Luigi Weber,
Sfuggente madrepatria
Giulia Bassi

L. Weber, Sfuggente madrepatria. Presenza e assenza del paesaggio nella letteratura italiana della Grande Guerra, Firenze, Franco Cesati Editore, 2022.

Partendo da uno sfondo teorico che spazia dalla Landscape Mind Theory agli studi sulla guerra come rappresentazione del trauma, in Sfuggente madrepatria. Presenza e assenza del paesaggio nella letteratura italiana della Grande Guerra Lugi Weber indaga le modalità narrative attraverso cui scrittori come Carlo Salsa, Giani Stuparich, Corrado Alvaro, Giovanni Comisso, Paolo Monelli, Federico De Roberto, Curzio Malaparte, Ardengo Soffici, Filippo Tommaso Marinetti e Renato Serra hanno raccontato gli spazi e i paesaggi della Prima guerra mondiale.

L’analisi di Weber tiene insieme da un lato le nozioni di «cose-della-guerra (Gefechtsdinge) e cose-della-pace (Friedensdinge)», messe a fuoco da Kurt Lewin1 «in seguito alla sensazione di spaesamento avvertita entrando, da soldato, in case abbandonate nei pressi del fronte per cercarvi materiali utili come paglia per giacigli e carbone» (p. 20). È la percezione di aver perduto il paesaggio preesistente al conflitto: una casa è solo un riparo finché quel territorio è attraversato dalla guerra, non un luogo che era familiare e abitato prima. Dall’altro lato, le analisi proposte nel libro attivano le idee elaborate da Matteo Meschiari in relazione ai non-lieux di Marc Augé, ovvero la «riappropriazione spaziale che i luoghi estranei, e quindi anche i non-luoghi, innescano sempre in chi vi transita. […] l’uomo vive costantemente nell’urgenza di riempire i vuoti di tempo e di spazio con storie agite e narrate».2 La guerra e lo spazio della trincea si rivelano dimensioni eccezionali di riappropriazione di un non-luogo attraverso la narrazione: si tratta cioè di indagare, come scrive Weber, «il modo in cui lo specifico letterario si è riconfigurato» in quello che, per la commistione di elementi come il trauma e l’accelerazione visiva e percettiva, è «uno spazio di tensione» (p. 25).

Tali concetti agiscono da chiavi interpretative, in particolar modo in alcuni dei saggi raccolti nel volume. Così, ad esempio, la reazione del narratore di Guerra del ’15 di Stuparich di fronte ai bottini di guerra (oggetti e ori requisiti nelle case) può essere interpretata alla luce delle categorie di Lewin, che secondo Weber ne fa una «questione temporale» «di adattamento alla vita in trincea, che prima o poi arriva, e trasforma il saccheggio in semplice utilizzo di cose-della-guerra, essendo queste non più cose-della pace» (p. 62). Proprio questo tipo di rapporto con uno spazio familiare violato interagisce anche con l’analisi della struttura del testo e della psicologia dei personaggi: «Se Guerra del ’15 viene tagliato tanto presto, dopo soli due mesi e mezzo di cronaca», scrive l’autore, è anche perché quel tempo, per i fratelli Stuparich, «è il tempo-spazio di una guerra a due passi da casa. Altrove, fino al Monte Cengio dove i destini di entrambi si compiranno, non sarà più, per loro, la stessa guerra, lo stesso tormento nel sentirsi tanto prossimi e insieme tanto remoti da ciò a cui appartenevano» (pp. 67-68). Non a caso è questo capitolo, «Sfuggente madrepatria: Giani Stuparich e il Carso», a dare il titolo al libro: sfuggente è appunto il territorio, madrepatria e terra devastata, estranea e straniante allo stesso tempo.

Gli spazi analizzati nei saggi sono sfuggenti anche perché la loro comprensione non è mai diretta: sono invisibili (come nel primo capitolo, «Il paesaggio invisibile: Carlo Salsa dal San Michele all’Hermada»); verticali (nel quarto capitolo «I Giorni di guerra di Comisso e Le scarpe al sole di Monelli. La guerra verticale, le montagne della fantasia»); liminari (nel terzo «Un libro di confini: Vent’anni di Corrado Alvaro»). Il confine, in particolar modo, si rivela anch’esso sfuggente, nel suo delimitare e allo stesso tempo spostarsi, isolare e essere attraversato: agisce sia come dimensione storico-spaziale – «quella frontiera per così dire intensificata che assume il nome tecnico di fronte (o linea del fronte) è spesso passibile di mobilità, a volte anche notevole» (p. 73) – sia biografico-esistenziale («i “vent’anni” come il momento di un trapasso tra differenti età e condizioni di vita, solo che la prova della guerra, pur acuendo, drammatizzando, esasperando, tale funzione di soglia, finisce per costituire […] soltanto un falso rito di passaggio; un rito apparentemente di passaggio, che però inchioda chi vi è sottoposto in una no man’s land da cui non si fa ritorno», pp. 74-75). Il confine è insomma uno spazio-chiave per la comprensione strutturale, stilistica e infine assiologica del testo: in Vent’anni tutto è «attraversato da soglie e separazioni, ogni cosa finisce per schierarsi in un aldiquà o aldilà, e i confini stessi proliferano, si moltiplicano, come un reticolo di trincee» (p. 74). Perfino il femminile, nel personaggio di Rosa, costituisce uno spazio di confine, «inattingibile se non nella forma di possesso da parte del maschio. È un confine che si supera e insieme non si vorrebbe o non si dovrebbe superare, sulla soglia del quale il soldato indugia perplesso, poiché vuole e disvuole a un tempo. […] Rosa è anche un confine tra pace e guerra», emblema di una vita familiare da un lato, di una «sessualità fuggitiva, rapinosa, che il tempo di guerra alimenta», dall’altro (p. 85).

La dimensione spaziale agisce dunque nel libro attivando più livelli di analisi, che comprendono tanto gli elementi narratologici quanto lo studio filologico dei testi e dei loro aspetti stilistici e strutturali. Questi ultimi, ad esempio, sono centrali nell’opposizione, istituita nel capitolo quinto «La ritirata del Friuli di Soffici e la Caporetto di Malaparte», tra il «testo-invasione» di Malaparte e il «testo-alluvione» di Soffici, polarizzati, come scrive l’autore, proprio per «il diverso rapporto che intercorre in essi tra la forma del testo e il paesaggio» (p. 122). In Viva Caporetto!, infatti, l’analisi dello stile si comprende solo alla luce di coordinate spaziali: il testo, cioè, passa da quella che Weber definisce «scrittura della guerra di posizione» (p. 124), condotta attraverso frasi lente, con molti refrain, senza particolare variazione, a frasi concitate e enumerazioni caotiche, «dove la tecnica del refrain» nota l’autore «muta di segno e diventa invece scossa per la ripresa e la ripartenza» (p. 125): è la scrittura «di rotta/invasione», o meglio ancora di «ingorgo», quello stesso «affollamento quasi inestricabile, la spaventosa mescolanza di civili e militari, macchine e animali, armi e masserizie, di cui i testimoni raccontano» (p. 126), emblema della disfatta. La corrispondenza tra lo spazio geografico da cui ci si ritira e quello testuale si realizza invece in Soffici attraverso un’intensificazione di altro tipo: La ritirata del Friuli si sofferma sulla dimensione topografica, sui dettagli del paesaggio, sull’elemento dell’acqua, in una precisione tale da diventare labirintica. L’esito è, anche in questo caso, la confusione: «la condanna a perdersi in uno spazio ridotto a puri nomi, tanto più individuati quanto più vuoti di referente» (p. 129).

L’attraversamento, infine, che coinvolge tutti gli spazi analizzati nel libro, prende la forma di una passeggiata nell’ultimo capitolo dedicato, insieme all’Appendice, a Renato Serra. Il paesaggio e i suoi oggetti sono descritti camminando; la passeggiata non è soltanto una modalità di percezione e descrizione dell’ambiente in virtù dello spostamento, ma soprattutto «uno stratagemma narrativo» (p. 158) che tiene insieme le diverse dimensioni temporali evocate nell’Esame di coscienza di un letterato. Non a caso, a proposito di Serra, Weber usa l’immagine emblematica di un «fantasmatico pendolo tra stasi e moto, tra andare e restare, tra guardare da fermo e guardare in movimento» (p. 155): anche in questo caso un’immagine sfuggente, che riguarda tanto il paesaggio attraversato quanto la scrittura di chi lo osserva.

Note

1 Kurt Lewin (1890-1947) è stato uno psicosociologo di origine tedesco-polacca che per sfuggire alle persecuzioni naziste negli anni Trenta emigrò in America, dove ha insegnato in diverse università, tra cui Stanford. Per la sua “teoria del campo” e i suoi studi sulle dinamiche dei gruppi, è considerato tra i fondatori della psicologia sociale contemporanea. Recentemente è uscita la traduzione del suo Paesaggio di guerra (con un saggio di Raffaele Scolari, Milano-Udine, Mimesis, 2017; ed. originale 1917), su cui pure si sofferma Weber nell’Introduzione a Sfuggente madrepatria (pp. 19 ss.).

2 M. Meschiari, Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario, Macerata, Quodlibet, 2012, p. 21, citato da Weber a p. 23.