
Goffredo Fofi, Sono nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021, a cura di Emiliano Morreale, Roma, minimum fax, 2022.
«Non c’è nulla che sia maggior dolore
di questo: non amare nulla al mondo.
E per questo vi dico: nel profondo
serbatevi disposti, amici, puri»
(F. Fortini, Al poco lume)
di questo: non amare nulla al mondo.
E per questo vi dico: nel profondo
serbatevi disposti, amici, puri»
(F. Fortini, Al poco lume)
«Non sei sola». Leggendo le pagine del recente libro di Goffredo Fofi stento a non tornare con la mente su uno dei passaggi più sconvolgenti del film capolavoro di Rossellini Europa ’51. «Non sei sola» dice, quasi un’implorazione, la protagonista Irene alla compagna d’internamento che aveva appena tentato il suicidio. E qual è in fin dei conti per Fofi, in tempi di grave indigenza, il senso più profondo e necessario dell’arte e della poesia per la nostra vita? Quello di avere «almeno la consolazione di non sentirci soli e sbagliati». Se c’è un intellettuale italiano che non è mai stato “solo”, e che per di più ha avversato e fustigato ogni comoda separatezza e certe dorate solitudini, questo è sicuramente Goffredo Fofi. Questa splendida raccolta di saggi e interventi, cronologicamente ordinata dal 1956 al 2021, e intitolata Sono nato scemo e morirò cretino, ne è ineccepibile testimonianza. Vi sono rappresentati i diversi volti di una prassi politica e culturale non conforme a qualsivoglia norma ricevuta. Dall’analisi sociologica ancorata all’esperienza concreta alle carrellate critiche e idiosincratiche, sempre in punta di stiletto, su cinema e letteratura; dal dialogo fitto con diverse realtà di lotta e movimento allo spaccato autobiografico. Il minimo comune denominatore di questi scritti è dato da una frase ricorrente, che risale al magistero di Capitini. La non accettazione del mondo così com’è. Quindi, come corollario, dalla capacità di mantenersi in uno stato di assoluta disponibilità e apertura verso gli altri, in particolare verso gli ultimi, ovvero coloro che di attenzione e sostegno più hanno bisogno. È così che il vero archetipo centrale a farsi strada in queste pagine è rappresentato dai “ragazzini” della Morante, ben diversi da quel sottoproletariato di cui si approprierebbe, con le sue elucubrazioni, il «monologante Pasolini». Ninetto non è Pazzariello. Con i ragazzini infatti si può e si deve instaurare un dialogo. E qui si tocca un altro punto nodale del discorso complessivo di Fofi. Infatti si scorge nel libro un crinale sottile, di continuo attraversato e misurato: la profonda differenza di valore fra autonomia critica e “autosufficienza”. Mentre la prima è necessario ingrediente ed obiettivo cruciale di qualsiasi lotta per l’emancipazione verso un grado sempre maggiore di consapevolezza individuale e collettiva, la seconda rappresenta il vero punto dolente di ogni prassi sociale come di ogni ricerca artistica. In diversi articoli infatti il concetto di compiutezza, e sottotraccia proprio l’idea di ciò che è “classico” nel senso malsano di ortodosso e conforme, viene letto come stemma di egoistica separatezza, di sterilità autoreferenziale. Diventa paradigmatico ad esempio il giudizio negativo sul Calvino in fuga dalla storia delle Città invisibili. Libro questo, in cui «non esiste maturità possibile» e risultano egualmente inabitabili tutti i tempi umani. Siamo molto lontani insomma dalla «maturità attiva e non sconfitta» dei «felici pochi» morantiani. Ed infatti, la grandezza di quest’ultima, e parallelamente anche di Romano Bilenchi, viene individuata proprio in quel brusco salto qualitativo che, seppur in modi diversi, li allontana entrambi dall’autosufficienza espressiva di significati «conchiusi e definiti», per proiettarli verso la conquista di una maturità difficile, pervasa com’è da «una secca tensione di irrisolte e irrisolvibili contraddizioni» (si cita qui il memorabile intervento del 1972 sul Bottone di Stalingrado di Bilenchi, intitolato Tre tempi della guerra di classe). A specchio, nel saggio su La Storia, della Morante si dirà che «con Il mondo salvato dai ragazzini e con Pro o contro la bomba atomica […] unica tra gli scrittori italiani […] si è resa conto della inadeguatezza (quella sì consolatoria ed evasiva) di quel tipo di conclusività e autonomia dell’opera letteraria». Quasi a sorpresa, ma non troppo, si desume inoltre dalla lettura di vari interventi una spiccata attenzione, per non dire una decisa simpatia, verso il barocco, tradizionalmente poco amato in Italia, e qui inteso come antidoto immaginoso e possente contro ogni facile “realismo”. Il barocco dunque, come sentimento della complessità di un reale, che l’arte non deve mai trasporre in semplice, banalizzante “messaggio”. Da questo discende la predilezione per i grandi cineasti dell’abnorme come Welles, Buñuel e, in Italia, Ferreri, così come la reiterata presa di posizione per un «cinema di metafora», che coniughi eccentricità e tensione civile o, con le parole dello stesso Fofi, riprese nella puntuale prefazione di Emiliano Morreale, «realismo e delirio». Un altro elemento carsico affiora con persistenza in numerosi articoli del libro. La figura problematica dei bambini. Da considerare come altro, speculare ma solidale, dei “ragazzini” già citati. Fofi è stato anche maestro elementare. Ma soprattutto si è impegnato in vari momenti della sua vita in un lavoro appassionato e totalizzante in favore dei bambini più reietti di grandi città come Napoli e Palermo. Dell’esperienza fatta a Palermo nel 1955, dunque a neanche vent’anni, Fofi ci restituisce un racconto “sincero” ed intenso nell’articolo intitolato Cortile Cascino, uno degli assi cartesiani su cui si dispone l’intera raccolta. Vediamo così all’opera il “ragazzino” Fofi accanto ai bambini “bruciati” dalla miseria materiale e morale – e si legga poco dopo, come lucido benché involontario contrappunto, il saggio sull’omonimo romanzo di Dagerman. Di questo giovane Goffredo viene dunque messa in rilievo la «supina disponibilità a farmi assorbire dalle situazioni sino a dimenticarmi di me». In questo raccontino, drammatico e ricco di risvolti futuri, gli eventi reali sembrano assumere ex post una forma spiccatamente “morantiana”. Si susseguono infatti la rottura con la figura paterna, l’affidarsi viceversa alla protezione delle tante madri del borgo, la perdita simbolica del proprio nome, la totale dedizione verso questi bambini divenuti d’un tratto unico tramite verso i grandi, fino alla pericolosa gestazione di una «osmosi assiepata, calda, quasi feroce». E non manca la crisi finale, violenta e in qualche modo risolutiva. Ancora una volta la fiera autonomia non si traduce per nulla in separatezza dagli ultimi del mondo. Ripensiamo dunque alle parole pacate e incandescenti della Bergman, sempre in Europa ’51, nel colloquio finale col magistrato che a breve sancirà l’internamento della donna. Scolpendo con fermezza le parole Irene dice: «Preferisco perdermi con gli altri che salvarmi da sola». E poi: «Solo chi è completamente libero può confondersi con tutti. Solo chi è legato a niente è legato a tutti gli esseri umani. Questo è quello che sento». Di recente, in un incontro pubblico fiorentino, Fofi ha individuato proprio in Europa ’51 uno di quei pochi film che è necessario conoscere per sentire e comprendere le storture del mondo presente, e imparare a rigettarle con forza. Gli articoli di questo volume si aggiungono a loro modo a questo novero sempre più risicato di opere che possono dischiudere e illuminare menti e cuori. Mai come in questo caso, messi di fronte a pagine così “completamente libere”, ci si sente in diritto di ricordare l’antico adagio: chi tocca il libro, tocca l’uomo.