Su Bilenchi editore
Luca Lenzini

Chiusasi nel 1956 l’esperienza del «Nuovo Corriere», sul finire degli anni Cinquanta Romano Bilenchi continuava il suo “secondo mestiere” come redattore della terza pagina della «Nazione»; intanto riscriveva il Conservatorio di Santa Teresa.1 Ed a partire dal ’58 – l’anno della nuova edizione dei Racconti –, fino al ’64, la direzione insieme a Mario Luzi della «Collana Narratori» per Lerici: un episodio laterale, considerato a fronte dell’impegno quotidiano nel «duro lavoro» di giornalista2 (e tanto più di quello, per lui quant’altri mai esigente, della scrittura letteraria), eppure di notevole spessore, sia per l’operazione editoriale in sé, siglata da proposte originali e dotata di una propria fisionomia culturale, sia come espressione della sintonia (e del fiuto) dei due amici, che si conoscevano e stimavano sin dal ’33.3 «Se ci stai tu ci sto anch’io», scriveva nel ’42 Luzi a Bilenchi,4 allorchè Elio Vittorini si rivolse a loro per un’antologia della «Voce» da fare con Bompiani (poi censurata dal regime fascista); e così dev’essere andata anche quando fu Aldo Rosselli a contattarli per l’impresa con Lerici:5 tutta all’insegna di una fiducia pressoché assoluta, collaudata da precedenti collaborazioni6 e rafforzata dallo scambio reciproco di insegnamenti e suggerimenti.

Fiducia, e sintonia, di cui non mancano le testimonianze. Nel ’72 Bilenchi, intervistato da Aldo Rosselli, dice di Luzi:

Abbiamo moltissimi interessi in comune e si può dire che non ho mai visto tra me e lui un giudizio diverso su qualcosa che valesse, sia un libro di poesia sia un libro di narrativa, sia un pittore sia anche un avvenimento politico. […] Per molti anni abbiamo diretto per Lerici una collana di narratori e mai c’è stata una diversità di pareri.7

Dal canto suo Luzi a Mario Specchio che gli cita la collaborazione per Lerici proprio come esempio della sintonia con l’amico, così risponde:

È vero, penso sia un po’ l’influsso che Bilenchi ha avuto su di me, perché ho imparato a leggere, in certo modo, le opere narrative anche per suo esempio, per suo ammaestramento; e lui anche avrà imparato da me a leggere in qualche modo i lirici, i tragici…8

L’esperienza dei «Narratori» si protrasse per cinque anni: quanto «Le silerchie» del Saggiatore curate da Debenedetti (stesso periodo: ’58-’63), e poco meno – per citare collane che non solo interessano zone cronologicamente contigue, ma che risultano omologhe per area e dimensioni – dei «Gettoni» di Vittorini (’51-’58) e del «Tornasole» (’62-’68) di Gallo e Sereni.9 Non si mancherà di notare che si tratta di anni, per quanto riguarda l’industria culturale italiana, di rapidi e profondi mutamenti, strettamente legati alla “modernizzazione” del paese (siamo in pieno boom), tali da ridisegnare la geografia del settore e le stesse strategie degli editori.10 Quale sia stato il ruolo di Lerici, e quanto tale editore abbia inciso in questo quadro, al di là dell’impresa dei «Narratori», è un punto che varrebbe la pena approfondire: un breve sguardo alla produzione complessiva di Lerici tra i ’50 ed i ’60 offre non pochi spunti d’interesse.11 Tuttavia al momento mancano le fonti prime per un’adeguata documentazione, e qui le mie osservazioni riguarderanno il profilo complessivo della collana e le singole proposte nel campo specifico della narrativa, territorio elettivo d’azione del promotore della collana, Romano Bilenchi.12

Dirigendo per Lerici una collana di narratori, Mario Luzi ed io non ci siamo messi in testa piani di produzione e neppure ce li saremmo posti se avessimo lavorato per una di queste fabbriche di libri che ormai sono diventate le cosiddette grandi case editrici. Prendiamo quello che ci sembra autentico, genuino, da qualsiasi parte venga. Oggi la vita è talmente poliedrica che nessuna corrente può arrogarsi il diritto di rappresentarla nel suo complesso.13

Sono parole del ’62 che si collocano nell’ambito di un discorso sul romanzo improntato all’insofferenza per le ricette e per la «corsa alla letteratura standard, alla letteratura-formula».14 Proiettata sul panorama contemporaneo, caratterizzato da istanze di aggiornamento non di rado frettoloso, l’ironica lucidità di Bilenchi appare più che legittima, e magari profetica:

C’è perfino chi cerca di dettare delle regole, chi pretende di far sorgere movimenti narrativi con un’articolo di giornale o una serie di articoli, con l’agitazione più intensa come se si trattasse di ottenere un aumento salariale. […] C’è aria di perpetui littoriali in giro […] E gli editori, dal loro punto di vista industriale, ne approfittano nel tentativo, stando à la page, di far quattrini, di imporsi».15

Dichiarazioni, queste, su cui sarà bene tornare. Ma riportiamone l’orizzonte alla nostra impresa, i «Narratori»: ebbene, anche qui le indicazioni risultano altrettanto chiare. Nelle parole di Bilenchi è implicito il richiamo all’esperienza, ma c’è soprattutto una netta rivendicazione d’indipendenza: una presa di distanza tanto da un’impostazione ideologica – questo il senso della dichiarazione sulla «poliedricità» della vita, in sintonia con molte altre consimili di Bilenchi16 – quanto dalle strategie promozionali delle “grandi case”, insomma dall’appiattimento del lavoro editoriale sul mero marketing, come oggi si direbbe. Senza dubbio, in effetti, in termini generali e con le ovvie distinzioni del caso, Luzi e Bilenchi operano all’interno di un modello di rapporto letteratura-industria che ha i suoi esempi più noti in personaggi come Vittorini, Bassani, Sereni, Calvino: meno pienamente inseriti di questi, forse, nell’industria culturale, anche per la progressiva emarginazione di Firenze nel quadro della produzione cultural-editoriale, forse anche per questo i due toscani furono in grado di esercitare un ruolo di talent-scouts e di lettori senza pregiudizi, fuori dagli schemi e dai condizionamenti.

Questi i dati della collana: trentadue titoli,17 sedici autori italiani (dei quali uno, Pizzuto, presente tre volte), quattordici stranieri; costi medio-bassi; formato di tipo tradizionale (21x13cm), in linea con la veste consentita all’editore dalla scelta di un sistema tipografico che, scrive Roberto Lerici a Bilenchi nel luglio ’59, «riduce i costi industriali pur dando un risultato dignitoso e di buon gusto».18 Quanto al titolo, «Collana Narratori», andrà aggiunto che non fu scelto dai direttori e anzi nemmeno dovette esser loro troppo gradito, se sempre Lerici, nella lettera ora citata, se ne dice dispiaciuto, negando la paternità.

Il terreno prescelto è quello della contemporaneità. Nel caso degli autori italiani, si tratta in maggioranza di esordienti, talora vincitori di premi letterari (per lo più locali) e titolari di racconti e articoli su rivista o giornale; ed a questo riguardo va sottolineato il ruolo del «Nuovo Corriere», capace non solo di ospitare scrittori e critici di accertato valore, ma anche di essere un vivaio-palestra di giovani alle prime armi. Alcuni di questi, secondo quanto è raccontato in Amici, furono segnalati da Bilenchi a Vittorini e poi pubblicati nei «Gettoni»:19 è il caso di Sergio Civinini,20 Angelo Ponsi,21 Mario La Cava,22 Giuseppe Bonaviri,23 Mario Tobino;24 e di Rolando Viani, esordiente nel ’56 con I ragazzi della spiaggia da Einaudi25 dopo aver pubblicato, come gli altri citati, numerosi racconti sul giornale diretto da Bilenchi tra il ’50 ed il ’56, presente nel ’60 ancora nei «Narratori» con Il mascalzone.

L’amicizia tra Bilenchi e Vittorini – e Luzi, s’intende – costituisce dunque un elemento da tener ben presente nell’esame di Bilenchi “editore”. Si rammenti che non solo per l’antologia della «Voce», ma anche per la continuazione del «Politecnico» Vittorini aveva pensato a Bilenchi,26 a conferma di una stima che investiva direttamente, oltre lo scrittore, l’intellettuale; a ben vedere, anzi, le radici, o i precedenti, di tutta un’area di narrativa comune a «Gettoni» e «Narratori» sono da individuare proprio in quella temperie (la “ricostruzione”): negli anni del «Politecnico», che a Bilenchi, pur parendo il periodico «più vivo del dopoguerra»,27 non piacque, ma del quale il «Nuovo Corriere» assunse, in realtà, una preziosa eredità proprio nella funzione di scoprire nuovi talenti.

La circolazione di autori tra le collane affonda in quel clima. Per questo, senza troppo forzare, la presentazione (non firmata) dei «Gettoni» nel Catalogo generale dell’Einaudi del ’56 potrebbe in buona parte valere anche per i «Narratori»: «due sono i motivi […] per cui un manoscritto può diventare un ‘gettone’: o la sua innocenza, e cioé la sua validità documentaria; oppure la forza, anche artificiosa, o bizzarra, ma comunque creativa, che l’autore dimostri di possedere attraverso le sue pagine».28 Validità documentaria, forza creativa: si prendano, da una parte, La masseria (n. 8, 1961) di Bufalari, «a mezza via tra il romanzo e il documentario», come ebbe a scrivere Montale;29 dall’altra, i racconti di Garroni (La macchia gialla: n. 25, 1962) o Nieri (L’estro armonico: n. 28, 1962), e si avranno esempi di opere che rientrano a buon titolo nella tipologia abbozzata dalla presentazione; per non parlare, quanto a forza creativa, di Antonio Pizzuto, che però con Signorina Rosina (n. 1, 1959), Si riparano bambole (n. 10, 1960) e Ravenna (n. 26, 1962) esige un diverso e più complesso discorso.

In prima battuta seguirò appunto, nell’esame della collana, la traccia bifronte offerta dal Vittorini in incognito del ’56; e per stare al primo versante, quello documentario, è allora da rilevare che a proposito del Destino di una contadina di Tolstoj, opera giovanile e inedita in Italia, nel ’60 Luzi scrive all’amico:

Ho letto il Tolstoj e mi ha molto preso. Lo pubblicherei senz’altro sia per la lettura della storia sia per l’interessante problema letterario che ne nasce […]. Penso che vada bene nella nostra collana: è un po’ la linea direttamente documentaria che abbiamo tracciato con la Bruck e in fondo anche col Bufalari.30

In effetti, se La masseria è «un’opera di fantasia e di esperienza» (così il risvolto), Chi ti ama così (n. 3, 1959) della Bruck, scrittrice ebrea nata in Ungheria destinata ad un lungo e importante percorso, è frutto del tempo delle deportazioni e dei campi di concentramento, tanto che per il libro si possono riprendere a buon diritto alcune osservazioni del ’53 di Niccolò Gallo dedicate proprio ai «Gettoni», e ricondurne l’opera a

quella forma intermedia fra narrazione e cronaca che parve nell’immediato dopoguerra il genere più atto a rivivere fatti di per sé eccezionali e che nei casi di maggior tensione e di maggiore umiltà letteraria diede libri come Le memorie di prigionia di Giampiero Carocci e Se questo è un uomo di Primo Levi.31

Ma anche altre opere si collocano in questa zona dei «Narratori»: ad esempio, leggendo Le isolane di Antonio Seccareccia (n. 14, 1960) si pensa subito a Sagapò di Renzo Biasion («Gettone» n. 22, 1953); e non casualmente, recensendo quel libro, Luigi Baldacci ebbe a scrivere: «qualche anno fa il […] libro avrebbe trovato ottima collocazione nei “Gettoni” di Vittorini».32 In quella recensione Baldacci di seguito aggiungeva che Le isolane «per la nuova collezione di Lerici ci sembra un po’ di scarso significato»:33 riserva da considerare emblematica per la linea documentaria dei «Narratori», che in sintesi poteva sì dar spazio a episodi ben validi – come i diari di Felix Hartlaub, Nell’occhio del tifone (n. 18, 1962; ripreso nel ’91 dalle edizioni Theoria, con il titolo Nella zona interdetta), ma che all’altezza degli anni Sessanta risultava in via di esaurimento e di tono retrospettivo a confronto del dibattito corrente. Lo stesso Vittorini, dal ’59, si era lanciato con il «Menabò» in tutt’altre avventure; e se le teorizzazioni del Nouveau roman o certo astratto precettismo di quegli anni suonano oggi velleitari e alla fine superficiali, nondimeno la riproposta di opere che evocavano un clima lontano, etichettabili sotto l’insegna del “neorealismo” o delle testimonianze, non era sufficiente a caratterizzare, di per sé, un’iniziativa tesa ad aprire nuove strade e a incidere nella produzione narrativa del tempo. Proprio Bilenchi, del resto, all’apparire del «Menabò», salutando con favore la nuova rivista di Vittorini, ebbe a osservare che «I “Gettoni”, con il loro avanguardismo e documentarismo non sempre criticamente plausibili, avevano negli ultimi tempi affievolito il loro mordente, erano scaduti di tono»;34 ed in fondo, l’originale e feconda apertura della collana di Lerici a opere di natura assai diversa – si veda per esempio Arrabal: Baal Babilonia, n. 6 – e l’attenzione alla letteratura ispano-americana, che è poi una costante in Bilenchi35 – attesta che quello “vittoriniano” (dirò così, alla svelta) era solo uno dei filoni presenti ai nostri “direttori”. Nella fedeltà alla linea-«Gettoni» è da scorgere anzitutto il segno di quell’attenzione per l’«autentico» ed il «genuino» che Bilenchi rivendicava nell’intervista del ’62: un segno di come l’arte non dovesse dimenticare (per lui come per Luzi) la dimensione sociale e collettiva, un suo fondamento etico. Se mai quella fedeltà varrà a dissipare dall’impresa ogni possibile aura o inflessione “ermetica” (o tanto meno da “prosa d’arte”), che magari le ascendenze fiorentine dei direttori della collana avrebbero potuto autorizzare, almeno agli occhi meno attenti: vale la pena rammentare, sia pure per inciso, che sono questi gli anni, per Luzi, delle tese e avvincenti composizioni di Nel magma, tutte confitte nel proprio tempo; e quanto a Bilenchi, quando nel ’72 romperà il silenzio con Il bottone di Stalingrado sarà animato dalla precisa intenzione di chiudere una partita, quella con la guerra e la Resistenza, che evidentemente continuava a proporgli stimoli artistici e memoriali.36

Per concludere con la costellazione «Politecnico» – «Il Nuovo Corriere» – «Gettoni» – «Narratori», allora, a conferire un segno positivo al bilancio di quest’area non è solo e non tanto la proposta di autori nuovi quanto la conferma di un irregolare, per esempio, come Rolando Viani, «un vero scrittore, ricchissimo di materiale umano» con le parole di Baldacci nella recensione al Mascalzone;37 e se alla luce del poi Viani non ha dato esiti all’altezza di quanto lasciavano sperare gli esordi,38 alla fine questo non riguarda la nostra storia. Riemergeva, con lui, assumendo venature liriche e “picaresche”,39 una linea toscana o meglio versiliese di sfondo anarchico che risale a Pea e a Lorenzo Viani; e quanto al libro, quell’accenno del risvolto del Mascalzone alla «condizione psicologica del ragazzo timido e spavaldo [che] si fonde a meraviglia con la condizione povera, precaria, di tutti i ragazzi usciti a forza o di necessità da ogni premurosa tutela», non può che rammentarci la sensibilità e la particolarissima prospettiva adolescenziale dell’autore di Anna e Bruno e del Conservatorio di Santa Teresa.

Ma è il momento di puntare i riflettori sul libro inaugurale della collana, quel memorabile n. 1: Signorina Rosina di Antonio Pizzuto. Approdato a Luzi e Bilenchi attraverso Sergio Solmi40 dopo una “protoedizione” uscita nel ’56 per i tipi di Macchia e passata inosservata, il romanzo trovò subito nella nuova edizione l’avallo di lettori d’eccezione: Luigi Baldacci in primo luogo, lo stesso Solmi, Ruggero Jacobbi, Paolo Milano; successivamente Gianfranco Contini e Cesare Segre.41 Basteranno questi nomi a chiarire come la scommessa di Bilenchi e Luzi si fondasse su una valutazione tutt’altro che estemporanea o azzardata: l’aver tenuto a battesimo il «primo romanziere d’avanguardia nella letteratura italiana del Novecento»42 costituisce anzi un punto di forza indelebile per il profilo complessivo dei «Narratori», e ne sottolinea ad un tempo il carattere aperto e sperimentale. Si veda, per intendere il senso di quest’avvio, l’affermazione dell’introduzione al volume (una pagina che nella collana svolge le funzioni del “risvolto”), in cui Signorina Rosina è definito

uno dei rari casi nei quali la profonda macerazione della materia vitale assurda e intricata come la percepisce la psiche moderna si è tradotta completamente in stile; e quando diciamo stile intendiamo usare questo termine nel suo significato assoluto, di interpretazione e di espressione di vita.

Se vogliamo, è qui una specie di manifesto per la collana, l’equivalente di un’editoriale di rivista in forma di critica in atto. Certo: si trattava di una «scelta felicissima, ma anche impegnativa»43 per una collana di narrativa, dato il livello qualitativo dell’esordio. Rischiosa, anche: è vero, infatti, che non mancavano gli ingredienti per creare un “caso Pizzuto” – un autore che aveva oltre sessant’anni e per tutta la vita aveva fatto il funzionario di pubblica sicurezza, e ora si mostrava «scrittore di straordinaria – e subito evidente – preparazione umanistica, linguista capriccioso e ricco quanto un Gadda»;44 nondimeno sia Signorina Rosina, sia Si riparano bambole – altrettanto ben accolto del primo – erano libri di non facile assorbimento da parte del pubblico,45 e nonostante il successo iniziale sono di fatto rimasti testi per una ristretta cerchia di lettori, come poi il resto della produzione di Pizzuto, se un’edizione delle Opere complete di questo scrittore da parte del Saggiatore, avviata nel ’72, si sarebbe rivelata, ha scritto Alberto Cadioli, «un vero azzardo».46

Non è questa, però, la sede per ricostruire la storia della ricezione di Pizzuto, che a partire da Ravenna sembrò deludere anche i suoi più convinti sostenitori:47 interessante, semmai, è accennare – sia pure in ipotesi, e per sommi capi – a come il solitario exploit dello scrittore siciliano proposto nei «Narratori», definito da Paolo Milano «il Pollock della narrativa», s’inserisse nel dibattito critico contemporaneo, che al giro di boa tra la fine degli ’50 ed i primi ’60 segnava una netta svolta. Erano lontani i tempi delle discussioni sul “metellismo”: ne fornisce la prova più significativa l’Inchiesta sulle nuove tecniche narrative promossa dal «Verri» nel ’60, che dette luogo ad una serie di interventi al cui centro focale erano il nouveau roman e l’école du regard (i nomi di Robbe-Grillet, Butor e Sarraute vi tengono banco). Ma tutto il numero del «verri», non solo l’inchiesta, in realtà, è caratterizzato da una vivace quanto a volte astratta polemica antinaturalistica, quale troverà la sua espressione organica ed organizzata nel Gruppo 63 (figurano nel fascicolo alcuni dei principali promotori, come Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Alfredo Giuliani): e tuttavia, a veder bene, il coro non era unanime, se scorrendo le differenti opinioni di quel dibattito si trova, anche, che Sergio Solmi vi opponeva «il carattere che oggi suole denominarsi ‘sperimentalistico’, e che consiste, essenzialmente, in un prevalere dell’intenzione e del programma» al «caso a sè, e genuino» di Pizzuto, per l’appunto, in cui riconosceva, invece, «un laborioso ‘distillato’ narrativo che tien conto, in modo molto raccolto e personale, di certe esperienze moderne».48 Non solo: in chiusura ad un intervento anch’esso controcorrente, Luigi Baldacci riprendeva un’ammonizione di Lukács rivolta ai critici marxisti secondo cui il «cosiddetto realismo borghese ha molta importanza attuale per l’ulteriore fecondo sviluppo dello stile letterario presente»; ed aggiungeva: «È questa la direzione più difficilmente documentabile; ma pensiamo al caso assai importante di Antonio Pizzuto con Signorina Rosina».49

All’indomani della pubblicazione del romanzo di Pizzuto, si rammenti, lo stesso critico aveva parlato dello scrittore siciliano come di «un eversore innamorato, un radiografo senza misericordia e un poeta elegiaco al tempo stesso», e indicato come la sottrazione del romanzo «alla misura classica del tempo» non escludesse la «sottesa forza realistica della sua prosa»:50 punto di vista, questo, in cui è dato cogliere una prospettiva prossima a quello di Solmi, ed in cui è messo in gioco un rapporto tradizione/innovazione incompatibile, a veder bene, con quello dei neo-sperimentali. Proprio la contrapposizione tra sperimentalismo di programma e eversione innamoratasi tocca un punto che se da una parte investe implicitamente la sensibilità di un autore come Bilenchi, dall’altra aiuta a mettere a fuoco il significato della scommessa critica su Pizzuto, divaricandone l’orientamento di fondo dal nuovo clima, in cui la sperimentazione linguistico-formale si nutre di tutt’altri orizzonti teorici. Il nesso posto in luce in Pizzuto, ed apprezzato, da lettori come Solmi o Baldacci, immuni tanto da infatuazioni scientiste quanto da letture ideologizzanti ed ancor meno da ansie d’aggiornamento, è per l’appunto con la tradizione del Moderno (sintetizzato nel ricorrente nome di Joyce): nesso che si esprime sì in forme sperimentali, ma non può prescindere da un fondamento soggettivo, cioè umano e storico (e anche “borghese”), in cui gli elementi nichilistici e tragici di discendenza romantica, propri delle avanguardie storiche, anziché essere un dato imposto all’opera dall’esterno come un quod erat demostrandum, o ridotti a moduli formali (mera “tecnica”), sono per dir così rivissuti in prima persona, espressione sofferta di un’esperienza di scacco individuale. «La dichiarazione di sfiducia nel romanzo significa anche sfiducia nel fatto stesso dell’esistere»:51 così sintetizza Baldacci, parlando di Signorina Rosina; e la definizione di stile data da Bilenchi e Luzi potrebbe leggersi in sintonia con questa posizione critica. Ma è una posizione, questa, al momento minoritaria: non in linea né con i seguaci (o reduci) del “populismo”, né con il nuovismo della neoavanguardia, la cui force de frappe poteva contare su tutta una serie di rincalzi teorici e solidarietà editorial-accademiche che non mancavano d’efficacia.52 Del resto, spostando di poco lo sguardo, non si può dire che anche il dibattito promosso, in quello stesso giro di anni, dal «Menabò» di Vittorini (n. 4 e 5 del ’61 e ’62) sul tema Industria e letteratura, pur così stimolante per il confronto tra diversi orientamenti ed assai istruttivo sul piano delle “poetiche” (vedi Calvino), fosse poi confortato da testi all’altezza dell’intento vittoriniano di svecchiare la letteratura italiana contemporanea ed a farla partecipe dei mutamenti in corso nel paese.53 Anzi, alla fine la questione dei rapporti scrittura/realtà, in quelle pagine, veniva affrontata, da Vittorini per primo, secondo una prospettiva molto semplificata, legittimando il sospetto di un ingenuo «progressismo letterario» – per citare l’intervento di gran lunga più lucido dell’intero lotto54 – che prestava facile sponda alle istanze neo-avanguardistiche meno convincenti. In questo quadro la posizione defilata di Luzi e Bilenchi, quale si concretizza nella linea editoriale dei «Narratori», magari non sarà stata un merito solo personale, ma consentiva sicuramente uno sguardo più libero e aperto, tale da poter accogliere novità non accompagnate dal battage di dichiarazioni teoriche e relativi fuochi di sbarramento in auge all’epoca: ed ecco che nel “caso Pizzuto” si può intuire, come in controluce, un’ipotesi, una tendenza recepita in progress da parte della critica più avvertita e lungimirante – una terza via, si può forse ipotizzare, tra l’opzione neorealista, ormai esauritasi, e le nuove tendenze vuoi dell'”antiromanzo”, vuoi della “letteratura industriale”.

Con il primo volume dei «Narratori», insomma, Pizzuto entra in pieno nel vivo conflitto delle tendenze e degli schieramenti che contrassegna il momento storico di passaggio dal dopoguerra agli anni boom; vi entra e ne esce, si direbbe, con tanto tempismo che si è tentati di identificare in Signorina Rosina una linea destinata esemplarmente a vita breve, non solo per l’essere Pizzuto per sua natura un outsider,55 sprovvisto dell’aura “tecnologica” che ne avrebbe facilitato la cooptazione alle strategie d’équipe, ma per lo stesso schematismo delle posizioni in campo, proporzionale alla maggiore influenza dei promotori dei «perpetui littoriali» di cui sopra e delle maggiori case editrici. Non è tanto il fragoroso ingresso in scena della neoavanguardia, infine, a segnare il discrimine storico, quanto la dialettica che s’instaura tra il “best-seller all’italiana” (l’opera “di qualità”, secondo l’espressione di Ferretti)56 e lo sperimentalismo avanguardista; dialettica i cui due termini sono ovviamente antagonisti, ma in cui ognuno presuppone l’altro entro uno scenario organico; “prodotti” in qualche modo speculari del processo di massificazione in atto.57 Se poi si pensa che il titolo di apertura, nel ’58, della collana di narrativa Feltrinelli diretta da Bassani era stato Il soldato di Cassola, cioé l’opera di un autore già affermato e di lì a poco artefice di uno dei maggiori successi editoriali nostrani (La ragazza di Bube), e che nel marzo ’62 il «Tornasole» di Mondadori aprirà con Avventure in città di Strati e Il piatto piange di Piero Chiara,58 il carattere innovativo ed originale dell’esordio dei «Narratori» risulta evidente.

Sarà un caso, ma per tornare ai casi nostri, sempre nell’Inchiesta del «Verri» spunta anche il secondo titolo della collana di Lerici: Bellarmino e Apollonio di Pérez de Ayala. È Giuliano Gramigna a chiamarlo in causa, in chiusa al proprio intervento, e di nuovo si tratta di una citazione da porre in dialettica con le proposte del nouveau roman (ed annessi ideologici). La «dichiarazione di fede» del critico «nell’importanza delle tecniche narrative», infatti, è volta soltanto a «sottolinearne le offerte», non «l’eccellenza della tecnica dell’antiromanzo»;59 ed ecco subito, tra parentesi, il suggerimento di Gramigna: «in materia di antiromanzo si vada a rileggere, per vedere che tutto e nulla è nuovo, nella recentissima traduzione, quel testo eccezionale che è Bellarmino e Apollonio».60

Suggerimento polemico, oltre che calibrato: il capolavoro di Pérez de Ayala è del ’21,61 ed appartiene di diritto – per quanto ancora poco noto da noi, se non tra gli specialisti – al filone più nobile della tradizione moderna. Si legge nel risvolto del volume:

l’acquisizione al moderno della tragedia dell’inadattabilità, che è poi la stessa tragedia di Don Chisciotte, esigeva l’intelletto esercitato, limpido, europeo dell’artista perfetto e del saggista acuto e originale che è Perez de Ayala. Al quale come ai più grandi scrittori di questo secolo la superstizione del romanzo quale genere letterario non lega certo le mani e tanto meno lega la libertà inventiva. La forza di corrosione antiretorica gli dà anzi una ricchezza di risorse a cui la felicità del suo ingegno fa superare il limite dell’espediente e divenire pienezza narrativa.

Discorso che, nei suoi termini di fondo, potrebbe valere anche per un altro capolavoro della letteratura europea riproposto nei «Narratori», The good soldier di Ford Madox Ford, del ’14 (n. 5, 1960) di cui recentemente si è potuto parlare come di un «miracoloso esempio di sperimentazione» che mette in opera «tutto ciò che sarebbe stato in seguito ragionato dalla riflessione teorica».62

A questa zona di autori, si direbbe oggi, “di culto”, i «Narratori» paiono affidare un preciso richiamo alla tradizione moderna del romanzo europeo: a controprova di una loro appartata militanza distante sia dall’oltranzismo sperimentale, sia dal prodotto di consumo – ovvero la «letteratura standard», frutto dell’«industrializzazione della narrativa» a cui si riferisce Bilenchi nell’intervista di «Quaderni milanesi» del ’62 citata in apertura.63 In quell’intervista, si noti bene, erano nominati tanto il libro di Madox Ford che quello di Pérez de Ayala, all’interno di un lungo elenco di romanzi che ha lo scopo di contestare alla radice l’idea della «crisi del romanzo in quanto genere letterario».64 Ed a testimoni della propria idea di “crisi” («finite le società volte a risolvere collettivamente determinati problemi […] l’artista si è trovato a dover affrontare individualmente, da sé solo, come se precedentemente nulla fosse stato fatto, come se tutto nascesse ora, la nozione stessa di vita in sé e nelle sue relazioni») Bilenchi cita Proust, Joyce, Kafka, Musil, Hemingway, Salinger, Babel (e numerosi altri autori novecenteschi), per poi affermare recisamente: «Io non posso riconoscere che questa modernità»; tuttavia specificando: «Ma quando vado a leggere questi libri non riesco ad accettare che tutto venga accentrato sulla tecnica».65 In quelle opere, chiede Bilenchi, «che cosa contano i personaggi, l’intreccio, lo svolgimento?»; e la risposta denuncia tanto la posizione polemica nei confronti del rozzo antinaturalismo di tanti fautori della “crisi”, quanto il punto di aggregazione della folta schiera di opere citate:

La loro durata nel tempo si raccomanda piuttosto alla poesia, alla concezione del mondo dei loro autori. Io temo che, quando si parla di romanzo tradizionale e convenzionale, ci si lasci trascinare da una concezione statica del romanzo, dall’influenza che ha ancora su certuni il romanzo naturalista, o addirittura dall’idea che il romanzo sia quello di Ottavio Feuillet e di Giorgio Ohnet.66

Si potrebbe dire, appena forzando le parole di Bilenchi, che non esiste crisi del romanzo perché il romanzo moderno e la crisi fanno tutt’uno (e questo nel soggetto). Lungi da alimentare sospetti di eclettismo o di passioni snobisticamente retrospettive, pertanto, i testi di Perez de Ayala e Madox Ford stanno nella lista dei «Narratori» come a tracciare un perimetro di esperienze per nulla archiviate: indicano piuttosto una genealogia europea che sullo sfondo di Signorina Rosina sembra inserire il testo contemporaneo in una lignée di outsiders eccellenti. Quanto ai nomi più illustri presenti nella collana, essi si collocano su un altro piano: la riproposta dei russi, in particolare, varrà come rinvio a scrittori in cui l’espressione artistica è inseparabile dal forte spessore umano ed etico, entro coordinate più personali: è il caso (esemplare) di Tolstoj, presente non solo con il Destino di una contadina, ma anche nelle memorie di Victor Lebrun (Devoto a Tolstoj, n. 31, 1963), e dell’amatissimo Cechov («mi sembra di discendere da Cechov»),67 oggetto dei ricordi di Lidjia Avilova (Cechov nella mia vita, n. 12, 1960).

Tornando ora al filone nostrano della collana, altri titoli meritano di essere ricordati. Scontata la difficoltà a mantenere il livello stilistico e di novità di Signorina Rosina, vanno segnalati il buon esordio di Mario Picchi68 con Roma di giorno (n. 4, 1960) e quello di Emilio Garroni con La macchia gialla (n. 25, 1962); mentre un discorso diverso riguarda Ippolita di Denti di Pirajno (n. 11, 1960), un romanzo che – a differenza di quelli ora citati – per l’impianto tradizionale evoca naturalmente quel Gattopardo che, appena due anni prima, aveva creato un “caso” di larghissima risonanza69 e raggiunto rapidamente un ampio pubblico. Ippolita – come del resto Un giorno della vita di Giorgio Orelli (n. 13) – ottenne un premio minore, riscotendo un discreto successo; e un osservatore di spicco come Montale, in un’ampia recensione sul «Corriere della Sera», sia pure con molti distinguo e non poche riserve, accettava, alla fine, l’invito del risvolto a leggere il libro come «opera buffa», concludendo:

esistono melodrammi, […] che pur essendo zoppicanti da vari lati continuano a vivere e a farsi ascoltare in virtù di qualche scena o episodio di alta ispirazione. Ippolita può essere uno di questi melodrammi. Non è poco, se pensiamo a troppi romanzi d’oggi, che sembrano perfetti, eppure non lasciano traccia nel ricordo e ci fanno rimpiangere il tempo perduto nell’inutile lettura.70

Ma il libro che conferma, ce ne fosse bisogno, le qualità di Bilenchi lettore-editore è di altro genere, e si colloca quasi in chiusura di collana. Si tratta del n. 29 (1963): Un caso di coscienza di Angelo Fiore. Per raccontare la vicenda del libro (che ci conduce anche in prossimità della fine dei nostri «Narratori») lascerò la parola a Bilenchi, il quale ebbe a raccontarla a oltre vent’anni distanza, nell’87.

Nel 1961-62 da Urbino mi arrivò un grosso pacco il quale conteneva quattro dattiloscritti di uno scrittore che mi era ignoto: Angelo Fiore. Si trattava di un volume di racconti e di tre romanzi accompagnati da una lettera di Massolo che mi diceva: ‘Ho un amico in Sicilia […] che ha scritto questi libri, mi prega di leggerli e farli leggere per avere un giudizio serio e sincero sulle sue qualità di scrittore […]’. Incuriosito lessi i racconti e i romanzi di Fiore. Il mo giudizio fu positivo. Le opere di Fiore mi interessarono molto e mi sembrò di trovarmi dinanzi a un grande scrittore italiano del momento. Un siciliano che rifiutava tutti i tradizionali contenuti della sua terra. Anche gli scrittori che lo avevano interessato erano piuttosto un Cecov, un Dostoevskij o un Tozzi – dai quali però non dipendeva per nulla – che quelli siciliani, anche i più grandi. […] Siccome gli editori italiani storcevano e storcono la bocca a pubblicare libri di racconti, soprattutto se di autori sconosciuti, Luzi e io decidemmo di iniziare proprio col libro di racconti, Un caso di coscienza, che uscì nel ’63. Non potemmo pubblicare i romanzi perché Lerici cessò la sua attività. Li passai a Pampaloni, allora direttore della Vallecchi, spiegandogli quello che ne pensavo e raccomandandogli di pubblicarli; e Geno li pubblicò, convinto della validità dei tre romanzi. Così Angelo Fiore fu consegnato al pubblico italiano. Purtroppo non ebbe il successo che si meritava e si merita, ma io, anche se Fiore – per sua fortuna – è uno scrittore profondo e difficile, sono convinto che la sua grandezza gli sarà riconosciuta.71

Gli autori nominati da Bilenchi, tutti a lui carissimi, sono quelli che poi la critica ha sanzionato come principali ascendenti dello scrittore siciliano; il riconoscimento del suo valore, invece, è sinora mancato. Basti notare come Fiore fosse presente, nel ’73, nel Dizionario della letteratura italiana edito da Vallecchi come «una delle voci originali della narrativa italiana»,72 mentre nel successivo Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento curato da Enrico Ghidetti e Giorgio Luti73 se ne perdevano le tracce;74 eppure non solo Geno Pampaloni, anche Luigi Baldacci75 aveva scorto in Fiore un narratore vero e di nobile lignée. Ma si sa: non basta il talento per entrare nel Parnaso; e forse quel suo essere scrittore «post-surrealista dotato di fantasia metafisica», come lo definisce il Dizionario Vallecchi,76 probabilmente non era un buon lasciapassare per le patrie lettere. Va a onore della collana di Lerici, in ogni caso, averlo tenuto a battesimo; e piace ricordare che in coda ad un suo lucido panorama sulla narrativa di quel periodo, il critico che sin qui ci ha fornito i più sicuri appoggi per l’analisi della collana, Luigi Baldacci, menzionasse come scrittori su cui «tenere un discorso a parte» proprio due autori che avevano esordito da Lerici: Angelo Fiore, appunto, e Antonio Pizzuto.

Scriveva Baldacci del Supplente e del Lavoratore, i due romanzi passati da Bilenchi a Vallecchi,77 nel ’69:

Libri che pochi conoscono: Fiore non abita a Roma e non fa tante altre cose che gli altri fanno: eppure è un narratore di prima grandezza: molto moderno, come tutte le cose che hanno l’impronta della novità originale (cioé, non gratuita).78

Dopo la pubblicazione del libro di Bufalari (La decimazione, n. 32) cessa la responsabilità diretta di Bilenchi e Luzi sulla collana di Lerici, che nondimeno per qualche uscita mantenne il nome dei due direttori prima di chiudere definitivamente (il loro contratto con l’editore spirava nel marzo ’64). È da sottolineare peraltro che la consulenza di Bilenchi non si era limitata all’ambito dei «Narratori», come testimoniano la corrispondenza con Mario Materassi per Call it sleep di Henry Roth79 – altro capolavoro la cui importanza è stata compresa a distanza di anni – ed altri carteggi relativi a testi o traduzioni di opere che per dimensioni o genere esulavano dal programma della collana;80 né va dimenticato un altro aspetto del lavoro editoriale, quello della curatela delle introduzioni, che costituisce un interessante campo d’indagine e di verifica delle strategie dei direttori e del taglio delle loro letture.81 Anche qui, come si è visto per il caso di Viani, non manca talora l’impronta di Bilenchi; ma nel complesso si tratta di note informative in cui, a confronto di certo estro ammiccante e suggestivo tipico dell’industria culturale, prevale l’attitudine di servizio (vi si avverte la collaudata esperienza del sobrio artefice del «Nuovo Corriere» e di «Società»).

Non vorrei però concludere questi appunti, per quanto parziali, senza accennare ad una qualità di Bilenchi “editore” che risulta evidente a chi ne sfogli i carteggi con gli autori. Se sul piano culturale lo scrittore appare in famiglia con i suoi coetanei Vittorini, Sereni o Pavese, la personalità di Bilenchi emerge con nettezza nei consigli agli autori: in genere tutt’altro che prolifico nei suoi rapporti epistolari, non per questo egli non è prodigo di suggerimenti e di consigli capaci di toccare direttamente, con i propri interlocutori, i punti salienti del lavoro letterario. «È raro, ed è una fortuna, avere consigli ed aiuti da persone del Suo valore e di quello di Luzi», gli scrive Guiscardo Nieri nel ’62 ringraziando per i tagli e le correzioni apportate al suo Estro armonico;82 e Rolando Viani, a proposito del Mascalzone:83 «Mi ricordo sempre le cose che mi hai consigliato. Quello che mi dispiace è non avere un tuo libro di saggi critici, cosa che dovresti fare al più presto. Parlo per egoismo». Ma il documento più eloquente del nitido spessore umano del nostro editore è fornito dalle lettere a Garroni,84 il cui arco si prolunga ben oltre la pubblicazione della Macchia gialla: un’amicizia a distanza che, tra incontri mancati e e silenziose svolte del destino, ci sorprende come fosse un ritratto dal vivo di Bilenchi, autentico e schietto.85 In una delle prime lettere di Garroni se ne coglie il riflesso:

Non me lo sarei aspettato tanto calore, e tanta incoraggiante simpatia, da parte di un ‘selvaggio’ e di un ‘taciturno’ (così mi aspettavo che foste). Ma ancora meno mi sarei immaginato tanta sollecitudine e tanta puntuale attenzione verso i prodotti di uno sconosciuto che si mette in testa di scrivere: avevo sempre pensato che i direttori di collane di narrativa svolgessero un po’ burocraticamente e non senza un’ombra di disprezzo il loro lavoro.86

Ed è con queste parole, testimonianza non secondaria di un ethos personale e culturale sempre più raro,87 che è opportuno concludere queste note.

Appendice: I «Narratori» Lerici

1) ANTONIO PIZZUTO, Signorina Rosina, Milano, Lerici editori, 1959; pp. 148; cm. 22×13; stampato presso la sezione grafica del Centro Studi Lerici di Milano.

2) RAMÓN PÉREZ DE AYALA, Bellarmino e Apollonio, traduzione di Angiolo Marcori, Milano, Lerici editori, 1959; pp. 283; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1959 presso le Officine Grafiche Vallecchi Editore, Firenze.

3) EDITH BRUCK, Chi ti ama così, Milano, Lerici editori, 1959; pp. 113; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1959 presso le Officine Grafiche Vallecchi Editore, Firenze.

4) MARIO PICCHI, Roma di giorno, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 179; cm. 21×13.

5) FORD MADOX FORD, Il buon soldato, traduzione di Mario Guerra, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 285; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di febbraio 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

6) FERNANDO ARRABAL, Baal Babilonia, traduzione di Francis Mazurri, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 176; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

7) LIDIJA ALEKSÈEVNA AVÌLOVA, Cechov nella mia vita, traduzione di Olga Trtnik Rossettini, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 143; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

8) NIVARIA TEJERA, Il burrone, traduzione e introduzione di Francesco Tentori Montalto, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 191; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di maggio 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

9) GIUSEPPE BUFALARI, La masseria, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 341; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

10) ANTONIO PIZZUTO, Si riparano bambole, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 274; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

11) ALBERTO DENTI DI PIRAJNO, Ippolita, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 404; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di settembre 1960 dalla Tipografia Fratelli Memo, Milano.

12) LEV NIKOLAEVIC TOLSTOJ, Destino di una contadina, traduzione di G[ianlorenzo?]* Pacini,… Milano, Lerici editori, 1960; cm. 21×13; pp. 148…
13) GIORGIO ORELLI, Un giorno della vita, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 166; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1960 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

14) ANTONIO SECCARECCIA, Le isolane, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 183; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di dicembre 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

15) ROLANDO VIANI, Il mascalzone, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 269; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1961 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

16) MAX KRELL, La sibilla Vaurain, traduzione di Giuseppe Zamboni, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 249; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1961 dalle Grafiche Igiesse, Milano.

17) ANTONIO BARTOLI, Gli uomini alti, Milano, Lerici editori, 1960; pp.198; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1961 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

18) *FELIX HARTLAUB, Nell’occhio del tifone, traduzione di Laura Dallapiccola, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 233; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di luglio 1961 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese [Bologna].

19) JUAN GARCÍA HORTELANO, Nuove amicizie, traduzione di Arrigo Repetto, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 361; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di ottobre 1961 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese, Bologna.

20) ANGELA BIANCHINI, Lungo equinozio, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 216; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di marzo 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

21) CARLOS DROGUETT, Eloy, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 134; cm. 21×13; finbito di stampare nel mese di aprile 1962 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese [Bologna].

22) EDITH BRUCK, Andremo in città, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 182; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di marzo 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

23) LALLA VANZELLA, L’estate minore, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 140; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

24) ANNA PACCHIONI, Come ieri domani, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 169; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di luglio 1962 dalla Tipografia Toso, Torino.

25) EMILIO GARRONI, La macchia gialla, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 207; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di agosto 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

26) ANTONIO PIZZUTO, Ravenna, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 179; cm. 21×13; finito di stampare il 20 ottobre 1962 dalla Tipografia Toso, Torino.

27) ANTONIO CASTELLI, Gli ombelichi tenui, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 126; cm. 21×13.

28) GUISCARDO NIERI, L’estro armonico, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 286; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

29) ANGELO FIORE, Un caso di coscienza, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 207; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

30) WILLIAM HALE WHITE, Autobiografia di Mark Rutherford, traduzione di Giulio De Angelis, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 188; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di maggio 1963 dalla Tipografia Toso, Torino.

31) VICTOR LEBRUN, Devoto a Tolstoj, traduzione di Dino Naldini, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 171; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di ottobre 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

32) FULVIO LONGOBARDI, La decimazione, Milano, Lerici editori, 1964; pp. 246; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1964 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.

Note

1 Vedi R. Bilenchi, Un narratore deve essere per prima cosa un poeta (28 luglio 1959), in Id., Le parole della memoria, a cura di L. Baranelli, Firenze, Cadmo, 1995, p. 33: «In cinque o sei mesi, ‘secondo mestiere’ permettendolo, vorrei riscrivere Conservatorio di Santa Teresa».

2 Ibidem.

3 Si veda almeno la preziosa Cronologia in M. Luzi, Tutte le poesie, a cura di S. Verdino, Milano, Mondadori, 1998; nonché R. Bilenchi, Le parole della memoria cit.

4 La lettera è in Colori di diverse contrade. Lettere di Betocchi, Caproni, Gatto, Guttuso, Luzi, Maccari a Romano Bilenchi, a cura di P. Mazzucchelli, Lecce, Piero Manni, 1993, p. 29. L’episodio è ricordato in Vittorini a Firenze (Amici, ora in R. Bilenchi, Opere, a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, prefazione di M. Luzi, Milano, Rizzoli, pp. 808-811. Le lettere di Vittorini relative all’antologia della «Voce» si leggono in E. Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1985.

5 Aldo Rosselli, coproprietario con Roberto Lerici della casa editrice fino al ’62, fu poi il principale interlocutore di Luzi e Bilenchi per la narrativa (comunicazione orale, settembre 1999). Cfr. G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria italiana, Torino, Einaudi, 2004, p. 128.

6 Bilenchi e Luzi avevano curato nel ’53 per Vallecchi il libro di G. Baccetti, La varietà della natura (vedine il giudizio positivo di Niccolò Gallo in Scritti letterari di Niccolò Gallo, a cura di O. Cecchi, C. Garboli, G.C. Roscioni, Milano, il Polifilo, 1975, p. 73). Per quanto riguarda Bilenchi va ricordata inoltre la curatela, insieme a Berto Ricci, delle Lettere di Dino Garrone (Firenze, Vallecchi, 1938) e più tardi quella, insieme a Ottavio Cecchi, di Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, Roma, Editori Riuniti, 1984; mentre per volontà di Bilenchi le due opere postume di Luca Ghiselli pubblicate da Parenti nel 1942 (Poesie e Diario), curate insieme a Parronchi, risultano a cura solo del secondo (vedi A. Parronchi, L’amico scrittore, in Contributi critici a su Romano Bilenchi, a cura di L. Draghici e S. Coppini, Prato, Biblioteca Comunale “Alessandro Lazzerini”, 1989, p. 184). Dalle lettere di Eugenio Galvano conservate nel Centro Manoscritti di Pavia, infine, si apprende che Bilenchi fu «il curatore del […] primo libro di poesie presso Vallecchi» dello stesso Galvano (lettera del 30 marzo 1972; si tratta di E. Galvano, Poesie, Firenze, Vallecchi, 1935).

7 R. Bilenchi, Il silenzio dello scrittore, in Id., Le parole della memoria cit., p. 68.

8 M. Luzi e M. Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 24.

9 Per i Gettoni vedi almeno G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992 (capp. VII, VIII), e E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni», a cura di C. De Michelis, Milano, Scheiwiller, 1988; per «Le Silerchie» A. Cadioli, Letterati editori, Milano, il Saggiatore, 1995, pp. 144-158; per «Il tornasole» G.C. Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, il Saggiatore – Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1999, pp. 89-103.

10 Vedi in proposito il cap. «Una nuova geografia dell’industria culturale», in G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’unità al post-moderno, Torino, Einaudi, 1999, pp. 181-191.

11 Brevi cenni in Storia dell’editoria dell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997, p. 399. Nell'”inchiesta” Milano com’è. La cultura nelle sue strutture dal 1945 a oggi, Milano, Feltrinelli, 1962, la scheda relativa a Lerici (sez. Editori a cura di E. Capriolo e R. Marimonti) attesta che la casa editrice, nata nel ’58 e diretta da Roberto Lerici, «è sorta proponendosi di svolgere una determinata e il più possibile precisa politica della cultura, non in senso settoriale ma in senso globale, continuando nell’opera di sprovincializzazione delle vecchie strutture culturali italiane, e favorendo l’inserimento delle nuove in un ambito culturale europeo» (pp. 440-441). Da segnalare, in particolare, l’attenzione riservata alla poesia, che nella «Collana dei poeti europei» pubblicò importanti antologie, come le Poesie di Machado a cura di Oreste Macrì (1961) e di Blok a cura di Angelo Maria Ripellino (Poesie, 1960); ma notevole anche il lavoro nel campo delle riviste: vedi l’antologia Il Politecnico, a cura di Marco Forti e Sergio Pautasso (1960), Solaria a cura di E. Siciliano (1958), La Nouvelle Revue Française a cura di Marco Fini e Carlo Bo (1965). Nel campo della narrativa erano tre le collane: «Narratori di oggi», «Narrativa» (con notevoli aperture alla cultura di lingua tedesca: H. Broch, R. Walser, R. Musil) e infine «Narratori» di Bilenchi e Luzi («prezzo medio l. 1000, tiratura media 2/3000 copie, ma alcuni volumi sono arrivati ad oltre 10.000 copie», secondo quanto afferma la scheda, p. 442). Un’eco notevole, soprattutto per l’introduzione di Alberto Moravia, suscitò l’antologia Racconti italiani a cura di G. Carocci (1959), e tuttora utile è l’antologia d’interviste Il mestiere di poeta, a cura di Ferdinando Camon, edita nel 1965; mentre per la saggistica vanno ricordati Le oscillazioni del gusto di Gillo Dorfles (1958) e Miti d’oggi di Roland Barthes (1962), libri entrambi successivamente ripresi da Einaudi e destinati a larga diffusione.

12 Va qui ricordato che prima dell’esperienza con Lerici Romano Bilenchi aveva avviato un analogo progetto con Sansoni: anzi, come risulta dai carteggi conservati nell’Archivio del Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (d’ora in poi abbreviato ACRT), nel ’56 aveva ricevuto da Federico Gentile il conferimento della direzione di una collana di narrativa. Il progetto tuttavia non andò a buon fine, in quanto Gentile non accettò la pubblicazione di un libro di Maria Luigia Guaita sulla Resistenza, proposto da Bilenchi come titolo di esordio (vedi il Catalogo delle lettere a Romano Bilenchi (1927-1989), a cura di G. Balestreri, B. Maisano, N. Trotta, premessa di M. Depaoli, Pavia, 1998, p. 198). Inoltre il rapporto con Lerici determinò l’uscita di Bilenchi dal Comitato Editoriale della Vallecchi, di cui lo scrittore faceva parte dal ’58 con Carlo Bo e Pietro Bargellini: «Non so cosa tu pensi di fare per il Comitato Editoriale del quale facevi parte, ma penso che il nuovo incarico te lo vieti», gli scrive Enrico Vallecchi il 17 febbraio 1959, appresa la notizia del rapporto con Lerici dello scrittore (ACRT: cfr. Catalogo cit., p. 413); e Bilenchi, di rimando: «La collana di Lerici è una cosa diversa dalla collana che si doveva fare con voi. Non si tratta di giovani, insomma. È, poi, meno faticosa. La situazione che comporta una direzione a tre mi aveva inoltre un po’ spaventato e penso che mi possiate, come ti dissi, sostituire con uno più adatto di me a sopportare inevitabili compromessi. Credo di avervi fatto un piacere a evitare le grane e i pasticci che sarebbero sorti in seguito. […] Penso anch’io che sarà bene mi sostituiate nel comitato editoriale, il quale, scusa la sincerità, mi sembra che non serva a nulla. Quando i libri arrivano lì sono stati già letti, accettati, ecc. E che ci rimane altro da fare?» (lettera a Enrico Vallecchi del 18 febbraio 1959 conservata nel Fondo Enrico Vallecchi dell’Archivio Bonsanti di Firenze).

13 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo, in Id., Le parole della memoria cit., p. 46.

14 Ibidem.

15 Ibidem.

16 Vedi in particolare le prese di posizione sulla “questione del realismo” e sulla “crisi del romanzo” in Le parole della memoria cit., pp. 23-25 e 35-49.

17 Fornisco la lista con i dati essenziali nell’Appendice.

18 Lettera di Roberto Lerici a Romano Bilenchi dell’8 luglio 1959, ACRT: vedi Catalogo cit., p. 222.

19 Vedi Vittorini a Firenze, in Amici (R. Bilenchi, Opere cit., pp. 827-828).

20 Stagione di mezzo di Sergio Civinini è il «Gettone» n. 39 del 1955; e si veda il risvolto: «Letteratura della memoria, se ne dirà, e si farà il nome di Bilenchi…» (in E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni» cit., p. 112). Tra il ’49 ed il ’55 Civinini aveva pubblicato ventitre prose sul «Nuovo Corriere». Le lettere di Vittorini a Bilenchi con i giudizi su Civinini, del ’53-’54, sono conservate nel fondo pavese (Catalogo cit., p. 432).

21 La dichiarazione di Angelo Ponsi è il «Gettone» n. 46 del 1956; il «Nuovo Corriere» pubblicò sette racconti dello scrittore tra il ’48 ed il ’53. Per le lettere relative di Vittorini a Bilenchi in ACRT cfr. Catalogo cit., p. 432.

22 Le memorie del vecchio maresciallo è il «Gettone» n. 56 del 1958; ventitré i suoi contributi al «Nuovo Corriere» tra il ’49 ed il ’55.

23 «Gettone» n. 30 con Il sarto della stradalunga (1954), e presente con tre prose sul «Nuovo Corriere», tutte pubblicate nel ’56.

24 «Gettone» n. 7 con Il deserto della Libia (1952) e presente con undici racconti sul «Nuovo Corriere» tra il ’48 ed il ’50, ma – come rammenta anche il risvolto einaudiano – appartenente alla generazione precedente rispetto agli altri autori della collana.

25 «Gettone» n. 50; una scelta di racconti tratti dal volume dei «Gettoni» e dal Mascalzone edito da Lerici confluirà successivamente in A Viareggio aspettiamo l’estate, Torino, Einaudi, 1975.

26 «L’unico scrittore di sinistra che resti indipendente (libero) sei tu»: così Vittorini a Bilenchi nella lettera del ’48 riportata in Amici (R. Bilenchi, Opere cit., p. 815), e contenuta in E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977, p.168.

27 Così Bilenchi in Vittorini a Firenze (Opere cit., p. 817), e cfr. Id., Le parole della memoria cit., p. 164 («Era sì un giornale nuovo, basato anche sull’irruenza di Vittorini, ma si passava da Freud ai balletti indiani…»).

28 E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni» cit., p. 29.

29 La recensione è ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, t. II, Milano, Mondadori, 1996, pp. 2372-73, e vi si legge tra l’altro: «Il suo [di Bufalari] è un libro vivo, brulicante di figure da kermesse, scritto senza ricerche di stile, ma in verità scritto benissimo» (p. 2373). Accenni positivi alla Masseria sono anche nelle Cronache di narrativa di Luigi Baldacci, in Letteratura e verità. Saggi e cronache sull’otto e sul novecento italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, p. 350.

30 Lettera di Luzi a Bilenchi del 1960, n. 20 del Catalogo cit., p. 235.

31 Scritti letterari di Niccolò Gallo cit., p. 63.

32 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 316.

33 Ibidem.

34 R. Bilenchi (ma la firma è ACHAB), «Il menabò» nuova rivista di Vittorini e di Calvino, in «La Nazione Italiana», 1959, p. 3.

35 Vedi le interviste in R. Bilenchi, Le parole della memoria cit.

36 Si rammenti quanto in margine ad un attento sudio sulla genesi del Bottone di Stalingrado osservava nel ’72 Aldo Rossi: «non si dimentichi che Bilenchi (insieme a Luzi) ha patrocinato uno dei più radicali tentativi di rinnovamento romanzesco, quello di Antonio Pizzuto […]: per dire che l’aspetto ‘retrodatato’ della forma di un romanzo come Il bottone di Stalingrado (che a qualche lettore avverso fa venire in mente il defunto, forse mai vivo, realismo socialista) si appoggia su un retroterra di riflessioni, convinzioni e, perché no?, di concessioni che è molto più robusto di quello che può apparire a prima vista. certo si tratta di un libro covato, pensato forse venti anni fa, nonostante tutto molto ambizioso se s’incardina sull’uso della storia da parte di un romanziere» (A. Rossi, Elaborazione dell’ultimo romanzo di Bilenchi: i morti da preservare dal nemico, in «L’approdo letterario», 59-60, 1972, pp. 12-13).

37 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 317.

38 Vedi le osservazioni di Italo Calvino delle lettere a Viani in I. Calvino, I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, pp. 421-422 e 434-435.

39 L’espressione è di Vittorini, citata in G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, p. 240 (di «epica monellesca» parla il risvolto dei «Narratori»). Per l’antefatto della pubblicazione, vedi la lettera a Bilenchi di Viani del 5 dicembre 1957: «Il libro ‘Il mascalzone’ lo consegnai a Vittorini […] Calvino lodò il mio libro e la serietà con cui mi ero messo al lavoro, disse che ‘Il mascalzone’ gli piaceva di più dei ‘ragazzi della spiaggia’ ma mi consigliava di scrivere un romanzo vero e proprio e che i gettoni non si facevano più ecc. Insomma mi restituì il manoscritto, o meglio mi disse che lo aveva dato a Vittorini» (ACRT: cfr. Catalogo cit., p. 422).

40 Vedi R. Jacobbi, Pizzuto, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 9.

41 Vedi la bibliografia in R. Jacobbi, Pizzuto cit., pp. 97-98. Il romanzo, finito di stampare nel luglio del ’59, giunse alla seconda edizione nel settembre di quello stesso anno, per passare nel ’57 nella collana «Paperbacks». Qui in una Premessa dell’editore figurava una breve antologia della critica con brani delle recensioni di Giorgio Caproni, Paolo Milano, Ruggero Jacobbi, Luigi Baldacci, Giuliano Gramigna.

42 R. Jacobbi, Pizzuto cit., p. 9.

43 Così Luigi Baldacci in Cronache di narrativa cit., p. 238.

44 R. Jacobbi nella recensione a Ravenna, riportata in R. Jacobbi, O. Macrì, Lettere 1941-1981. Con un’appendice di testi inediti o rari, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 1993, p. 167.

45 Fu del resto negativa anche l’accoglienza da parte di Carlo Bo, poi entusiasta, invece, di Ravenna; e anche quella di Montale («Corriere della Sera», 14 ottobre 1959, ora in E. Montale, Il secondo mestiere cit., pp. 174-175) risulta spicciativa e con varie riserve.

46 A. Cadioli, L’esercizio critico di un ‘direttore editoriale’, in Id., Letterati editori cit., p. 163. Va tuttavia rammentato che Pizzuto fu tradotto in francia per un editore di prestigio, Gallimard.

47 Vedi quanto scriveva Baldacci sull’«Approdo» nel ’69: «Da Ravenna in poi [Pizzuto] ha subito la sorte di quegli scrittori che credono che l’incandescenza sia la sola temperatura possibile: la narrativa invece di stati tiepidi» (Ricette per il romanzo, in «L’approdo letterario», XV, 45, gennaio-marzo 1969; poi in L. Baldacci, Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 15).

48 S. Solmi, in Inchiesta sulle nuove tecniche narrative, in «il verri», IV, 1, 1960, p. 89.

49 L. Baldacci, in Inchiesta sulle nuove tecniche narrative cit., p. 68.

50 Così nella recensione su «Telesera» citata in R. Jacobbi, Pizzuto cit., p. 98.

51 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 241.

52 Nella sua Prefazione al convegno Gli anni ’60: intellettuali e editoria osservava Cesare Segre che «Il ‘Gruppo 63′ rivoluzionava la geografia letteraria italiana, decretando tra l’altro la fine del mito di Firenze» (Atti del Convegno, Milano 7 e 8 maggio 1984, a cura di F. Brioschi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1987, p. 13). Il che è senz’altro vero, sul piano storico, per quanto riguarda il mito, appunto, ed i rapporti di potere in seno all’establishment culturale; quanto al senso della vicenda di quegli anni, è d’altra parte da rammentare quanto, a proposito di «Gruppo 63» e dintorni, scriveva Fortini in Due avanguardie: «Si ha l’impressione che la volontà di aggiornamento, di adeguamento, di sprovincializzazione sia stata sbagliata non nella sua méta ma nei suoi mezzi; mezzi, appunto, esclusivamente volontaristici. Per forza – si diceva una volta a Firenze – non si fa nemmeno l’aceto. […] Le esigenze editorial-mercantili premevano, è chiaro, perché si seguisse la via del rumore, del ‘movimento’, del ‘gruppo’; e allora si è stati costretti ad escogitare o riesumare tutte le teorie (surrealiste e dadà) che mescolavano azione ed espressione, gesto e parola, eccetera, aggiornandole con la nozione di opera aperta, di poesia visiva o tecnologica, con le esposizioni, le serate ed altre manifestazioni di attivismo» (in Avanguardia e Neoavanguardia, saggi di A. Barbato et al., Milano, Sugar, 1966, p. 17; poi in Verifica dei poteri, Milano, Garzanti, 1974). Sul tema vedi anche G.C. Ferretti, Il gruppo ’63 tra industria e letteratura, in Id., Il mercato delle lettere. Editoria, informazione e critica libraria in Italia dagli anni cinquanta agli anni novanta, Milano, il Saggiatore, 1994, pp. 157-169.

53 Vedi G.C. Ferretti, L’editore Vittorini cit., p. 292.

54 F. Fortini, Astuti come colombe, in «il menabò», 5, 1962, p. 32 (poi in Verifica dei poteri cit.).

55 Ancora Baldacci scriveva nel ’59: «Vedremo cosa ci dirà domani Pizzuto col nuovo romanzo che egli ha in preparazione. È certo che egli non potrà aprire una nuova via alla narrativa, se non a rischio di far cadere i suoi discepoli probabili nel più assoluto dei manierismi. In tal senso egli resta davvero un outsider» (Cronache di narrativa cit., p. 241).

56 Cfr. in proposito G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere cit.; in particolare Un’ipotesi di ricerca: Cassola, pp. 277-292.

57 «Se Cassola fosse, come si dice, uguale a Liala, che merito avrebbe Antonio Porta a scrivere come Beckett?»: la battuta è di Baldacci (Ricette per il romanzo cit., p. 14), e dice il vero meglio di un’indagine sociologica.

58 Per la precisione i titoli d’apertura della collana erano tre, comprendendo IX Ecloghe di Andrea Zanzotto, che è però una raccolta di poesie. Ringrazio Maria Luisa Finocchi della Fondazione Mondadori per le notizie in merito.

59 G. Gramigna, in «il verri» cit., p. 75.

60 Ivi, p. 76.

61 La prima traduzione italiana apparve nel 1931 per le edizioni Slavia, a cura di Angiolo Marcori. Sul romanzo vedi almeno A. Amoròs, La novela intelectual de Ramon Perez de Ayala, Madrid, Gredos, 1972.

62 Paola Pugliatti, in Scrittura e sperimentazione in Ford Madox Ford, a cura di R. Biancolini e V. Fortunati, Firenze, Alinea, 1994, p. 112.

63 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo cit., p. 45.

64 Ivi, p. 47.

65 Ibidem.

66 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo cit., p. 49.

67 R. Bilenchi, Levo, piallo, districo nodi, in Id., Le parole della memoria cit., p. 219.

68 Si legga in proposito la recensione di Baldacci raccolta in Cronache di narrativa cit., pp. 263-266.

69 Come Bilenchi racconta in Amici (Opere cit., p. 827), il libro di Tomasi di Lampedusa fu per lui una delle rare occasioni di dissenso da Vittorini, il quale aveva rifiutato il romanzo per i «Gettoni» e successivamente ne aveva sconsigliato la pubblicazione a Mondadori (vedi G.C. Ferretti, L’editore Vittorini cit., p. 268).

70 E. Montale, Il secondo mestiere cit., p. 2325.

71 R. Bilenchi, Un siciliano grande, anzi grandissimo, in «La Sicilia», 4 giugno 1987, poi in Romano Bilenchi da Colle di Val d’Elsa a Firenze. Immagini e documenti, Milano, Scheiwiller, 1991, p. 78.

72 Dizionario della letteratura italiana contemporanea, vol. 1, Movimenti letterari – Scrittori, a cura di E. Ronconi, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 327-328.

73 E. Ghidetti e G.Luti, Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1997. Si può aggiungere che Fiore è titolare di dodici righe, bibliografia inclusa, del Dizionario bio-bibliografico della Letteratura italiana diretta da Asor Rosa (Torino, Einaudi, 1990, p. 790).

74 Un breve ma attento profilo è ora in rete; e va segnalata la ripresa di alcuni titoli per merito di piccoli e coraggiosi editori come Isbn (Il supplente, 2010), Pungitopo (L’incarico, 2014), Mesogea (L’erede del beato; Un caso di coscienza e altri racconti, 2004).

75 Vedi la recensione su «Epoca», 18 ottobre 1964.

76 Dizionario della letteratura italiana contemporanea cit., p. 327.

77 A. Fiore, Il supplente, Firenze, Vallecchi, 1964; Id., Il lavoratore, Firenze, Vallecchi, 1967; a cui seguiranno L’incarico, Firenze, Vallecchi, 1970; Domanda di prestito, Firenze, Vallecchi, 1976; Racconti, Catania, Tifeo, 1990; Diario d’un vecchio. Inediti, a cura di S. Collura, Catania, Tifeo, 1991, e L’erede del Beato, Milano, Rusconi, 1981.

78 L. Baldacci, Ricette per il romanzo cit., p. 15.

79 Le lettere di Materassi a Bilenchi in proposito sono conservate all’Università di Pavia (ACRT, Catalogo cit., p. 264). Quelle di Bilenchi fanno parte dell’archivio personale di Mario Materassi che ce ne ha cortesemente fatto avere copia, e qui si ringrazia di cuore: la prima lettera relativa a Call it sleep è del 23 ottobre 1961, da Firenze, e Bilenchi vi riferisce di aver scritto a Lerici perché ne acquisti i diritti («Se non lo farà lo darai a un altro editore»); ne seguono due che trattano di questioni attinenti la traduzione ed i tempi di pubblicazione (2 giugno 1962 e 6 agosto 1962).

80 Vedi per la pubblicazione di H. Broch, L’incognita (1962) le lettere del traduttore, Aurelio Ciacchi (Catalogo cit., p.122), quella di Giovanni Comisso per Il soldato nudo di G.P. Bona (1961; cfr. Catalogo cit., p.129) e quelle di Francesco Tentori e Marianello Marianelli per testi e traduzioni di letterature straniere (Catalogo cit., pp. 394, 261).

81 Per i risvolti “d’autore”, oltre a alla Prefazione di De Michelis a E. Vittorini, I risvolti cit., pp. 11-30, sono da vedere almeno E. Sanguineti, Far vedere i libri, in G. Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla «Biblioteca delle Silerchie», Roma-Napoli, Theoria, 1991, pp. 7-12, e A. Cadioli, L’esercizio critico di un “direttore editoriale”: Giacomo Debenedetti, in Id., Letterati editori cit., pp. 144-158.

82 Lettera dell’8 marzo 1962 (ACRT, n. 2 Catalogo cit.). Nieri è un altro versiliese, il cui patron iniziale era stato Malaparte. Dei racconti passatigli da Bilenchi, dopo la morte di Nieri, scrive Calvino: «alcune idee sono assai belle. Ma i racconti così come sono, riportano a un clima un po’ vecchiotto: non tanto Kafka, quanto Karel Capek, e più in là ancora Maeterlinck. Se l’autore fosse vivo si direbbe: è uno da tener d’occhio, e seguire e consigliare. Purtroppo la morte ha troncato i possibili sviluppi del suo talento» (lettera del 27 aprile 1966; ACRT, n. 18 Catalogo cit.).

83 Lettera del 5 dicembre 1957 (ACRT, n. 10 Catalogo cit.).

84 Vedi la sezione Lettere in Romano Bilenchi 1999, numero Speciale di «Erba d’Arno», 78, autunno 1999.

85 Analoghe testimonianze si debbono a Claudio Piersnti, Goffredo Fofi, Grazia Cherchi; ma anche se ne possono leggere negli scritti di Angelo Australi, Romano Bilenchi. Ricordo in forma di racconto, Colle di Val d’Elsa, Associazione Amici di Romano Bilenchi, 2019; e Paolo Buchignani, L’orma dei passi perduti, Argot Libri, 2022.

86 Lettera dell’1 novembre 1962 (ACRT, n. 5 Catalogo cit.). Non diversamente Antonio Bartoli (1960, n. 17) scriveva a Bilenchi per ringraziarlo dell’attenta lettura di Gli uomini alti: vedi A. Cadioli, Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Milano, il Saggiatore, 2012, p.

87 Rinvio qui alle puntuali osservazioni di Alberto Cadioli in La fine del letterato editore, in Id., Letterati editori cit., pp. 197-205.