Giuseppe Palazzolo,
Apocalisse e profezia
Gabriele Fichera

Giuseppe Palazzolo, Apocalisse e profezia. Franco Fortini critico e poeta, Roma, Carocci, 2021.

«La profezia può invece essere un orizzonte storico, un traguardo». Così scriveva Fortini nell’Introduzione alla sua memorabile antologia intitolata, et pour cause, Profezie e realtà del nostro secolo – titolo che è già da solo un esaustivo compendio ideologico e politico, e nel quale si può apprezzare l’uso del plurale, quasi a voler indicare fin da subito il carattere aperto, laico e non dogmatico della profezia fortiniana. Adesso un recente volume di Giuseppe Palazzolo prende sotto esame l’opera poetica e saggistica di Fortini proprio dalla specola del profetismo e dell’apocalisse. A partire dalla lettura di tanti studi notoriamente meritori, tra cui spiccano quelli di Luca Lenzini e Davide Dalmas, la questione è indagata in modo sistematico, fin dagli esordi narrativi di Giovanni e le mani e dalla raccolta poetica Foglio di via. Procedendo cronologicamente vengono scandagliati anche i saggi raccolti in Dieci inverni e in Verifica dei poteri. Ma anche gli scritti del Fortini “ultimo” di Extrema ratio. Per la poesia una particolare attenzione viene accordata a Paesaggio con serpente, silloge in cui l’elemento apocalittico si colora di paradossalità perché, dice Palazzolo, «la catastrofe è avvenuta […] ma è mancata la rivelazione. Dell’apocalypsis resta la visione ma manca lo svelamento». Dunque i caratteri di questo profetismo si specificano nella spiccata dimensione storica e nella propensione all’oscurità espressiva. Sicuramente Dante potrà avere insegnato a Fortini che “profeta” è precisamente colui che, a partire da una corretta comprensione del passato, indica ai suoi contemporanei le linee direttrici del futuro prossimo. Le faglie lungo cui si potranno dissestare secolari equilibri e compromessi.

La realtà del presente è dunque di per sé costitutivamente insufficiente. Contiene dei vuoti da colmare. L’intellettuale-profeta sarà colui che, rinunciando all’antica investitura di potestas – ovvero il suo potere sacerdotale – mirerà a consolidare piuttosto la sua auctoritas, provando a svelare i punti di rottura del tempo attuale, percorso da tensioni stridenti e potenzialmente rinnovatrici. È d’altronde proprio da Lukács, come si evince da un saggio di Andrea Manganaro, qui opportunamente ripreso, che Fortini recupera in modo convinto l’idea di un valore profetico della letteratura che alluda, sovente in modi obliqui, al prezioso concetto di totalità. Quest’ultima infatti conferisce al profetismo fortiniano quella consustanziale oscurità che si rivela fatalmente necessaria, precisa Fortini, ad «ogni discorso che si rifiuta di dispiegarsi perché ha come proprio centro una proposta o una allusione di totalità». Da qui anche le asperità di una scrittura che senza sosta si inarca su se stessa, fra salti della sintassi e voragini concettuali; sempre in attesa che il lettore riempia di senso il non detto.

Il libro è arricchito inoltre da diverse contestualizzazioni. Il dialogo-scontro col fraterno nemico Pasolini. Le differenze di vedute rispetto al “biologismo” di Calvino. L’aspro confronto dialettico innescato con la neoavanguardia. In particolare si segnala un prolungato confronto fra la postura apocalittica fortiniana e il pensiero di Umberto Eco. Qui ci pare però che non sussistano solo delle divergenze, ma proprio un’incompatibilità di fondo. Palazzolo prende ad esempio, fra gli altri, il caso dell’interpretazione allegorica della peste manzoniana, in cui a suo parere i due intellettuali troverebbero comunque un piano comune di confronto. A nostro parere però anche in questo caso Fortini ed Eco restano sideralmente distanti. Il primo infatti, parlando di «teratologia semiosica», sembra interpretare l’evento apocalittico alla stregua di un mero disguido tecnico pur sempre “riparabile”, a patto di affidarsi ai soliti esperti specialisti in grado di raddrizzare i significanti e rimettere in sesto i significati. Per Fortini invece la peste assume i tratti di una spietata allegoria politico-storica, magari della Rivoluzione francese o della rivolta agraria, in cui si rispecchia la fondamentale e a tutt’oggi ineliminabile contraddizione fra dominatori e dominati. Chiosa Fortini: «la peste può tornare, è già tornata, è fra noi in cento forme; quegli stracci e quelle piaghe dei “dannati della terra” li abbiamo respinti nei lazzaretti dei continenti e della cultura ma tornano nei sogni di noi contagiati e sporcano tutto». È possibile essere più profetici di così?