In ascolto di Luigi Nono sugli enigmi del viaggio interiore
Giancarlo Gaeta

Pubblichiamo, ringraziando l’autore, l’intervento di Giancarlo Gaeta in occasione del Festival Luigi Nono 2023. Celebrazione dei 30 anni della Fondazione Archivio Luigi Nono.

La musica più bella è quella che accorda il massimo di intensità a un istante di silenzio, che costringe chi ascolta ad ascoltare il silenzio. Dapprima, mediante il concatenamento dei suoni, lo si porta al silenzio interiore; poi vi si aggiunge il silenzio esteriore.
(Simone Weil)

Invece di ascoltare il silenzio, invece di ascoltare gli altri, si spera di ascoltare ancora una volta se stessi.
(Luigi Nono)

Mi è stato a lungo difficile dare una forma comunicabile alla quantità di pensieri, di emozioni, di sorprese che hanno suscitato in me l’ascolto della musica di Nono e la lettura dei suoi scritti. Finché dal bagaglio delle mie conoscenze non è emerso un riferimento storico apparentemente remoto, che mi ha consentito di cogliere qualcosa di rilevante circa il senso complessivo della sua ricerca umana e artistica. Quando è successo mi si è aperto un mondo, che non pretendo possa dirsi senz’altro il mondo di Luigi Nono, ma neppure, credo, soltanto una mia suggestione. Ecco dunque in breve il risultato provvisorio di un viaggio complicato.

Per mettersi in cammino occorre alzarsi e fare il primo passo; ma cosa spinge ad andare se non c’è un compito immediato da assolvere o una meta stabilita da raggiungere?

Ci sono tuttavia casi particolari: un’inquietudine, un’aspirazione indefinita, un presentimento del proprio destino o, più nel profondo di sé, il sentimento del mistero del vivere, l’aspirazione ad una pienezza che non si può ottenere da sé. Allora si tentano vie; ma non è lo stesso se è l’intelligenza del mistero a suscitare la volontà o, al contrario, è la volontà che successivamente l’intelligenza interviene a qualificare.

In effetti c’è stato un tempo, oramai di altra epoca, in cui capitava che ci si mettesse in cammino sulle orme di altri per una strada tracciata; ma non è stata più questa la disposizione dal momento in cui il mistero, non più offerto alla visione comune, è passato per così dire alle spalle, cosicché occorre oramai muoversi appellandosi innanzitutto alla volontà.

Questa, credo, sia stata la disposizione interiore di Luigi Nono, a partire dal momento in cui ha fatto la scelta irrevocabile della musica a prescindere dagli anni di studio già frequentati, e lo ha fatto affidandosi a qualcuno che lo avrebbe guidato nel nuovo «cominciamento». Cosicché egli si è insediato d’un tratto nella musica senz’altra preoccupazione che apprendere a pensarla. A torto o a ragione, questa è l’immagine che mi sono fatto di lui; ad essa provo a dare consistenza, anche a costo di dirne molte cose superflue e fuori luogo prima di arrivare forse a dirne qualcuna di pertinente.

Nono è stato come pochi altri partecipe della vicenda storica contemporanea, misurandosi a modo suo con gli enigmi che essa gli proponeva. E tuttavia man mano che ho preso confidenza col suo sentire e modo di formulare i pensieri, mi è sembrato che egli avrebbe trovato più confacente al suo spirito la Spagna del Cinquecento. Non soltanto per l’ammirazione da lui manifestata nei riguardi della musica spagnola tra Quattrocento e Seicento,1 ma per la straordinaria novità della ricerca spirituale che a suo stesso dire vi fiorì. Ho immaginato Nono vagabondare come novello don Chisciotte in cerca degli «infiniti possibili», oppure in dialogo con Teresa d’Avila sugli enigmi del viaggio interiore, o ancora teso a seguire il pensiero poetico di Giovanni della Croce in una disposizione di puro ascolto. Non per nulla egli ha finito con l’incontrare a Toledo la metafora del sentiero tracciato esclusivamente dal proprio andare. Sì, credo che la Spagna mistica sarebbe stata per lui un luogo dell’anima più significativo della Germania intellettualista a lungo frequentata; importante certo, ma più per esser stata luogo di sperimentazioni e campo di battaglia ideologico che non un approdo. Perché questo, mi sembra, è stato la musica per lui, un esperimento di vita non meno intensamente vissuto di quanto lo fu da parte di quegli spirituali, indotti dalle condizioni del loro tempo ad inoltrarsi per vie ignote.

Provo dunque ad intrattenermi su una prossimità forse azzardata, ma che in ogni caso aiuta me a comprendere qualcosa, se non propriamente della musica di Nono, quanto meno di ciò che egli ha sentito e voluto per darle forma ed espressione uniche. Mi avvalgo in questo di ciò che della ricerca dei mistici moderni ha genialmente messo in luce il suo massimo storico ed interprete, Michel de Certeau, e di quanto per altro verso Luigi Nono ha appassionatamente raccontato della propria ricerca.

Trovo innanzitutto consono all’atteggiamento intellettuale e morale di Nono il proposito, che era stato di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, di dare inizio a una nuova realtà spirituale in forza del diritto riconosciuto a se stessi di nominare altrimenti i modi per dire l’esperienza interiore.

A proposito della propria ricerca musicale, Nono usa spesso la locuzione «fare in modo che…»; ad esempio: «fare in modo che lo spazio stesso incominci a “cantare”»; oppure parla della necessità di «studiare in un altro modo», affinché ciascuno trovi «la propria specificità, la propria ragione di vivere, la propria ragione di poter parlare con gli altri».2 E non certo per vezzo di novità, ma in ragione della consapevolezza di «essere entrati in un’epoca completamente nuova», destinata a «trasformare la nostra vita, il nostro sentire, la composizione della società stessa».3

È innanzitutto questa disposizione ad accomunare la ricerca di Nono a quella di quanti agli inizi della modernità avvertirono acutamente il venir meno di un contesto entro il quale il proprio dire l’esperienza interiore potesse risuonare ancora, senza essere umiliato dall’ortodossia religiosa controriformista o dall’emergente ideologia razionalista. Nell’epoca in cui la questione di come esprimere il rapporto con Dio subiva il contraccolpo della crisi che ha modificato l’intera civilizzazione occidentale rinnovandone gli orizzonti mentali, i criteri intellettuali e l’ordine sociale, fu necessario cercare in se stessi una certezza e una regola che non poteva più venire da un universo di convincimenti oramai in frantumi. Ci fu allora da parte di personalità e gruppi di spirituali la volontà di circoscrivere lo spazio di un ricominciamento e definire i metodi della nuova costruzione richiesta dal proprio tempo. In particolare ci fu l’esplorazione di tutti i modi teorici e pratici della comunicazione in cerca di un linguaggio unitario, di un «parlare comune dopo la frattura» babelica; niente di meno, afferma Certeau, che «l’invenzione di una lingua “di Dio” o “degli angeli”».4

Ora, la percezione che Nono ha avuto del proprio e nostro tempo, che sulla scia di Hölderlin definiva «oscurissimo e infausto», si fonda su motivi prossimi a quelli che avevano condotto quegli spirituali ad una duplice consapevolezza, in cui la memoria di ciò che si stava perdendo potenziava l’aspirazione a colmare un vuoto che altrimenti avrebbe risucchiato in sé il futuro.5 Vedo dunque in Nono il ripetersi, seppure in condizioni storiche assai diverse, di un’esigenza di ricominciamento, che egli sapeva di condividere con quanti, da Hölderlin e Mallarmé fino a Kafka, Rilke, Jabès, avevano saputo «conservare in un presente difficile una capacità di creazione e di invenzione indirizzata verso qualcosa, o un tempo, che può essere utopico e visionario».6 Della prossimità e importanza di questi autori per l’arricchimento della musica di Nono si è giustamente scritto molto, ma forse senza valutare appieno la ragione di una comunanza che andava oltre l’ammirazione e la condivisione ideale. In essi egli riconobbe un sentimento della vita e un modo di stare al mondo che aveva come effetto di rendere evidente una loro estraneità di fondo alla società del proprio tempo. Emblematica è al riguardo la ragione che lo portò a cambiare opinione circa il valore di Hölderlin, che dapprima gli apparve un poeta accademico, salvo riconoscerne poi una grandezza che lo aveva posto ai margini della società letteraria e condotto infine alla reclusione; un eretico imbarcato sulla nave errante dei folli in compagnia di «liberi pensatori, alcuni dei quali considerati insani di mente, quindi portatori di disordine, addirittura appestatori».7 Un Hölderlin che Nono non credeva pazzo, pensava piuttosto che si fosse isolato dal mondo come un anacoreta di altri tempi per dire su di esso la verità.

Mi ha sorpreso ritrovare in Nono l’immagine quattrocentesca della nave dei folli, che può altresì considerarsi l’insegna di Fabula mistica, il grande studio di Certeau sulla spiritualità tra Cinquecento e Seicento che inizia appunto con le storie antiche dei «folli di Dio», schegge di tradizione che avrebbero anticipato le figure dei mistici moderni, a loro volta prossimi a quelle personalità di artisti, pensatori e politici che Nono immaginava vagabondi sulle acque del Reno. Nono e Certeau hanno vissuto quasi esattamente lo stesso tratto del Novecento, e trovo comunque significativo che per entrambi sia stato l’impatto col proprio tempo a far sì che si specchiassero in esperienze del passato ricche di significato per il presente.

Certo, la figura del passato a cui essi si sono rivolti non è stata la stessa, ma temporalmente si tratta dei secoli che hanno preceduto il Settecento illuminista. Epoca che musicalmente per Nono affonda nel Quattrocento e risuona ancora in Haydn e Mozart.8 Trovo significativa al riguardo la riprovazione di Nono verso i contemporanei definiti «incapaci di portare avanti, in altro modo, inattese e sorprendenti possibilità di sviluppo di tradizioni abbandonate risalenti al XV, XVI E XVII secolo»; cosa che denotava a suo avviso «chiusura e ostilità nei confronti dell’inatteso e del sorprendente». Un patrimonio storico che egli contrappone all’attuale «inquinamento sonoro», definito uno «strazio dell’ascolto e dell’orecchio che impedisce, ovunque, la conversazione, il sentimento di sé, la parola; cosicché si impediscono le “trasformazioni” del parlare, del sentire, del conversare».9 Ebbene, questi sono altresì temi centrali in Fabula mistica, laddove sono appunto in questione le «maniere di parlare», il «conversare», la capacità di ascoltarsi e di ascoltare in una congiuntura storica, da Teresa d’Avila a Fénelon, che imponeva trasformazioni radicali sotto la spinta di organizzazioni del sapere e del potere che spezzavano il modello di comunicazione basato sulla relazione.

A me sembra che Nono abbia vissuto il proprio tempo e reagito ad esso con analoga sensibilità e intelligenza dello stato reale delle cose. Non a caso ha perseguito a sua volta una cultura dell’ascolto mobile piuttosto che la cultura statica del «credo», il credo cattolico, ma anche per altro verso quello scientista.10 Questo ha fatto sì che nell’atto stesso di far proprie le conquiste che gli consentivano di sviluppare al di là dell’immaginabile la ricerca sul suono, egli le rendesse funzionali non solo alla pura acquisizione di nuovi effetti sonori, ma a dare altresì espressione a un conflitto di sentimenti che l’innovazione tecnologica potenziava. Al punto che nella conversazione con Enzo Restagno sente il bisogno di giustificare il suo molto parlare di sentimenti, che potevano sembrare poco consoni a una ricerca musicale legata alla tecnologia, ma per lui indissociabili dalla natura stessa della musica, alla quale riconosceva il potere di «combinare momenti sensoriali e psichici, intellettuali, istintivi, razionali e irrazionali, […] che spaccano e scombinano su piani diversi il tempo, lo spazio, il corporeo e l’incorporeo, il reale e il magico».11 Di qui il contrasto con la radicalità scientifico-razionale dell’amico Stockhausen, nel convincimento che la musica resta un’esperienza del singolo aldilà dell’apporto prezioso dell’analisi razionale.12

Ma ciò che più conta, a mio avviso, è il modo singolare quanto qualitativamente superiore con cui Nono si è confrontato col proprio tempo, di cui non era disposto ad accettare il versante oscuro, avvertito come «una specie di polipo centralizzatore che vuole con i suoi tentacoli afferrare ogni cosa e ridurre tutto all’unità di un’unica volontà tristemente di massa», opposto dunque al potere dell’arte di spaccare e scombinare lo stato delle cose.13 Ma a questo punto si aprivano per lui e si pongono a noi che cerchiamo di comprenderlo i problemi di fondo. Perché non basta volersi opporre ad una realtà storica risentita negativamente, occorre attraversarla indagandone i caratteri e proponendo fattivamente la propria intelligenza della realtà come nuovo punto di partenza. È ciò che Nono ha fatto ostinatamente, tentando le vie di una scienza nuova del linguaggio musicale, che utilizza sì le conquiste della scienza contemporanea – «la musica è simile alla fisica» afferma riferendosi alla meccanica quantistica14 –, ma piegandole a significare l’umano nella sua complessità e movimento, in una situazione storica che tende piuttosto a limitarlo per ordinarlo.

«Una realtà nuova richiede una parola nuova», affermava Lorenzo Valla a metà del Quattrocento; l’eco di questa consapevolezza giunge fino a Nono – e ad alcuni altri grandi spiriti del Novecento –, ma in una congiuntura storica che a lui svelava la necessità di un trascendimento della parola stessa, risolta nella ricerca della sua incarnazione nel suono. Un approdo che Massimo Mila aveva preconizzato dopo l’ascolto di Prometeo, definito «un dramma del suono, o piuttosto nel suono: un’azione sacra di nessuna religione, né prometeica né ebraica né cristiana, bensì un’azione che si svolge nelle interne fibre del suono».15 In effetti, le maniere in cui si è sviluppato il suo pensiero musicale a me sembrano effetto di un movimento che cerca di liberarsi dalla presa del moderno, non perché lo rifiuti, tutt’altro, bensì per spezzarne i limiti anche grazie agli apporti da un passato lontano avvertiti come vitali.

Di qui ad esempio il richiamo all’ars combinatoria dei grandi trattatisti del Cinquecento o, in Zarlino, alla «combinazione tra numerologia musicale e una percezione acustica del fenomeno musicale del tutto assolta da momenti soggettivi, sentimentali, figurativi, ecc.».16 Di modo che l’attenzione risulti posta sulla dimensione originaria dell’ascolto piuttosto che sulla significazione. Dunque, mentre cercava nuove vie puntando sul potenziamento dell’ascolto, Nono stabiliva una continuità con specifiche tradizioni musicali di un passato non semplicemente rivisitato, bensì riscoperto nella sua complessità a contrasto con una pratica europea che giudicava «sempre più generalizzante, incamminata verso un massimo di semplificazione e di equivalenza, verso una concezione massiva»,17 senza risparmiare la «nuova musica» di cui pure egli era partecipe.

Questo ha significato rompere le regole del gioco per ricercare «nuovi cammini», che personalmente si sono rivelati per lui «anche di solitudine quotidiana, di quotidiane emarginazioni».18 E ha comportato un grande lavoro compiuto parimenti su se stesso e sul grande corpo della musica. È su questo che va misurata una grandezza generata, oltre che dal genio musicale, da una sensibilità intellettuale e morale che lo ha reso partecipe e responsabile del proprio tempo. Non per caso egli si è riconosciuto nella costellazione di artisti e pensatori che tra Otto e Novecento hanno riflettuto sul mistero della creazione intellettuale, alla quale riconosceva un enorme potenziale di «liberazione della vita nella sua problematica complessità».19 Basta scorrere il lungo elenco degli autori contemporanei a cui Nono ha attinto per le sue composizioni per rendersi conto che ai suoi occhi essi dovevano costituire, pur nella diversità delle espressioni culturali, un movimento di resistenza all’interno dell’ideologia borghese portandone all’estremo le contraddizioni.

Centrale al riguardo è la riflessione di Nono sul rapporto parola-suono per come si era sviluppato nel corso dei secoli fino a Schönberg, che aveva voluto rendere autonoma la composizione musicale nei confronti del testo a scapito del privilegio accordato nel passato al contenuto semantico. Esito importante, ma che egli giudicava insufficiente, perché riteneva che nella trasposizione musicale il testo non dovesse diventare un fatto puramente sonoro, ma andasse al contrario compreso ulteriormente nella sua pregnanza fonetica e semantica, «in quanto – scrive già nel 1960 – la parola possiede caratteristiche e qualità che la caratterizzano come particolare elemento strutturale e formativo di una composizione musicale, caratteristiche e qualità che non possono venire eliminate».20 Nono cerca piuttosto nuove possibilità di combinazione degli elementi fonetici e semantici del testo cantato, combinati in modo tale che ciò che li accomuna «risulti formulato con un’intensità potenziata».21 Se capisco bene, Nono parte dal convincimento che il materiale fonetico faccia indissolubilmente corpo con il significato,22 e che perciò la semplice trasposizione di sillabe, vocali e consonanti nella composizione musicale basta a ricreare l’espressività del testo, in «una fusione del contenuto musicale e semantico della parola cantata».23

Perciò a proposito di Il canto sospeso rivendica contro Stockhausen la non arbitrarietà dell’utilizzo di passi dalla lettere dei condannati a morte della Resistenza, anche se le parole cantate risultano pressocché tutte inintelligibili, dal momento che «il testamento spirituale di queste lettere è diventato l’espressione della mia composizione».24 Il caso limite è rappresentato da Fragmente Stille, an Diotima, dove i versi di Hölderlin riportati in spartito restano non detti durante l’esecuzione; sono cioè presenti agli interpreti, non agli ascoltatori. Tuttavia Nono precisa che le parole scritte in spartito devono servire a nutrire l’interiorità degli interpreti nella loro autonomia e nell’autonomia della musica, in cerca di «un’armonia delicata della vita interiore»,25 e quindi nutrire l’interiorità degli ascoltatori indipendentemente dall’eventualità che essi le abbiano presenti. È attraverso la qualità dell’esecuzione e dell’ascolto che il contenuto umano dei versi di Hölderlin trova attualmente espressione. Cosicché l’ascolto non avviene in condizioni statiche, ripetitive, ma nella tensione del rapporto con l’altro da sé.

Da queste considerazioni mi sembra si possa concludere che Nono abbia cercato le condizioni per l’espressione di un linguaggio nuovo attraverso il medium della musica. Un linguaggio aperto e plurale, di cui la sperimentazione in campo musicale manifestava l’urgenza e insieme segnava una traccia, così come la poesia di Hölderlin o il pensiero di Wittgenstein. Ma quale consapevolezza muoveva Nono, impegnandolo su una via difficile e controversa? La risposta mi sembra di trovarla in un passo dei suoi scritti in cui dice in estrema sintesi il problema con cui si è trovato sin dall’inizio a confrontarsi: «Risvegliare l’orecchio, gli occhi, il pensiero umano, l’intelligenza, il massimo dell’interiorizzazione esteriorizzata. Ecco l’essenziale oggi».26 Sarebbe quindi lo stato attuale della società ad imporre una rottura dell’ordine verbale per provare ad uscire dal caos di cui si nutre «il polipo centralizzatore». Egli avrebbe affidato alla sua musica il compito di rendere «udibili» contenuti umani che non giungono più o non sufficientemente attraverso il medio verbale.

Sarebbe dunque questo quel che sta a significare l’operazione di frammentazione della parola poetica, i cui pezzi trasposti nella composizione musicale sono pensati dal compositore come «istanti molteplici, pensieri, silenzi, “canti” di altri spazi, di altri cieli, per riscoprire in altro modo il possibile, per non dire “addio alla speranza”».27

In questo modo Nono ha sviluppato ciò che Etty Hillesum ebbe a definire «una vera coscienza storica»,28 cioè una coscienza che si sottrae all’inerzia del continuum temporale per applicarsi a dar voce all’infinito celato nei frammenti di una cultura smembrata e a stabilire tra di essi un rapporto che apra su un «altro infinito, forse dicibile, forse no». «Tale è il problema – annotava il compositore nel programma di sala per la prima di Fragmente-Stille, an Diotima – da quando Wittgenstein, da quando l’immaginazione creatrice (con nuove tecniche) tenta di scoprire o crede di aver scoperto nuovi cieli, nuovi spazi e nuove possibilità (multiple, come Robert Musil)».29

Con ciò non sono affatto sicuro di aver capito davvero la disposizione interiore di Nono, tanto meno il suo pensiero musicale, ma mi appare chiara la questione di fondo che egli ha posto con molta nettezza spendendosi fino all’ultimo; cioè la questione relativa a questo tempo «oscurissimo» e del compito dell’artista o del poeta o del pensatore disposto ad assumersene la responsabilità mettendo in gioco il patrimonio storico del proprio sapere. Chiaro è altresì l’obiettivo da raggiungere, che rovesciava lo stato delle cose: «il massimo dell’interiorizzazione esteriorizzata»; una formula pregante che allude a saperi oscurati dallo stato attuale della cultura drammaticamente carente di vita interiore. Uno stato di disordine che gli ha imposto di distinguersi anche dai promotori della «nuova musica»,30 al fine di definire i modi per la costruzione di un linguaggio musicale altro rispetto a quello promosso dalle tendenze d’avanguardia. Né poteva essere diversamente, dal momento che egli ha cercato di radicare la novità in un passato le cui potenzialità erano state ai suoi occhi isterilite a partire dalla fine del Settecento. Nella sua ricerca musicale c’è stata ad un tempo innovazione e restaurazione, e perciò una tensione mai venuta meno che lo collocava dentro e fuori del mondo a cui apparteneva. E più in profondità, c’è stata in lui la certezza che solo mantenendo attiva questa tensione gli sarebbe stato possibile mettere a disposizione del futuro, prossimo o remoto, un lascito pronto a riemergere in configurazioni nuove. È così che capisco «la nostalgia del futuro» provata da Nono, non soltanto un sentimento, ma altresì un atto di fede nell’umano.

Venezia, 10 novembre 2023

Note

1 L. Nono, Altre possibilità di ascolto [1985], in Id., La nostalgia del futuro. Scritti e colloqui scelti 1948-1989, Milano, il Saggiatore, 2019, p. 451.

2 L. Nono, Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno, ivi, p. 461.

3 Ivi, p. 451.

4 M. de Certeau, Fabula mistica I, Milano, Jaca Book, 2017, p. 181.

5 Uno stato d’animo che E. Restagno ha colto molto bene nel corso della sua eccellente conversazione con Nono (Un’autobiografia dell’autore cit., p. 453).

6 Ivi, p. 555.

7 Ivi, p. 528.

8 Verso Prometeo. Conversazione tra Luigi Nono e Massimo Cacciari raccolta da Michele Bertaggia, in L. Nono, La nostalgia del futuro cit., p. 147.

9 L. Nono, Altre possibilità di ascolto cit., p. 451. In una lettera non datata a Massimo Cacciari, Nono si pronuncia «Contro l’ascolto dal ’700 ad oggi» (cit. in M. Nanni, Politik des Hörens. Zu Lebensbakeit Luigi Nonos, Hofheim, Wolke Verlag, 2022, p. 207).

10 L. Nono, Un’autobiografia dell’autore cit., p. 542.

11 Ivi, p. 529.

12 Così Alvise Vidolin citato in N. Cisternino, L. Nono, Caminantes. Una vita per la musica, intrecci e testimonianze, Padova, Il Poligrafo, 2021, p. 219.

13 L. Nono, Un’autobiografia dell’autore cit., p. 528.

14 In proposito Nono mette in risalto il carattere sperimentale della ricerca musicale in consonanza con la specificità delle scienze contemporanee (Conferenza alla Chartreuse di Villeneuve-lés-Avignon, in L. Nono, La nostalgia del futuro cit., p. 457 sg.). Non è forse irrilevante che la letteratura mistica del Seicento, nel passaggio dall’universo medievale alla modernità, sia approdata alla formulazione di una «scienza sperimentale» della vita spirituale.

15 Citato in N. Cisternino, L. Nono, Caminantes cit., p. 57.

16 Verso Prometeo cit., p. 151.

17 Ivi, p. 149.

18 Vedi L. Nono, Vedi Un’autobiografia dell’autore cit., p. 527.

19 L. Nono, Per Enrico Berlinguer [1984], in Id., La nostalgia del futuro cit., p. 422.

20 L. Nono, Testo – musica – canto [1960], ivi, p. 108.

21 A titolo di esempio Nono porta il terzo brano di Il canto sospeso dove c’è sovrapposizione di tre testi diversi (ivi, p. 119).

22 Ivi, p. 122.

23 Ivi, p. 127.

24 Ivi, p. 128.

25 Si veda L. Feneyrou, «Fragmente Stille, an Diotima» de Luigi Nono, Genève, Éditions Contrechamps, 2021, p. 36.

26 L. Nono, L’errore come necessità [1983], in Id., La nostalgia del futuro cit., p. 437.

27 Citato in L. Feneyrou, «Fragmente Stille, an Diotima» de Luigi Nono cit., p. 36.

28 Proprio ciò che non sta accadendo, osserva Nono: «Ci vuole troppo coraggio e troppa forza per guardare in faccia il proprio tempo e per prendere in esso decisioni»; più facile perseverare nella «fallita intronizzazione dell’io, propria degli ultimi secoli» (L. Nono, Presenza storica nella musica d’oggi [1959], in Id., La nostalgia del futuro cit., p. 275).

29 Citato in L. Feneyrou, «Fragmente Stille, an Diotima» de Luigi Nono cit., p. 35.

30 «io non mi sento risolto oggi, in questa società, cioè non mi sento risolto nella possibilità di partecipazione…» (Colloquio con Luigi Nono su musica e impegno politico di Michele L. Straniero [e Gianni Bosio], in L. Nono, La nostalgia del futuro cit., p. 246).