. C’è questo sentimento nella predicazione del primo Cristianesimo, che non ha nulla a che fare con lo spiritualismo. È la capacità di diventare specchio della società, la si vede per quella che è e insieme si desidera del bene per gli uomini. Se in questi duemila anni qualcosa è cambiato nel sentimento della vita; se in qualche misura ci si può ancora appellare al rispetto di ciascun essere umano in quanto tale, se possiamo ancora appellarci a un’idea di fratellanza, se è nata una cultura dei diritti umani, è perché c’è stato lo scarto introdotto dal cristianesimo.
FM.: Dunque tu sei per un’ascendenza cristiana della modernità.
GG.: Non c’è dubbio. Però il Cristianesimo non si esaurisce in questo. Ha svolto un compito positivo, in certo senso malgrado sé, malgrado ciò che era diventato.
FM.: E tuttavia oggi noi dovremmo considerare che “passa la figura di questo mondo”, dovremmo forse anche mettere in questione questa “cristiana” logica dei diritti.
GG.: Certamente occorre guardarla più a fondo, più di quanto normalmente non si faccia. Vale l’obiezione di Simone Weil, non parlare di diritti finché non ci si sente in obbligo verso i bisogni fisici e morali di tutti. Tutta la critica che lei, nelle prime pagine di La prima radice, rivolge alla dichiarazione dei diritti dell’89, è di radice cristiana. I diritti di per sé non si fondano su niente; lo dimostra il fatto che la rivendicazione di un diritto ha senso solo se si ha la forza per imporlo. È su questa logica che noi abbiamo costruito questo meraviglioso Occidente dei diritti, ma dei bisogni del resto del mondo non ce ne importa niente.
MC.: E tutta questa questione dello scandalo, del Cristianesimo come scandalo e follia. In una concezione di questo tipo, non subisce una specie di attenuazione, una sorta di riduzione a questione etica?
GG.: Sì, certo, è così; il Cristianesimo non scandalizza più nessuno… Lo scandalo è stato anestetizzato dall’istituzione, ed ecco che anche l’istituzione moralmente, socialmente, politicamente non conta più niente; dunque c’è speranza…
FM.: Tu conosci o pratichi una qualche dimensione collettiva, comunitaria, anche minima, di quelle che suggeriscono De Certeau e altri – che viva l’orientamento “neo-escatologico” di cui si è parlato?
GG.: No, non ne conosco, e non ho la disponibilità di Certeau a condividere quel che il tempo offre.
FM.: E quando, come di recente, prendi la parola in termini pubblici e “politici”, che cosa hai in mente – al di là da quello che dici, ovviamente?
GG.: Sì, ultimamente mi è capitato di provare a trasferire la riflessione su ciò che ne è del cristianesimo in termini politici o etico-politici. D’altronde ogni pensiero che si nutra in qualche misura della trascendenza è di per sé politico. In effetti è in siffatte circostanze, piuttosto che in quelle “religiose”, che sento di vivere un’esperienza comunitaria. Mi sento più a mio agio. In un contesto religioso so di dover superare una barriera che è anche linguistica; in un contesto laico quel che c’è di buono nella riflessione religiosa trova subito un’applicazione alla realtà sociale, e questo suscita attenzione, a volte sorpresa in chi ascolta. Forse si ha l’impressione che pezzi di discorsi sfatti ritrovino senso coerente, che qualcosa si rimetta in movimento e consenta di uscire in qualche misura dalla palude di linguaggi scontati.