
Ad essere raccolta e riofferta all’attenzione del lettore è, nel primo volume curato da Emmanuela Carbé e Elisabetta Nencini, con l’Introduzione di Niccolò Scaffai (pp. 7-13), una parte della produzione critica di Giuseppe Nava (Milano 1937 – Firenze 2019). Milanese d’origine e fiorentino d’adozione, Nava ebbe modo di laurearsi nei primi anni Sessanta sotto la guida di Lanfranco Caretti e poté quindi perfezionare una formazione basata sul possesso di precise competenze filologiche già orientate, però, in una direzione sostanzialmente storico-critica. Dopo anni di insegnamento liceale l’esperienza di studio e ricerca presso il Centro di Filologia dell’Accademia della Crusca dal 1966 al 1971 gli permise, in una certa misura, la docenza al Magistero di Cremona e a quello di Perugia tra il 1973 e il 1976, fino ad arrivare, intorno alla seconda metà degli anni Ottanta, all’Università di Siena come successore di Franco Fortini sulla cattedra di Storia della critica letteraria.
A testimonianza di un’attività critica che – come, ricorda Scaffai nell’introduzione, «spaziando da Dante al Novecento, ha dato i risultati più intensi e duraturi al cospetto di quegli autori verso i quali la fedeltà dello studioso è stata più lunga e più salda» (p. 7) – sono stati selezionati per questa specifica occasione diciotto studi distribuiti in due sezioni che seguono un preciso criterio storico-cronologico. Nella prima sezione vengono inclusi saggi «Dalle Origini all’Ottocento» che vanno da Dante (Il canto di Marco Lombardo, pp. 29-45), passano attraverso Boccaccio (La morte, il racconto, la forma del «Decameron», pp. 45-57) e che poi, oltre a concentrarsi su questioni filologico-metodologiche legate all’uso delle fonti (Le fonti negli autori moderni, pp. 81-99), terminano con Carducci (Classicità e modernità nella poesia del Carducci, pp. 99-117). Nella seconda sezione invece può essere passata in rassegna e apprezzata la varietà di interessi del Nava novecentista: categorie stilistico-storiche (La condizione espressionista: Rebora, Sbarbaro, Campana, pp. 117-125), analisi tematiche e formali (La lingua di Penna, pp. 159-173; Il tempo nella poesia di Luzi, pp. 173-177), contestualizzazioni storiche di percorsi autoriali (L’opera di Bianciardi e la letteratura dei primi anni Sessanta, pp. 223-239) e ritratti dedicati a grandi personalità critiche del Novecento (Luigi Baldacci e la poesia dell’Ottocento, pp. 239-249; Per Cesare Garboli, pp. 249-255), si danno il cambio con una discreta continuità. I materiali raccolti non permettono ancora di interrogare direttamente gli incontri che per lo studioso furono determinanti, e che comunque sono destinati ad occupare altri futuri volumi: questi incontri portano i nomi di Giovanni Pascoli, di cui Nava è stato sicuramente uno dei massimi interpreti del Novecento, e del già citato Franco Fortini, suo interlocutore fondamentale dal punto di vista critico e ideologico. Ma anche considerando questo stato di cose il volume consente comunque di osservare le caratteristiche di una vocazione critica felicemente risolta tra impostazione ideologica e analisi testuale, e capace al contempo di spaziare tra ambiti problematici diversi.
Nel saggio boccacciano, ad esempio, la considerazione dell’assetto narrativo che dovrebbe strutturare il Decameron, in base al quale «l’attività del raccontare costituisce il culmine d’un processo rituale di ricreazione del mondo in forza della parola, e più in generale della forma», e la valutazione del luogo formale nel quale questo accade, cioè una “cornice” «che doppia i singoli racconti […] e conferisce loro un sovrappiù di senso» (p. 45), proietta indirettamente verso un paradosso estetico tipico dell’età moderna, prodotto storicamente dalla contraddizione «tra il fascino della forma compiuta, che suscita esigenze di realizzazione […] e l’orrore al pensiero della quantità di lavoro alienato che è stato necessario per consentire la nascita di quella forma perfetta» (p. 55). In questo senso, se è vero che nella visione critica di Nava la coscienza delle questioni formali implica sempre un ricordo costante della visione di classe da riscontrare anche nelle sistemazioni più elaborate, è anche vero che questa consapevolezza storico-sociologica agisce come correttivo nei confronti di altre prospettive. In questo caso serve infatti a ridimensionare la tesi di Vittore Branca1 e della sua scuola sull’importanza fondante del mondo mercantile nel tessuto narrativo dell’opera boccacciana.
Procedendo nella lettura possono essere riscontrati altri passi utili ad esemplificare questa prassi. Nel saggio dedicato a Carducci il riconoscimento di una inversione di tendenza da collocare dopo gli anni Sessanta del Novecento per quanto riguarda «la preoccupazione di valutare i poeti di fine Ottocento in funzione degli sviluppi successivi della poesia italiana», e la ridefinizione di una prospettiva storiografica capace solo, fino ad allora, di misurare le esperienze di Carducci, Pascoli e D’Annunzio «su un idea del Novecento fondata sulla linea Ungaretti-Montale-ermetici» (p. 110), porta Nava a dichiarare la possibilità di una comprensione storicamente più adeguata,2 «non apologetica né polemica, della poesia carducciana» (p. 110). Sulla scorta del confronto con il lavoro di Luigi Baldacci3 diventa legittimo rivalutare l’opera di Carducci, in particolare quella contenuta nei Giambi ed Epodi e nelle Odi barbare, come testimonianza attiva di un genere «satirico, tutt’altro che frequente nella storia della nostra poesia moderna». E se il fenomeno della scarsa persistenza di un genere come la satira deve essere «interpretato storicamente, perché il suo deperimento è collegato con una carenza d’opposizione allo stato esistente», allo stesso modo deve essere preservato il Carducci polemista politico, perché in simili testi, «soprattutto nelle poesie dedicate all’accesa polemica contro il potere temporale dei papi e alla celebrazione dei valori della Rivoluzione francese», sopravvive una dimensione del classicismo da intendersi «come espressione artistica della borghesia rivoluzionaria rinnovata attraverso la lettura dei poeti romantici, come Hugo e Barbier» (p. 111). Sensibilità storico-politica dei fatti letterari, percezione problematica dei fenomeni legati alla ricezione di un autore canonizzato e adeguata cognizione formale sembrano costituire, a fronte degli esempi forniti, i punti cardinali di un metodo critico capace allo stesso tempo di dialogare con istanze teoriche e di utilizzarle per ridefinirne le potenzialità ermeneutiche.
In riferimento a quest’ultima affermazione si vorrebbero indicare quei casi nei quali la scoperta e lo studio dell’intertestualità sembra contribuire alla definizione dei rapporti tra gli autori. Intertestualità che però da Nava viene intesa, come dichiarato nel saggio Le fonti negli autori moderni, grazie al confronto con le elaborazioni compiute tra anni Settanta e anni Ottanta da studiosi come Gian Biagio Conte e Cesare Segre,4 non tanto con l’intenzione di ricercare meccanicamente i precedenti di un’opera ma come tentativo di valutare in parte il rapporto consapevole stabilito tra un autore con un modello, e in parte l’appartenenza della parola o della frase a contesti diversi. Lo spazio letterario configurato da una determinata interrogazione delle fonti quindi, lungi dal costituire solo un sistema di riferimenti binario, sembra semmai somigliare a un campo di connessioni plurimo, composto di persistenze, scontri, vicinanze, e caratterizzato da una particolare consistenza storica delle strutture retorico-linguistiche che vi sono naturalmente coinvolte: «La ricerca delle fonti riguarda infatti sia il livello dei testi sia quello degli enunciati, la ripresa intenzionale d’un passo per arricchire di nuove valenze il proprio discorso o per istituire un dialogo polemico con un altro autore, come il riaffiorare nella memoria poetica di spezzoni di versi, o, più in generale, l’emergere dalla distanza del tempo di parole e costrutti, mediati dalle convenzioni di genere e dalle tradizioni linguistiche» (p. 82). Per quanto riguarda l’Ottocento, un’occasione utile ad esemplificare quanto la ricerca di una continuità tra opere e autori, tramite le fonti, possa diventare «anche un reagente delle divergenze ideologiche tra due sistemi culturali e formali, che alternano collusione e opposizione» (p. 84), è rappresentata dal rapporto tra Pascoli e Leopardi. L’esperienza dei Canti di Castelvecchio nasce anche, tra le varie cose, dall’interesse effettivo di Pascoli per il Leopardi memoriale e idillico, ma forte risulta agli occhi di Nava la divergenza “ideologica” tra i due autori. La spia stilistica d’una distanza raggiunta per apparente contiguità è offerta dalla quartina finale del Sonnellino pascoliano dove «l’antitesi tra “l’alba / piaciuta tra il sonno” e la “stridula e scialba / giornata”» richiama l’attacco del Cantico del gallo silvestre: «Su, mortali, destatevi. Il di rinasce: torna la verità sulla terra, partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero». Ma al contrario della probabile allusione leopardiana, dove «l’accento batte sul ritorno del vero», in Pascoli la rappresentazione «indugia piuttosto sul momento del sogno» (p. 84). Come si può vedere, insomma, anche da notazioni minime è possibile per Nava inferire questioni rilevanti sul mondo concettuale e tematico che sostanzia l’espressione poetica.
Per quanto riguarda il Novecento e il campo della poesia moderna, uno dei casi significativi è rappresentato da Montale, e questo, tra le varie occorrenze possibili, serve ad esemplificare, tramite un suggerimento di Dante Isella,5 un procedimento di citazione rovesciata. La chiusa del Balcone dai Mottetti («La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi. / A lei ti sporgi da questa / finestra che non s’illumina») può essere contrapposta «oggettivamente e fors’anche intenzionalmente» alla Mattina ungarettiana («M’illumino / d’immenso»). L’opposizione che riesce a stabilirsi fra i due poeti a partire dalla relativa negazione dell’esperienza mediata dal termine “illuminazione” serve ancora a qualificare una differenza fondamentale necessaria per distinguere, non solo dal punto di vista formale, i due profili: «All’“uomo di pena”, cui “basta un’illusione” per farsi coraggio, e che trova nel fiore della “parola” una ragione sia pure provvisoria di vita, Montale oppone, almeno nelle sue prime raccolte, una condizione d’aridità non suscettibile di accensioni, di stati di grazia, ma solo di epifanie consolazioni» (p. 85). Da altri punti di vista poi il libro testimonia, come ricorda Arnaldo Bruni in riferimento al profilo dello studioso nel Ricordo di Giuseppe Nava (pp. 15-29), «la consapevolezza dell’organicità della storia letteraria italiana, nell’arco della quale i riflessi della letteratura delle origini […] intervengono spesso nelle espressioni novecentesche fino a renderle incomprensibili senza le premesse» (p. 23). Per questo motivo, quando oggetto dell’interrogazione critica è una caratteristica dello stile di Sandro Penna già approfondita da Pier Vincenzo Mengaldo (che lo configura come «l’esempio di monolinguismo lirico più rigoroso e assoluto del nostro Novecento»),6 diventa possibile definire questa particolarità avvicinandola «a una sorta di petrarchismo […], che si presenta sempre regolarissimo e apparentemente perfetto, ma che in realtà è segnato dai tratti dell’eccesso e quindi dell’anomalia». In questo senso possono risaltare, grazie al paragone con uno dei fenomeni cardinali della tradizione lirica italiana, i tentativi penniani di diversione e distanza che lo avvicinano alla poetic diction moderna. Da una parte è ravvisabile la capacità della poesia di Penna «di costituirsi sulla forza d’attrazione esercitata dall’immagine acustica del segno linguistico, distinta dal significato e a sua volta reagente sul significato» (p. 160). D’altra è individuabile, sempre nel contesto dell’autonomia del significante come fenomeno storicamente osservabile in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento,7 la ricchissima presenza «di parallelismi, di anafore, di anadiplosi, di rime identiche, di modo che si può dire che le figure di ripetizione costituiscono buona parte delle figure retoriche penniane a livello di sintassi» (p. 162).
Volendo concludere il computo delle occorrenze necessarie per illustrare parzialmente la variabilità delle questioni presenti in questo primo volume, ci si potrebbe riferire ai ritratti che Nava dedica ad alcune importanti figure della storia critica del Novecento: Luigi Baldacci e Cesare Garboli. Nel primo, secondo una prassi descrittiva che mescola efficacia sintetica e sensibilità storico-critica, Nava riconosce inizialmente le radici geografiche di una «critica dell’intelligenza, com’era nella tradizione fiorentina del primo Novecento […], in cui ha grande importanza la scrittura, volta a rendere il processo graduale, accidentato e non rettilineo, di penetrazione nell’opera e nello scrittore» (p. 239). Il riconoscimento di questo carattere della personalità baldacciana, e la sua relativa irriducibilità a un sistema organico di metodi e idee, garantisce comunque l’identificazione e la contestualizzazione dei principi che regolerebbero la sua attività: «Suoi criteri dominanti sono la «verità umana», ossia il valore di conoscenza dell’uomo trasmesso ai lettori dall’opera; l’esperienza di vita che sta dietro l’opera, e il suo grado di autenticità; e la storicità, intesa come rapporto dialettico dell’opera con la società, e non come inserimento dell’opera in una presunta direzione del processo storico». Ma a interessare in misura maggiore lo sguardo di Nava è il modo con il quale Baldacci percepisce la storicità dei fenomeni letterari, e in particolare come si permette di rileggere l’Ottocento in un rapporto dialettico «con la funzione di rottura che ebbe a svolgere l’avanguardia toscana del primo Novecento» (p. 240), senza dimenticare la rivalutazione proposta nell’antologia Poeti minori dell’Ottocento8 dove, in contrasto con alcune forme della poesia novecentesca troppo egemonizzate da una idea di lirica, fa risaltare la produzione poetica ottocentesca per variabilità di toni e registri: «In un ambiente culturale […] dipendente nella prassi poetica dall’ermetismo, Baldacci si guarda bene dall’esaurire il paesaggio poetico ottocentesco nel solo genere della poesia lirica, ma concede largo spazio alla poesia civile e patriottica , alla satira, […], alla poesia didascalica» (p. 244). Anche nel caso di Garboli, infine, ad attirare Nava è il particolare nesso che potrebbe inscriversi tra gli strumenti del critico, la sua natura refrattaria a delimitazioni o a prese di posizione metodologiche nette, e l’insieme di scelte che permettono di circoscrivere un insieme di autori utile a definire un canone personalizzato della letteratura italiana (p. 251):
1 Cfr. V. Branca, Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni, 1956.
2 Comprensione che del resto era già stata avviata, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, da critici come Luigi Russo e Walter Binni: cfr. L. Russo, Carducci senza retorica, Bari, Laterza, 1957, e W. Binni, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960.
3 Cfr. L. Baldacci, Giosuè Carducci: strategia e invenzione, in Carducci poeta. Atti del Convegno di Pietrasanta e Pisa, 26-28 novembre 1985, a cura di U. Carpi, Pisa, Giardini, 1987, pp. 3-42, ora in Id., Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 108-137.
4 Cfr. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi, 1974; C. Segre, Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia, in La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, a cura di C. Di Girolamo e I. Paccagnella, Palermo, Sellerio, 1982, pp. 15-28, ora in Id., Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984, pp. 103-118.
5 E. Montale, Mottetti, a cura di D. Isella, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 9.
6 P.V. Mengaldo, Nota, in Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. 736.
7 Cfr. G.L. Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975.
8 Poeti minori dell’Ottocento, a cura di L. BALDACCI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958.