
Fiducia, e sintonia, di cui non mancano le testimonianze. Nel ’72 Bilenchi, intervistato da Aldo Rosselli, dice di Luzi:
Questi i dati della collana: trentadue titoli,17 sedici autori italiani (dei quali uno, Pizzuto, presente tre volte), quattordici stranieri; costi medio-bassi; formato di tipo tradizionale (21x13cm), in linea con la veste consentita all’editore dalla scelta di un sistema tipografico che, scrive Roberto Lerici a Bilenchi nel luglio ’59, «riduce i costi industriali pur dando un risultato dignitoso e di buon gusto».18 Quanto al titolo, «Collana Narratori», andrà aggiunto che non fu scelto dai direttori e anzi nemmeno dovette esser loro troppo gradito, se sempre Lerici, nella lettera ora citata, se ne dice dispiaciuto, negando la paternità.
Il terreno prescelto è quello della contemporaneità. Nel caso degli autori italiani, si tratta in maggioranza di esordienti, talora vincitori di premi letterari (per lo più locali) e titolari di racconti e articoli su rivista o giornale; ed a questo riguardo va sottolineato il ruolo del «Nuovo Corriere», capace non solo di ospitare scrittori e critici di accertato valore, ma anche di essere un vivaio-palestra di giovani alle prime armi. Alcuni di questi, secondo quanto è raccontato in Amici, furono segnalati da Bilenchi a Vittorini e poi pubblicati nei «Gettoni»:19 è il caso di Sergio Civinini,20 Angelo Ponsi,21 Mario La Cava,22 Giuseppe Bonaviri,23 Mario Tobino;24 e di Rolando Viani, esordiente nel ’56 con I ragazzi della spiaggia da Einaudi25 dopo aver pubblicato, come gli altri citati, numerosi racconti sul giornale diretto da Bilenchi tra il ’50 ed il ’56, presente nel ’60 ancora nei «Narratori» con Il mascalzone.
L’amicizia tra Bilenchi e Vittorini – e Luzi, s’intende – costituisce dunque un elemento da tener ben presente nell’esame di Bilenchi “editore”. Si rammenti che non solo per l’antologia della «Voce», ma anche per la continuazione del «Politecnico» Vittorini aveva pensato a Bilenchi,26 a conferma di una stima che investiva direttamente, oltre lo scrittore, l’intellettuale; a ben vedere, anzi, le radici, o i precedenti, di tutta un’area di narrativa comune a «Gettoni» e «Narratori» sono da individuare proprio in quella temperie (la “ricostruzione”): negli anni del «Politecnico», che a Bilenchi, pur parendo il periodico «più vivo del dopoguerra»,27 non piacque, ma del quale il «Nuovo Corriere» assunse, in realtà, una preziosa eredità proprio nella funzione di scoprire nuovi talenti.
La circolazione di autori tra le collane affonda in quel clima. Per questo, senza troppo forzare, la presentazione (non firmata) dei «Gettoni» nel Catalogo generale dell’Einaudi del ’56 potrebbe in buona parte valere anche per i «Narratori»: «due sono i motivi […] per cui un manoscritto può diventare un ‘gettone’: o la sua innocenza, e cioé la sua validità documentaria; oppure la forza, anche artificiosa, o bizzarra, ma comunque creativa, che l’autore dimostri di possedere attraverso le sue pagine».28 Validità documentaria, forza creativa: si prendano, da una parte, La masseria (n. 8, 1961) di Bufalari, «a mezza via tra il romanzo e il documentario», come ebbe a scrivere Montale;29 dall’altra, i racconti di Garroni (La macchia gialla: n. 25, 1962) o Nieri (L’estro armonico: n. 28, 1962), e si avranno esempi di opere che rientrano a buon titolo nella tipologia abbozzata dalla presentazione; per non parlare, quanto a forza creativa, di Antonio Pizzuto, che però con Signorina Rosina (n. 1, 1959), Si riparano bambole (n. 10, 1960) e Ravenna (n. 26, 1962) esige un diverso e più complesso discorso.
In prima battuta seguirò appunto, nell’esame della collana, la traccia bifronte offerta dal Vittorini in incognito del ’56; e per stare al primo versante, quello documentario, è allora da rilevare che a proposito del Destino di una contadina di Tolstoj, opera giovanile e inedita in Italia, nel ’60 Luzi scrive all’amico:
Per concludere con la costellazione «Politecnico» – «Il Nuovo Corriere» – «Gettoni» – «Narratori», allora, a conferire un segno positivo al bilancio di quest’area non è solo e non tanto la proposta di autori nuovi quanto la conferma di un irregolare, per esempio, come Rolando Viani, «un vero scrittore, ricchissimo di materiale umano» con le parole di Baldacci nella recensione al Mascalzone;37 e se alla luce del poi Viani non ha dato esiti all’altezza di quanto lasciavano sperare gli esordi,38 alla fine questo non riguarda la nostra storia. Riemergeva, con lui, assumendo venature liriche e “picaresche”,39 una linea toscana o meglio versiliese di sfondo anarchico che risale a Pea e a Lorenzo Viani; e quanto al libro, quell’accenno del risvolto del Mascalzone alla «condizione psicologica del ragazzo timido e spavaldo [che] si fonde a meraviglia con la condizione povera, precaria, di tutti i ragazzi usciti a forza o di necessità da ogni premurosa tutela», non può che rammentarci la sensibilità e la particolarissima prospettiva adolescenziale dell’autore di Anna e Bruno e del Conservatorio di Santa Teresa.
Ma è il momento di puntare i riflettori sul libro inaugurale della collana, quel memorabile n. 1: Signorina Rosina di Antonio Pizzuto. Approdato a Luzi e Bilenchi attraverso Sergio Solmi40 dopo una “protoedizione” uscita nel ’56 per i tipi di Macchia e passata inosservata, il romanzo trovò subito nella nuova edizione l’avallo di lettori d’eccezione: Luigi Baldacci in primo luogo, lo stesso Solmi, Ruggero Jacobbi, Paolo Milano; successivamente Gianfranco Contini e Cesare Segre.41 Basteranno questi nomi a chiarire come la scommessa di Bilenchi e Luzi si fondasse su una valutazione tutt’altro che estemporanea o azzardata: l’aver tenuto a battesimo il «primo romanziere d’avanguardia nella letteratura italiana del Novecento»42 costituisce anzi un punto di forza indelebile per il profilo complessivo dei «Narratori», e ne sottolinea ad un tempo il carattere aperto e sperimentale. Si veda, per intendere il senso di quest’avvio, l’affermazione dell’introduzione al volume (una pagina che nella collana svolge le funzioni del “risvolto”), in cui Signorina Rosina è definito
Non è questa, però, la sede per ricostruire la storia della ricezione di Pizzuto, che a partire da Ravenna sembrò deludere anche i suoi più convinti sostenitori:47 interessante, semmai, è accennare – sia pure in ipotesi, e per sommi capi – a come il solitario exploit dello scrittore siciliano proposto nei «Narratori», definito da Paolo Milano «il Pollock della narrativa», s’inserisse nel dibattito critico contemporaneo, che al giro di boa tra la fine degli ’50 ed i primi ’60 segnava una netta svolta. Erano lontani i tempi delle discussioni sul “metellismo”: ne fornisce la prova più significativa l’Inchiesta sulle nuove tecniche narrative promossa dal «Verri» nel ’60, che dette luogo ad una serie di interventi al cui centro focale erano il nouveau roman e l’école du regard (i nomi di Robbe-Grillet, Butor e Sarraute vi tengono banco). Ma tutto il numero del «verri», non solo l’inchiesta, in realtà, è caratterizzato da una vivace quanto a volte astratta polemica antinaturalistica, quale troverà la sua espressione organica ed organizzata nel Gruppo 63 (figurano nel fascicolo alcuni dei principali promotori, come Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Alfredo Giuliani): e tuttavia, a veder bene, il coro non era unanime, se scorrendo le differenti opinioni di quel dibattito si trova, anche, che Sergio Solmi vi opponeva «il carattere che oggi suole denominarsi ‘sperimentalistico’, e che consiste, essenzialmente, in un prevalere dell’intenzione e del programma» al «caso a sè, e genuino» di Pizzuto, per l’appunto, in cui riconosceva, invece, «un laborioso ‘distillato’ narrativo che tien conto, in modo molto raccolto e personale, di certe esperienze moderne».48 Non solo: in chiusura ad un intervento anch’esso controcorrente, Luigi Baldacci riprendeva un’ammonizione di Lukács rivolta ai critici marxisti secondo cui il «cosiddetto realismo borghese ha molta importanza attuale per l’ulteriore fecondo sviluppo dello stile letterario presente»; ed aggiungeva: «È questa la direzione più difficilmente documentabile; ma pensiamo al caso assai importante di Antonio Pizzuto con Signorina Rosina».49
All’indomani della pubblicazione del romanzo di Pizzuto, si rammenti, lo stesso critico aveva parlato dello scrittore siciliano come di «un eversore innamorato, un radiografo senza misericordia e un poeta elegiaco al tempo stesso», e indicato come la sottrazione del romanzo «alla misura classica del tempo» non escludesse la «sottesa forza realistica della sua prosa»:50 punto di vista, questo, in cui è dato cogliere una prospettiva prossima a quello di Solmi, ed in cui è messo in gioco un rapporto tradizione/innovazione incompatibile, a veder bene, con quello dei neo-sperimentali. Proprio la contrapposizione tra sperimentalismo di programma e eversione innamoratasi tocca un punto che se da una parte investe implicitamente la sensibilità di un autore come Bilenchi, dall’altra aiuta a mettere a fuoco il significato della scommessa critica su Pizzuto, divaricandone l’orientamento di fondo dal nuovo clima, in cui la sperimentazione linguistico-formale si nutre di tutt’altri orizzonti teorici. Il nesso posto in luce in Pizzuto, ed apprezzato, da lettori come Solmi o Baldacci, immuni tanto da infatuazioni scientiste quanto da letture ideologizzanti ed ancor meno da ansie d’aggiornamento, è per l’appunto con la tradizione del Moderno (sintetizzato nel ricorrente nome di Joyce): nesso che si esprime sì in forme sperimentali, ma non può prescindere da un fondamento soggettivo, cioè umano e storico (e anche “borghese”), in cui gli elementi nichilistici e tragici di discendenza romantica, propri delle avanguardie storiche, anziché essere un dato imposto all’opera dall’esterno come un quod erat demostrandum, o ridotti a moduli formali (mera “tecnica”), sono per dir così rivissuti in prima persona, espressione sofferta di un’esperienza di scacco individuale. «La dichiarazione di sfiducia nel romanzo significa anche sfiducia nel fatto stesso dell’esistere»:51 così sintetizza Baldacci, parlando di Signorina Rosina; e la definizione di stile data da Bilenchi e Luzi potrebbe leggersi in sintonia con questa posizione critica. Ma è una posizione, questa, al momento minoritaria: non in linea né con i seguaci (o reduci) del “populismo”, né con il nuovismo della neoavanguardia, la cui force de frappe poteva contare su tutta una serie di rincalzi teorici e solidarietà editorial-accademiche che non mancavano d’efficacia.52 Del resto, spostando di poco lo sguardo, non si può dire che anche il dibattito promosso, in quello stesso giro di anni, dal «Menabò» di Vittorini (n. 4 e 5 del ’61 e ’62) sul tema Industria e letteratura, pur così stimolante per il confronto tra diversi orientamenti ed assai istruttivo sul piano delle “poetiche” (vedi Calvino), fosse poi confortato da testi all’altezza dell’intento vittoriniano di svecchiare la letteratura italiana contemporanea ed a farla partecipe dei mutamenti in corso nel paese.53 Anzi, alla fine la questione dei rapporti scrittura/realtà, in quelle pagine, veniva affrontata, da Vittorini per primo, secondo una prospettiva molto semplificata, legittimando il sospetto di un ingenuo «progressismo letterario» – per citare l’intervento di gran lunga più lucido dell’intero lotto54 – che prestava facile sponda alle istanze neo-avanguardistiche meno convincenti. In questo quadro la posizione defilata di Luzi e Bilenchi, quale si concretizza nella linea editoriale dei «Narratori», magari non sarà stata un merito solo personale, ma consentiva sicuramente uno sguardo più libero e aperto, tale da poter accogliere novità non accompagnate dal battage di dichiarazioni teoriche e relativi fuochi di sbarramento in auge all’epoca: ed ecco che nel “caso Pizzuto” si può intuire, come in controluce, un’ipotesi, una tendenza recepita in progress da parte della critica più avvertita e lungimirante – una terza via, si può forse ipotizzare, tra l’opzione neorealista, ormai esauritasi, e le nuove tendenze vuoi dell'”antiromanzo”, vuoi della “letteratura industriale”.
Con il primo volume dei «Narratori», insomma, Pizzuto entra in pieno nel vivo conflitto delle tendenze e degli schieramenti che contrassegna il momento storico di passaggio dal dopoguerra agli anni boom; vi entra e ne esce, si direbbe, con tanto tempismo che si è tentati di identificare in Signorina Rosina una linea destinata esemplarmente a vita breve, non solo per l’essere Pizzuto per sua natura un outsider,55 sprovvisto dell’aura “tecnologica” che ne avrebbe facilitato la cooptazione alle strategie d’équipe, ma per lo stesso schematismo delle posizioni in campo, proporzionale alla maggiore influenza dei promotori dei «perpetui littoriali» di cui sopra e delle maggiori case editrici. Non è tanto il fragoroso ingresso in scena della neoavanguardia, infine, a segnare il discrimine storico, quanto la dialettica che s’instaura tra il “best-seller all’italiana” (l’opera “di qualità”, secondo l’espressione di Ferretti)56 e lo sperimentalismo avanguardista; dialettica i cui due termini sono ovviamente antagonisti, ma in cui ognuno presuppone l’altro entro uno scenario organico; “prodotti” in qualche modo speculari del processo di massificazione in atto.57 Se poi si pensa che il titolo di apertura, nel ’58, della collana di narrativa Feltrinelli diretta da Bassani era stato Il soldato di Cassola, cioé l’opera di un autore già affermato e di lì a poco artefice di uno dei maggiori successi editoriali nostrani (La ragazza di Bube), e che nel marzo ’62 il «Tornasole» di Mondadori aprirà con Avventure in città di Strati e Il piatto piange di Piero Chiara,58 il carattere innovativo ed originale dell’esordio dei «Narratori» risulta evidente.
Sarà un caso, ma per tornare ai casi nostri, sempre nell’Inchiesta del «Verri» spunta anche il secondo titolo della collana di Lerici: Bellarmino e Apollonio di Pérez de Ayala. È Giuliano Gramigna a chiamarlo in causa, in chiusa al proprio intervento, e di nuovo si tratta di una citazione da porre in dialettica con le proposte del nouveau roman (ed annessi ideologici). La «dichiarazione di fede» del critico «nell’importanza delle tecniche narrative», infatti, è volta soltanto a «sottolinearne le offerte», non «l’eccellenza della tecnica dell’antiromanzo»;59 ed ecco subito, tra parentesi, il suggerimento di Gramigna: «in materia di antiromanzo si vada a rileggere, per vedere che tutto e nulla è nuovo, nella recentissima traduzione, quel testo eccezionale che è Bellarmino e Apollonio».60
Suggerimento polemico, oltre che calibrato: il capolavoro di Pérez de Ayala è del ’21,61 ed appartiene di diritto – per quanto ancora poco noto da noi, se non tra gli specialisti – al filone più nobile della tradizione moderna. Si legge nel risvolto del volume:
A questa zona di autori, si direbbe oggi, “di culto”, i «Narratori» paiono affidare un preciso richiamo alla tradizione moderna del romanzo europeo: a controprova di una loro appartata militanza distante sia dall’oltranzismo sperimentale, sia dal prodotto di consumo – ovvero la «letteratura standard», frutto dell’«industrializzazione della narrativa» a cui si riferisce Bilenchi nell’intervista di «Quaderni milanesi» del ’62 citata in apertura.63 In quell’intervista, si noti bene, erano nominati tanto il libro di Madox Ford che quello di Pérez de Ayala, all’interno di un lungo elenco di romanzi che ha lo scopo di contestare alla radice l’idea della «crisi del romanzo in quanto genere letterario».64 Ed a testimoni della propria idea di “crisi” («finite le società volte a risolvere collettivamente determinati problemi […] l’artista si è trovato a dover affrontare individualmente, da sé solo, come se precedentemente nulla fosse stato fatto, come se tutto nascesse ora, la nozione stessa di vita in sé e nelle sue relazioni») Bilenchi cita Proust, Joyce, Kafka, Musil, Hemingway, Salinger, Babel (e numerosi altri autori novecenteschi), per poi affermare recisamente: «Io non posso riconoscere che questa modernità»; tuttavia specificando: «Ma quando vado a leggere questi libri non riesco ad accettare che tutto venga accentrato sulla tecnica».65 In quelle opere, chiede Bilenchi, «che cosa contano i personaggi, l’intreccio, lo svolgimento?»; e la risposta denuncia tanto la posizione polemica nei confronti del rozzo antinaturalismo di tanti fautori della “crisi”, quanto il punto di aggregazione della folta schiera di opere citate:
Tornando ora al filone nostrano della collana, altri titoli meritano di essere ricordati. Scontata la difficoltà a mantenere il livello stilistico e di novità di Signorina Rosina, vanno segnalati il buon esordio di Mario Picchi68 con Roma di giorno (n. 4, 1960) e quello di Emilio Garroni con La macchia gialla (n. 25, 1962); mentre un discorso diverso riguarda Ippolita di Denti di Pirajno (n. 11, 1960), un romanzo che – a differenza di quelli ora citati – per l’impianto tradizionale evoca naturalmente quel Gattopardo che, appena due anni prima, aveva creato un “caso” di larghissima risonanza69 e raggiunto rapidamente un ampio pubblico. Ippolita – come del resto Un giorno della vita di Giorgio Orelli (n. 13) – ottenne un premio minore, riscotendo un discreto successo; e un osservatore di spicco come Montale, in un’ampia recensione sul «Corriere della Sera», sia pure con molti distinguo e non poche riserve, accettava, alla fine, l’invito del risvolto a leggere il libro come «opera buffa», concludendo:
Scriveva Baldacci del Supplente e del Lavoratore, i due romanzi passati da Bilenchi a Vallecchi,77 nel ’69:
Non vorrei però concludere questi appunti, per quanto parziali, senza accennare ad una qualità di Bilenchi “editore” che risulta evidente a chi ne sfogli i carteggi con gli autori. Se sul piano culturale lo scrittore appare in famiglia con i suoi coetanei Vittorini, Sereni o Pavese, la personalità di Bilenchi emerge con nettezza nei consigli agli autori: in genere tutt’altro che prolifico nei suoi rapporti epistolari, non per questo egli non è prodigo di suggerimenti e di consigli capaci di toccare direttamente, con i propri interlocutori, i punti salienti del lavoro letterario. «È raro, ed è una fortuna, avere consigli ed aiuti da persone del Suo valore e di quello di Luzi», gli scrive Guiscardo Nieri nel ’62 ringraziando per i tagli e le correzioni apportate al suo Estro armonico;82 e Rolando Viani, a proposito del Mascalzone:83 «Mi ricordo sempre le cose che mi hai consigliato. Quello che mi dispiace è non avere un tuo libro di saggi critici, cosa che dovresti fare al più presto. Parlo per egoismo». Ma il documento più eloquente del nitido spessore umano del nostro editore è fornito dalle lettere a Garroni,84 il cui arco si prolunga ben oltre la pubblicazione della Macchia gialla: un’amicizia a distanza che, tra incontri mancati e e silenziose svolte del destino, ci sorprende come fosse un ritratto dal vivo di Bilenchi, autentico e schietto.85 In una delle prime lettere di Garroni se ne coglie il riflesso:
Appendice: I «Narratori» Lerici
2) RAMÓN PÉREZ DE AYALA, Bellarmino e Apollonio, traduzione di Angiolo Marcori, Milano, Lerici editori, 1959; pp. 283; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1959 presso le Officine Grafiche Vallecchi Editore, Firenze.
3) EDITH BRUCK, Chi ti ama così, Milano, Lerici editori, 1959; pp. 113; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1959 presso le Officine Grafiche Vallecchi Editore, Firenze.
4) MARIO PICCHI, Roma di giorno, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 179; cm. 21×13.
5) FORD MADOX FORD, Il buon soldato, traduzione di Mario Guerra, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 285; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di febbraio 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
6) FERNANDO ARRABAL, Baal Babilonia, traduzione di Francis Mazurri, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 176; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
7) LIDIJA ALEKSÈEVNA AVÌLOVA, Cechov nella mia vita, traduzione di Olga Trtnik Rossettini, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 143; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
8) NIVARIA TEJERA, Il burrone, traduzione e introduzione di Francesco Tentori Montalto, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 191; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di maggio 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
9) GIUSEPPE BUFALARI, La masseria, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 341; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
10) ANTONIO PIZZUTO, Si riparano bambole, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 274; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
11) ALBERTO DENTI DI PIRAJNO, Ippolita, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 404; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di settembre 1960 dalla Tipografia Fratelli Memo, Milano.
12) LEV NIKOLAEVIC TOLSTOJ, Destino di una contadina, traduzione di G[ianlorenzo?]* Pacini,… Milano, Lerici editori, 1960; cm. 21×13; pp. 148…
13) GIORGIO ORELLI, Un giorno della vita, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 166; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di novembre 1960 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
14) ANTONIO SECCARECCIA, Le isolane, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 183; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di dicembre 1960 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
15) ROLANDO VIANI, Il mascalzone, Milano, Lerici editori, 1960; pp. 269; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1961 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
16) MAX KRELL, La sibilla Vaurain, traduzione di Giuseppe Zamboni, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 249; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1961 dalle Grafiche Igiesse, Milano.
17) ANTONIO BARTOLI, Gli uomini alti, Milano, Lerici editori, 1960; pp.198; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1961 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
18) *FELIX HARTLAUB, Nell’occhio del tifone, traduzione di Laura Dallapiccola, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 233; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di luglio 1961 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese [Bologna].
19) JUAN GARCÍA HORTELANO, Nuove amicizie, traduzione di Arrigo Repetto, Milano, Lerici editori, 1961; pp. 361; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di ottobre 1961 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese, Bologna.
20) ANGELA BIANCHINI, Lungo equinozio, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 216; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di marzo 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
21) CARLOS DROGUETT, Eloy, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 134; cm. 21×13; finbito di stampare nel mese di aprile 1962 dalla Società Tipografica Editrice Bolognese [Bologna].
22) EDITH BRUCK, Andremo in città, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 182; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di marzo 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
23) LALLA VANZELLA, L’estate minore, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 140; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di giugno 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
24) ANNA PACCHIONI, Come ieri domani, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 169; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di luglio 1962 dalla Tipografia Toso, Torino.
25) EMILIO GARRONI, La macchia gialla, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 207; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di agosto 1962 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
26) ANTONIO PIZZUTO, Ravenna, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 179; cm. 21×13; finito di stampare il 20 ottobre 1962 dalla Tipografia Toso, Torino.
27) ANTONIO CASTELLI, Gli ombelichi tenui, Milano, Lerici editori, 1962; pp. 126; cm. 21×13.
28) GUISCARDO NIERI, L’estro armonico, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 286; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
29) ANGELO FIORE, Un caso di coscienza, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 207; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di aprile 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
30) WILLIAM HALE WHITE, Autobiografia di Mark Rutherford, traduzione di Giulio De Angelis, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 188; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di maggio 1963 dalla Tipografia Toso, Torino.
31) VICTOR LEBRUN, Devoto a Tolstoj, traduzione di Dino Naldini, Milano, Lerici editori, 1963; pp. 171; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di ottobre 1963 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
32) FULVIO LONGOBARDI, La decimazione, Milano, Lerici editori, 1964; pp. 246; cm. 21×13; finito di stampare nel mese di gennaio 1964 dalla Interpress Arti Grafiche, Milano.
1 Vedi R. Bilenchi, Un narratore deve essere per prima cosa un poeta (28 luglio 1959), in Id., Le parole della memoria, a cura di L. Baranelli, Firenze, Cadmo, 1995, p. 33: «In cinque o sei mesi, ‘secondo mestiere’ permettendolo, vorrei riscrivere Conservatorio di Santa Teresa».
2 Ibidem.
3 Si veda almeno la preziosa Cronologia in M. Luzi, Tutte le poesie, a cura di S. Verdino, Milano, Mondadori, 1998; nonché R. Bilenchi, Le parole della memoria cit.
4 La lettera è in Colori di diverse contrade. Lettere di Betocchi, Caproni, Gatto, Guttuso, Luzi, Maccari a Romano Bilenchi, a cura di P. Mazzucchelli, Lecce, Piero Manni, 1993, p. 29. L’episodio è ricordato in Vittorini a Firenze (Amici, ora in R. Bilenchi, Opere, a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, prefazione di M. Luzi, Milano, Rizzoli, pp. 808-811. Le lettere di Vittorini relative all’antologia della «Voce» si leggono in E. Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi, 1985.
5 Aldo Rosselli, coproprietario con Roberto Lerici della casa editrice fino al ’62, fu poi il principale interlocutore di Luzi e Bilenchi per la narrativa (comunicazione orale, settembre 1999). Cfr. G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria italiana, Torino, Einaudi, 2004, p. 128.
6 Bilenchi e Luzi avevano curato nel ’53 per Vallecchi il libro di G. Baccetti, La varietà della natura (vedine il giudizio positivo di Niccolò Gallo in Scritti letterari di Niccolò Gallo, a cura di O. Cecchi, C. Garboli, G.C. Roscioni, Milano, il Polifilo, 1975, p. 73). Per quanto riguarda Bilenchi va ricordata inoltre la curatela, insieme a Berto Ricci, delle Lettere di Dino Garrone (Firenze, Vallecchi, 1938) e più tardi quella, insieme a Ottavio Cecchi, di Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, Roma, Editori Riuniti, 1984; mentre per volontà di Bilenchi le due opere postume di Luca Ghiselli pubblicate da Parenti nel 1942 (Poesie e Diario), curate insieme a Parronchi, risultano a cura solo del secondo (vedi A. Parronchi, L’amico scrittore, in Contributi critici a su Romano Bilenchi, a cura di L. Draghici e S. Coppini, Prato, Biblioteca Comunale “Alessandro Lazzerini”, 1989, p. 184). Dalle lettere di Eugenio Galvano conservate nel Centro Manoscritti di Pavia, infine, si apprende che Bilenchi fu «il curatore del […] primo libro di poesie presso Vallecchi» dello stesso Galvano (lettera del 30 marzo 1972; si tratta di E. Galvano, Poesie, Firenze, Vallecchi, 1935).
7 R. Bilenchi, Il silenzio dello scrittore, in Id., Le parole della memoria cit., p. 68.
8 M. Luzi e M. Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 24.
9 Per i Gettoni vedi almeno G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992 (capp. VII, VIII), e E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni», a cura di C. De Michelis, Milano, Scheiwiller, 1988; per «Le Silerchie» A. Cadioli, Letterati editori, Milano, il Saggiatore, 1995, pp. 144-158; per «Il tornasole» G.C. Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Milano, il Saggiatore – Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1999, pp. 89-103.
10 Vedi in proposito il cap. «Una nuova geografia dell’industria culturale», in G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’unità al post-moderno, Torino, Einaudi, 1999, pp. 181-191.
11 Brevi cenni in Storia dell’editoria dell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997, p. 399. Nell'”inchiesta” Milano com’è. La cultura nelle sue strutture dal 1945 a oggi, Milano, Feltrinelli, 1962, la scheda relativa a Lerici (sez. Editori a cura di E. Capriolo e R. Marimonti) attesta che la casa editrice, nata nel ’58 e diretta da Roberto Lerici, «è sorta proponendosi di svolgere una determinata e il più possibile precisa politica della cultura, non in senso settoriale ma in senso globale, continuando nell’opera di sprovincializzazione delle vecchie strutture culturali italiane, e favorendo l’inserimento delle nuove in un ambito culturale europeo» (pp. 440-441). Da segnalare, in particolare, l’attenzione riservata alla poesia, che nella «Collana dei poeti europei» pubblicò importanti antologie, come le Poesie di Machado a cura di Oreste Macrì (1961) e di Blok a cura di Angelo Maria Ripellino (Poesie, 1960); ma notevole anche il lavoro nel campo delle riviste: vedi l’antologia Il Politecnico, a cura di Marco Forti e Sergio Pautasso (1960), Solaria a cura di E. Siciliano (1958), La Nouvelle Revue Française a cura di Marco Fini e Carlo Bo (1965). Nel campo della narrativa erano tre le collane: «Narratori di oggi», «Narrativa» (con notevoli aperture alla cultura di lingua tedesca: H. Broch, R. Walser, R. Musil) e infine «Narratori» di Bilenchi e Luzi («prezzo medio l. 1000, tiratura media 2/3000 copie, ma alcuni volumi sono arrivati ad oltre 10.000 copie», secondo quanto afferma la scheda, p. 442). Un’eco notevole, soprattutto per l’introduzione di Alberto Moravia, suscitò l’antologia Racconti italiani a cura di G. Carocci (1959), e tuttora utile è l’antologia d’interviste Il mestiere di poeta, a cura di Ferdinando Camon, edita nel 1965; mentre per la saggistica vanno ricordati Le oscillazioni del gusto di Gillo Dorfles (1958) e Miti d’oggi di Roland Barthes (1962), libri entrambi successivamente ripresi da Einaudi e destinati a larga diffusione.
12 Va qui ricordato che prima dell’esperienza con Lerici Romano Bilenchi aveva avviato un analogo progetto con Sansoni: anzi, come risulta dai carteggi conservati nell’Archivio del Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (d’ora in poi abbreviato ACRT), nel ’56 aveva ricevuto da Federico Gentile il conferimento della direzione di una collana di narrativa. Il progetto tuttavia non andò a buon fine, in quanto Gentile non accettò la pubblicazione di un libro di Maria Luigia Guaita sulla Resistenza, proposto da Bilenchi come titolo di esordio (vedi il Catalogo delle lettere a Romano Bilenchi (1927-1989), a cura di G. Balestreri, B. Maisano, N. Trotta, premessa di M. Depaoli, Pavia, 1998, p. 198). Inoltre il rapporto con Lerici determinò l’uscita di Bilenchi dal Comitato Editoriale della Vallecchi, di cui lo scrittore faceva parte dal ’58 con Carlo Bo e Pietro Bargellini: «Non so cosa tu pensi di fare per il Comitato Editoriale del quale facevi parte, ma penso che il nuovo incarico te lo vieti», gli scrive Enrico Vallecchi il 17 febbraio 1959, appresa la notizia del rapporto con Lerici dello scrittore (ACRT: cfr. Catalogo cit., p. 413); e Bilenchi, di rimando: «La collana di Lerici è una cosa diversa dalla collana che si doveva fare con voi. Non si tratta di giovani, insomma. È, poi, meno faticosa. La situazione che comporta una direzione a tre mi aveva inoltre un po’ spaventato e penso che mi possiate, come ti dissi, sostituire con uno più adatto di me a sopportare inevitabili compromessi. Credo di avervi fatto un piacere a evitare le grane e i pasticci che sarebbero sorti in seguito. […] Penso anch’io che sarà bene mi sostituiate nel comitato editoriale, il quale, scusa la sincerità, mi sembra che non serva a nulla. Quando i libri arrivano lì sono stati già letti, accettati, ecc. E che ci rimane altro da fare?» (lettera a Enrico Vallecchi del 18 febbraio 1959 conservata nel Fondo Enrico Vallecchi dell’Archivio Bonsanti di Firenze).
13 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo, in Id., Le parole della memoria cit., p. 46.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 Vedi in particolare le prese di posizione sulla “questione del realismo” e sulla “crisi del romanzo” in Le parole della memoria cit., pp. 23-25 e 35-49.
17 Fornisco la lista con i dati essenziali nell’Appendice.
18 Lettera di Roberto Lerici a Romano Bilenchi dell’8 luglio 1959, ACRT: vedi Catalogo cit., p. 222.
19 Vedi Vittorini a Firenze, in Amici (R. Bilenchi, Opere cit., pp. 827-828).
20 Stagione di mezzo di Sergio Civinini è il «Gettone» n. 39 del 1955; e si veda il risvolto: «Letteratura della memoria, se ne dirà, e si farà il nome di Bilenchi…» (in E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni» cit., p. 112). Tra il ’49 ed il ’55 Civinini aveva pubblicato ventitre prose sul «Nuovo Corriere». Le lettere di Vittorini a Bilenchi con i giudizi su Civinini, del ’53-’54, sono conservate nel fondo pavese (Catalogo cit., p. 432).
21 La dichiarazione di Angelo Ponsi è il «Gettone» n. 46 del 1956; il «Nuovo Corriere» pubblicò sette racconti dello scrittore tra il ’48 ed il ’53. Per le lettere relative di Vittorini a Bilenchi in ACRT cfr. Catalogo cit., p. 432.
22 Le memorie del vecchio maresciallo è il «Gettone» n. 56 del 1958; ventitré i suoi contributi al «Nuovo Corriere» tra il ’49 ed il ’55.
23 «Gettone» n. 30 con Il sarto della stradalunga (1954), e presente con tre prose sul «Nuovo Corriere», tutte pubblicate nel ’56.
24 «Gettone» n. 7 con Il deserto della Libia (1952) e presente con undici racconti sul «Nuovo Corriere» tra il ’48 ed il ’50, ma – come rammenta anche il risvolto einaudiano – appartenente alla generazione precedente rispetto agli altri autori della collana.
25 «Gettone» n. 50; una scelta di racconti tratti dal volume dei «Gettoni» e dal Mascalzone edito da Lerici confluirà successivamente in A Viareggio aspettiamo l’estate, Torino, Einaudi, 1975.
26 «L’unico scrittore di sinistra che resti indipendente (libero) sei tu»: così Vittorini a Bilenchi nella lettera del ’48 riportata in Amici (R. Bilenchi, Opere cit., p. 815), e contenuta in E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977, p.168.
27 Così Bilenchi in Vittorini a Firenze (Opere cit., p. 817), e cfr. Id., Le parole della memoria cit., p. 164 («Era sì un giornale nuovo, basato anche sull’irruenza di Vittorini, ma si passava da Freud ai balletti indiani…»).
28 E. Vittorini, I risvolti dei «Gettoni» cit., p. 29.
29 La recensione è ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, t. II, Milano, Mondadori, 1996, pp. 2372-73, e vi si legge tra l’altro: «Il suo [di Bufalari] è un libro vivo, brulicante di figure da kermesse, scritto senza ricerche di stile, ma in verità scritto benissimo» (p. 2373). Accenni positivi alla Masseria sono anche nelle Cronache di narrativa di Luigi Baldacci, in Letteratura e verità. Saggi e cronache sull’otto e sul novecento italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, p. 350.
30 Lettera di Luzi a Bilenchi del 1960, n. 20 del Catalogo cit., p. 235.
31 Scritti letterari di Niccolò Gallo cit., p. 63.
32 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 316.
33 Ibidem.
34 R. Bilenchi (ma la firma è ACHAB), «Il menabò» nuova rivista di Vittorini e di Calvino, in «La Nazione Italiana», 1959, p. 3.
35 Vedi le interviste in R. Bilenchi, Le parole della memoria cit.
36 Si rammenti quanto in margine ad un attento sudio sulla genesi del Bottone di Stalingrado osservava nel ’72 Aldo Rossi: «non si dimentichi che Bilenchi (insieme a Luzi) ha patrocinato uno dei più radicali tentativi di rinnovamento romanzesco, quello di Antonio Pizzuto […]: per dire che l’aspetto ‘retrodatato’ della forma di un romanzo come Il bottone di Stalingrado (che a qualche lettore avverso fa venire in mente il defunto, forse mai vivo, realismo socialista) si appoggia su un retroterra di riflessioni, convinzioni e, perché no?, di concessioni che è molto più robusto di quello che può apparire a prima vista. certo si tratta di un libro covato, pensato forse venti anni fa, nonostante tutto molto ambizioso se s’incardina sull’uso della storia da parte di un romanziere» (A. Rossi, Elaborazione dell’ultimo romanzo di Bilenchi: i morti da preservare dal nemico, in «L’approdo letterario», 59-60, 1972, pp. 12-13).
37 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 317.
38 Vedi le osservazioni di Italo Calvino delle lettere a Viani in I. Calvino, I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991, pp. 421-422 e 434-435.
39 L’espressione è di Vittorini, citata in G.C. Ferretti, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, p. 240 (di «epica monellesca» parla il risvolto dei «Narratori»). Per l’antefatto della pubblicazione, vedi la lettera a Bilenchi di Viani del 5 dicembre 1957: «Il libro ‘Il mascalzone’ lo consegnai a Vittorini […] Calvino lodò il mio libro e la serietà con cui mi ero messo al lavoro, disse che ‘Il mascalzone’ gli piaceva di più dei ‘ragazzi della spiaggia’ ma mi consigliava di scrivere un romanzo vero e proprio e che i gettoni non si facevano più ecc. Insomma mi restituì il manoscritto, o meglio mi disse che lo aveva dato a Vittorini» (ACRT: cfr. Catalogo cit., p. 422).
40 Vedi R. Jacobbi, Pizzuto, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 9.
41 Vedi la bibliografia in R. Jacobbi, Pizzuto cit., pp. 97-98. Il romanzo, finito di stampare nel luglio del ’59, giunse alla seconda edizione nel settembre di quello stesso anno, per passare nel ’57 nella collana «Paperbacks». Qui in una Premessa dell’editore figurava una breve antologia della critica con brani delle recensioni di Giorgio Caproni, Paolo Milano, Ruggero Jacobbi, Luigi Baldacci, Giuliano Gramigna.
42 R. Jacobbi, Pizzuto cit., p. 9.
43 Così Luigi Baldacci in Cronache di narrativa cit., p. 238.
44 R. Jacobbi nella recensione a Ravenna, riportata in R. Jacobbi, O. Macrì, Lettere 1941-1981. Con un’appendice di testi inediti o rari, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 1993, p. 167.
45 Fu del resto negativa anche l’accoglienza da parte di Carlo Bo, poi entusiasta, invece, di Ravenna; e anche quella di Montale («Corriere della Sera», 14 ottobre 1959, ora in E. Montale, Il secondo mestiere cit., pp. 174-175) risulta spicciativa e con varie riserve.
46 A. Cadioli, L’esercizio critico di un ‘direttore editoriale’, in Id., Letterati editori cit., p. 163. Va tuttavia rammentato che Pizzuto fu tradotto in francia per un editore di prestigio, Gallimard.
47 Vedi quanto scriveva Baldacci sull’«Approdo» nel ’69: «Da Ravenna in poi [Pizzuto] ha subito la sorte di quegli scrittori che credono che l’incandescenza sia la sola temperatura possibile: la narrativa invece di stati tiepidi» (Ricette per il romanzo, in «L’approdo letterario», XV, 45, gennaio-marzo 1969; poi in L. Baldacci, Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 15).
48 S. Solmi, in Inchiesta sulle nuove tecniche narrative, in «il verri», IV, 1, 1960, p. 89.
49 L. Baldacci, in Inchiesta sulle nuove tecniche narrative cit., p. 68.
50 Così nella recensione su «Telesera» citata in R. Jacobbi, Pizzuto cit., p. 98.
51 L. Baldacci, Cronache di narrativa cit., p. 241.
52 Nella sua Prefazione al convegno Gli anni ’60: intellettuali e editoria osservava Cesare Segre che «Il ‘Gruppo 63′ rivoluzionava la geografia letteraria italiana, decretando tra l’altro la fine del mito di Firenze» (Atti del Convegno, Milano 7 e 8 maggio 1984, a cura di F. Brioschi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1987, p. 13). Il che è senz’altro vero, sul piano storico, per quanto riguarda il mito, appunto, ed i rapporti di potere in seno all’establishment culturale; quanto al senso della vicenda di quegli anni, è d’altra parte da rammentare quanto, a proposito di «Gruppo 63» e dintorni, scriveva Fortini in Due avanguardie: «Si ha l’impressione che la volontà di aggiornamento, di adeguamento, di sprovincializzazione sia stata sbagliata non nella sua méta ma nei suoi mezzi; mezzi, appunto, esclusivamente volontaristici. Per forza – si diceva una volta a Firenze – non si fa nemmeno l’aceto. […] Le esigenze editorial-mercantili premevano, è chiaro, perché si seguisse la via del rumore, del ‘movimento’, del ‘gruppo’; e allora si è stati costretti ad escogitare o riesumare tutte le teorie (surrealiste e dadà) che mescolavano azione ed espressione, gesto e parola, eccetera, aggiornandole con la nozione di opera aperta, di poesia visiva o tecnologica, con le esposizioni, le serate ed altre manifestazioni di attivismo» (in Avanguardia e Neoavanguardia, saggi di A. Barbato et al., Milano, Sugar, 1966, p. 17; poi in Verifica dei poteri, Milano, Garzanti, 1974). Sul tema vedi anche G.C. Ferretti, Il gruppo ’63 tra industria e letteratura, in Id., Il mercato delle lettere. Editoria, informazione e critica libraria in Italia dagli anni cinquanta agli anni novanta, Milano, il Saggiatore, 1994, pp. 157-169.
53 Vedi G.C. Ferretti, L’editore Vittorini cit., p. 292.
54 F. Fortini, Astuti come colombe, in «il menabò», 5, 1962, p. 32 (poi in Verifica dei poteri cit.).
55 Ancora Baldacci scriveva nel ’59: «Vedremo cosa ci dirà domani Pizzuto col nuovo romanzo che egli ha in preparazione. È certo che egli non potrà aprire una nuova via alla narrativa, se non a rischio di far cadere i suoi discepoli probabili nel più assoluto dei manierismi. In tal senso egli resta davvero un outsider» (Cronache di narrativa cit., p. 241).
56 Cfr. in proposito G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere cit.; in particolare Un’ipotesi di ricerca: Cassola, pp. 277-292.
57 «Se Cassola fosse, come si dice, uguale a Liala, che merito avrebbe Antonio Porta a scrivere come Beckett?»: la battuta è di Baldacci (Ricette per il romanzo cit., p. 14), e dice il vero meglio di un’indagine sociologica.
58 Per la precisione i titoli d’apertura della collana erano tre, comprendendo IX Ecloghe di Andrea Zanzotto, che è però una raccolta di poesie. Ringrazio Maria Luisa Finocchi della Fondazione Mondadori per le notizie in merito.
59 G. Gramigna, in «il verri» cit., p. 75.
60 Ivi, p. 76.
61 La prima traduzione italiana apparve nel 1931 per le edizioni Slavia, a cura di Angiolo Marcori. Sul romanzo vedi almeno A. Amoròs, La novela intelectual de Ramon Perez de Ayala, Madrid, Gredos, 1972.
62 Paola Pugliatti, in Scrittura e sperimentazione in Ford Madox Ford, a cura di R. Biancolini e V. Fortunati, Firenze, Alinea, 1994, p. 112.
63 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo cit., p. 45.
64 Ivi, p. 47.
65 Ibidem.
66 R. Bilenchi, Ancora sul romanzo cit., p. 49.
67 R. Bilenchi, Levo, piallo, districo nodi, in Id., Le parole della memoria cit., p. 219.
68 Si legga in proposito la recensione di Baldacci raccolta in Cronache di narrativa cit., pp. 263-266.
69 Come Bilenchi racconta in Amici (Opere cit., p. 827), il libro di Tomasi di Lampedusa fu per lui una delle rare occasioni di dissenso da Vittorini, il quale aveva rifiutato il romanzo per i «Gettoni» e successivamente ne aveva sconsigliato la pubblicazione a Mondadori (vedi G.C. Ferretti, L’editore Vittorini cit., p. 268).
70 E. Montale, Il secondo mestiere cit., p. 2325.
71 R. Bilenchi, Un siciliano grande, anzi grandissimo, in «La Sicilia», 4 giugno 1987, poi in Romano Bilenchi da Colle di Val d’Elsa a Firenze. Immagini e documenti, Milano, Scheiwiller, 1991, p. 78.
72 Dizionario della letteratura italiana contemporanea, vol. 1, Movimenti letterari – Scrittori, a cura di E. Ronconi, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 327-328.
73 E. Ghidetti e G.Luti, Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1997. Si può aggiungere che Fiore è titolare di dodici righe, bibliografia inclusa, del Dizionario bio-bibliografico della Letteratura italiana diretta da Asor Rosa (Torino, Einaudi, 1990, p. 790).
74 Un breve ma attento profilo è ora in rete; e va segnalata la ripresa di alcuni titoli per merito di piccoli e coraggiosi editori come Isbn (Il supplente, 2010), Pungitopo (L’incarico, 2014), Mesogea (L’erede del beato; Un caso di coscienza e altri racconti, 2004).
75 Vedi la recensione su «Epoca», 18 ottobre 1964.
76 Dizionario della letteratura italiana contemporanea cit., p. 327.
77 A. Fiore, Il supplente, Firenze, Vallecchi, 1964; Id., Il lavoratore, Firenze, Vallecchi, 1967; a cui seguiranno L’incarico, Firenze, Vallecchi, 1970; Domanda di prestito, Firenze, Vallecchi, 1976; Racconti, Catania, Tifeo, 1990; Diario d’un vecchio. Inediti, a cura di S. Collura, Catania, Tifeo, 1991, e L’erede del Beato, Milano, Rusconi, 1981.
78 L. Baldacci, Ricette per il romanzo cit., p. 15.
79 Le lettere di Materassi a Bilenchi in proposito sono conservate all’Università di Pavia (ACRT, Catalogo cit., p. 264). Quelle di Bilenchi fanno parte dell’archivio personale di Mario Materassi che ce ne ha cortesemente fatto avere copia, e qui si ringrazia di cuore: la prima lettera relativa a Call it sleep è del 23 ottobre 1961, da Firenze, e Bilenchi vi riferisce di aver scritto a Lerici perché ne acquisti i diritti («Se non lo farà lo darai a un altro editore»); ne seguono due che trattano di questioni attinenti la traduzione ed i tempi di pubblicazione (2 giugno 1962 e 6 agosto 1962).
80 Vedi per la pubblicazione di H. Broch, L’incognita (1962) le lettere del traduttore, Aurelio Ciacchi (Catalogo cit., p.122), quella di Giovanni Comisso per Il soldato nudo di G.P. Bona (1961; cfr. Catalogo cit., p.129) e quelle di Francesco Tentori e Marianello Marianelli per testi e traduzioni di letterature straniere (Catalogo cit., pp. 394, 261).
81 Per i risvolti “d’autore”, oltre a alla Prefazione di De Michelis a E. Vittorini, I risvolti cit., pp. 11-30, sono da vedere almeno E. Sanguineti, Far vedere i libri, in G. Debenedetti, Preludi. Le note editoriali alla «Biblioteca delle Silerchie», Roma-Napoli, Theoria, 1991, pp. 7-12, e A. Cadioli, L’esercizio critico di un “direttore editoriale”: Giacomo Debenedetti, in Id., Letterati editori cit., pp. 144-158.
82 Lettera dell’8 marzo 1962 (ACRT, n. 2 Catalogo cit.). Nieri è un altro versiliese, il cui patron iniziale era stato Malaparte. Dei racconti passatigli da Bilenchi, dopo la morte di Nieri, scrive Calvino: «alcune idee sono assai belle. Ma i racconti così come sono, riportano a un clima un po’ vecchiotto: non tanto Kafka, quanto Karel Capek, e più in là ancora Maeterlinck. Se l’autore fosse vivo si direbbe: è uno da tener d’occhio, e seguire e consigliare. Purtroppo la morte ha troncato i possibili sviluppi del suo talento» (lettera del 27 aprile 1966; ACRT, n. 18 Catalogo cit.).
83 Lettera del 5 dicembre 1957 (ACRT, n. 10 Catalogo cit.).
84 Vedi la sezione Lettere in Romano Bilenchi 1999, numero Speciale di «Erba d’Arno», 78, autunno 1999.
85 Analoghe testimonianze si debbono a Claudio Piersnti, Goffredo Fofi, Grazia Cherchi; ma anche se ne possono leggere negli scritti di Angelo Australi, Romano Bilenchi. Ricordo in forma di racconto, Colle di Val d’Elsa, Associazione Amici di Romano Bilenchi, 2019; e Paolo Buchignani, L’orma dei passi perduti, Argot Libri, 2022.
86 Lettera dell’1 novembre 1962 (ACRT, n. 5 Catalogo cit.). Non diversamente Antonio Bartoli (1960, n. 17) scriveva a Bilenchi per ringraziarlo dell’attenta lettura di Gli uomini alti: vedi A. Cadioli, Le diverse pagine. Il testo letterario tra scrittore, editore, lettore, Milano, il Saggiatore, 2012, p.
87 Rinvio qui alle puntuali osservazioni di Alberto Cadioli in La fine del letterato editore, in Id., Letterati editori cit., pp. 197-205.