Per Leone Ginzburg
1909-1944
Claudio Pavone, Natalia Ginzburg

Ottant’anni fa, nella notte fra il 4 e il 5 febbraio 1944, Leone Ginzburg moriva a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in seguito alle torture degli aguzzini nazisti. Lo ricordiamo con una testimonianza dello storico Claudio Pavone e con una poesia di Natalia Ginzburg.

Il gruppo di detenuti con cui ebbi maggiori rapporti furono gli azionisti arrestati dopo di me nella tipografia clandestina di via Basento dove si stampava «L’Italia libera». Ero nella mia cella e dalla porta socchiusa vidi spuntare la faccia sorridente di Carlo Muscetta che mi fece con la mano un cenno d’intesa come a dire: «Come vedi ci sono anche io». Lui mi condusse dai suoi compagni: Mario Fiorentini, Leone Ginzburg, Giuseppe Martini, Giuseppe Orlando, Manlio Rossi-Doria […]. Con loro organizzammo un ciclo di conferenze da tenere la notte nella mia cella. […] Ginzburg parlò di Dostoevskij; Martini del Medioevo; Muscetta di Manzoni; Rossi-Doria dell’agricoltura italiana. […]

Un pomeriggio, molto prima dell’ora in cui i detenuti dovevano rientrare nelle celle, le guardie, con modi particolarmente bruschi e agitati, costrinsero tutti a rientrare immediatamente nelle celle, con l’assoluto divieto di uscirne o anche solo di guardare dallo spioncino. Nel braccio stavano entrando i tedeschi. Erano come poi verranno raffigurati nei film neorealisti: avevano in testa l’elmetto, intorno al collo luccicanti nastri di proiettili, bombe a mano infilate nella cintura, i mitra in mano. Dagli spioncini socchiusi ogni tanto per qualche secondo si riuscivano a vedere. Ad alta voce fu pronunciato dal capoguardia il nome Ginzburg e dopo un paio di minuti l’ebreo Leone fu consegnato ai tedeschi. Con il suo strapazzato vestito blu e la sua carnagione scura spiccava fra le pesanti divise verdognole dei suoi nuovi carcerieri. In quel momento qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave: era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via.

[Claudio Pavone, La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, Roma, Donzelli, 2015, pp. 40-42]

Memoria

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano cibi e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
Solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
Che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
A guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada nessuno ti è accanto.
Se hai paura nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata. La città illuminata è degli altri,
Degli uomini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra
E guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
E deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

8 novembre [1944].

[Natalia Ginzburg, Memoria, in «Mercurio», I, 4, dicembre 1944, p. 165; poi in Ead., Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, a cura di D. Scarpa, Torino, Einaudi, 2016, p. 115]