Il gruppo di detenuti con cui ebbi maggiori rapporti furono gli azionisti arrestati dopo di me nella tipografia clandestina di via Basento dove si stampava «L’Italia libera». Ero nella mia cella e dalla porta socchiusa vidi spuntare la faccia sorridente di Carlo Muscetta che mi fece con la mano un cenno d’intesa come a dire: «Come vedi ci sono anche io». Lui mi condusse dai suoi compagni: Mario Fiorentini, Leone Ginzburg, Giuseppe Martini, Giuseppe Orlando, Manlio Rossi-Doria […]. Con loro organizzammo un ciclo di conferenze da tenere la notte nella mia cella. […] Ginzburg parlò di Dostoevskij; Martini del Medioevo; Muscetta di Manzoni; Rossi-Doria dell’agricoltura italiana. […]
Un pomeriggio, molto prima dell’ora in cui i detenuti dovevano rientrare nelle celle, le guardie, con modi particolarmente bruschi e agitati, costrinsero tutti a rientrare immediatamente nelle celle, con l’assoluto divieto di uscirne o anche solo di guardare dallo spioncino. Nel braccio stavano entrando i tedeschi. Erano come poi verranno raffigurati nei film neorealisti: avevano in testa l’elmetto, intorno al collo luccicanti nastri di proiettili, bombe a mano infilate nella cintura, i mitra in mano. Dagli spioncini socchiusi ogni tanto per qualche secondo si riuscivano a vedere. Ad alta voce fu pronunciato dal capoguardia il nome Ginzburg e dopo un paio di minuti l’ebreo Leone fu consegnato ai tedeschi. Con il suo strapazzato vestito blu e la sua carnagione scura spiccava fra le pesanti divise verdognole dei suoi nuovi carcerieri. In quel momento qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave: era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via.
[Claudio Pavone, La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, Roma, Donzelli, 2015, pp. 40-42]
Memoria
Comprano cibi e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
Solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
Che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
A guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada nessuno ti è accanto.
Se hai paura nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata. La città illuminata è degli altri,
Degli uomini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra
E guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
E deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.
8 novembre [1944].