
La Prefazione di Marco Gatto ricostruisce il rapporto di Renato Solmi con la pratica dell’insegnamento e con l’istituzione scolastica, cui converrà guardare al prisma delle pratiche e delle istituzioni dell’edizione e dello “spazio pubblico” militante e ideologico, che Solmi ha attraversato in modo intenso e singolare lungo la sua vita. Possiamo quindi concentrarci, in questa lettura, sulla struttura e sulle poste in gioco di questo volume e del lavoro di Solmi su Kant.
Innanzitutto, è possibile constatare che un tale lavoro eccede largamente le norme del quadro istituzionale cui è destinato: quale possa essere lo scrupolo con cui Solmi ha assolto alle sue funzioni di insegnante liceale, mi pare difficile, anche per un’epoca in cui la familiarità degli allievi con la lettura e con la cultura della civiltà borghese-europea era certo differente da oggi, poter considerare queste Lezioni come un prodotto scolastico riducibile ad un programma e a dei criteri di valutazione. Solmi ha infatti scritto una vera monografia su Kant, ispirata da una lettura sistematica delle opere principali dell’autore: una sistematicità che emerge dalla costruzione stessa del profilo di Kant e dall’organizzazione della materia lungo i differenti capitoli. Si ha quindi a che fare con una lettura filosofica a pieno titolo, e non con un semplice capitolo di storia della filosofia – nella tradizione dell’insegnamento italiano della materia, ispirato dallo storicismo e associato in modo strategico all’insegnamento della storia, questo significa spesso mere dossografia ed erudizione –, né con un’esposizione divulgativa – che, nella suddetta tradizione di matrice neoidealista, tende a ridurre l’autore a ciò che interessa o comprende l’interprete, giusta la ricerca crociana di “ciò che è vivo e ciò che è morto”. Rispetto a questi approcci, derive ben note di un insegnamento ispirato certo da principi non banali (l’esigenza di storicizzare il pensiero e il primato della storia contemporanea…), ma ridotto nella pratica della scuola di massa ad aneddotiche superficiali e ad attualizzazioni selvagge, la ricostruzione sistematica di un autore significa affermarne la consistenza dei concetti e delle argomentazioni, riconoscerne cioè il pensiero come struttura e come processo non riducibili alla storia esterna né all’impressionismo interpretativo. Il criterio sistematico non va però opposto all’interpretazione. Ricostruire un sistema significa scegliere un certo ordine di ragioni, e quindi una certa costruzione, contro altre possibili, il cui principio di differenziazione è in genere dato dal tema o dal nocciolo che si ritiene centrale per l’intelligenza di un autore (o di un’opera). Certo, l’esecuzione della ricostruzione sistematica mostra concretamente che un certo filo conduttore è virtualmente presente nel materiale, e quindi suscettibile di essere reso visibile dall’organizzazione di quest’ultimo. Ma la scelta di privilegiare uno o l’altro filo conduttore tematico non può che essere una decisione dell’interprete, la quale esprime in tal modo un orientamento filosofico determinato. È quindi possibile chiedersi, di fronte a queste Lezioni, quali opzioni abbiano governato la ricostruzione del pensiero kantiano, quale sia dunque, tra i vari Kant possibili, il Kant di Solmi.
Ad un primo sguardo, possiamo constatare che la lettura di Solmi esclude da ruoli sistematici centrali una serie di temi classici nella storia delle interpretazioni kantiane: la differenza fenomeno-Cosa-in-sé, la fondazione della scienza newtoniana, e la temporalità come luogo dell’autoaffezione del soggetto finito. Con ciò, la distanza è presa rispetto alle tre principali letture sistematiche di Kant fino alla prima metà del Novecento, fondate ciascuna su uno di questi temi: l’Idealismo post-fichtiano che tenta di annullare l’alterità della Cosa-in-sé rispetto alla produttività del pensiero, il neokantismo interessato alla costruzione enciclopedica del sistema della scienze e l’esistenzialismo heideggeriano incentrato sul nesso storicità-finitudine. Tre letture che, secondo il filosofo francese Jules Vuillemin, suppongono ciascuna una diversa visione della “svolta copernicana” e quindi una diversa proposta di riorganizzazione del sistema “Kant”.1 Pare insomma che il Kant di Solmi non corrisponda a nessuna di queste opzioni filosofiche. Quali dunque i principi della lettura, e pertanto del sistema, che troviamo in queste Lezioni? Poiché Solmi non li enuncia esplicitamente, possiamo tentare di riconoscerli attraverso l’analisi di alcune scelte nell’organizzazione del materiale, che possono indicarci su quali assi portanti si edifica il sistema ricostruito dall’interprete. Innanzitutto, nel primo capitolo, dedicato ai tre periodi dell’attività di Kant, subito prima di passare al periodo critico, Solmi avverte che tutto il progetto della critica nasce dalla tensione tra, da un lato, l’esigenza di rigore e di controllo delle affermazioni e delle pretese della mente umana, e, dall’altro, il «bisogno irresistibile di trascendere il mondo dell’esperienza, di condurre a termine l’unificazione e la sintesi organica delle nostre conoscenze, di collocarsi dal punto di vista della totalità».2 Raggiungere il «punto di vista della totalità», costruito con strumenti concettuali idonei, è quindi l’obiettivo finale del processo critico, in quanto terminus ad quem dello sviluppo intellettuale di Kant: poiché questo punto di vista è innanzitutto evocato come correlato di un «bisogno», possiamo concludere che la totalità non è un dato, ma l’oggetto di una ricerca, la quale orienterà quindi la costruzione kantiana e la sua ricostruzione nelle Lezioni. Un progetto che è forse comparabile a quello della monografia kantiana di Gilles Deleuze, del 1963, per il quale «l’oggetto della ricerca è il sistema kantiano – e anzi, sottolinea come il messaggio kantiano si identifichi con il suo sistema».3 Quanto allo sviluppo delle posizioni di Kant, è caratterizzato da Solmi, in questo primo capitolo, in un modo che suggerisce già la costruzione successiva della totalità ricercata: Kant approda al periodo critico dopo aver attraversato un periodo dogmatico ed uno scettico. Troviamo qui, nella prima frase delle Lezioni (p. 17), una scansione concettuale – ma anche biografica e storica, poiché Solmi ricorda che, per Kant, la «ragione umana» attraversa queste medesime tappe – nettamente triadica, che ritornerà costantemente, fornendo una matrice decisiva della ricostruzione sistematica: come vedremo, gli schemi a triade ricorrono in tutte le Lezioni nei punti decisivi della lettura, in cui emergono gli orientamenti fondamentali del pensiero kantiano. Solmi attribuisce quindi un ruolo sistematico all’architettura di tale pensiero, e riconosce esplicitamente che quest’attenzione all’«apparato categoriale» (p. 102-103) gli viene dalla lettura di Kant da parte di Hegel, contro l’idealismo italiano (storicista o attualista) ostile alle strutture e incline a compiacersi di una certa indeterminatezza del discorso. Insomma, perché vi sia totalità occorrono delle differenziazioni e delle articolazioni precise in ciò che deve essere totalizzato: che si tratti dello sviluppo di Kant, del suo sistema o dell’insieme delle attività umane. La centralità dell’architettura nell’intelligenza del pensiero di Kant è affermata anche dalla monografia di Deleuze, che si divide in tre capitoli (uno per ogni Critica), inquadrati da un’Introduzione e da una Conclusione, e che, come ricorda Enrico Forni nel suo Saggio introduttivo, «studia la dottrina delle facoltà dell’anima come un sistema di permutazioni» la cui combinatoria riesce a far emergere tutti i temi capitali della riflessione kantiana.4 Si potrebbe dire che, analogamente, Solmi fa emergere i temi kantiani attraverso un sistema di totalizzazioni i cui due primi termini funzionano come opposti polari di cui il terzo termine organizza e risolve la tensione in seno ad un equilibrio più alto.
Vediamo quindi il funzionamento di queste triadi. Come si è detto, la critica è già il tertium che ricomprende in sé dogmatismo e scetticismo. Il dogmatismo corrisponde alla metafisica scolastica tedesca di Christian Wolff, in cui Kant si è formato, e consiste in un procedimento logico-deduttivo su cui riposa la soluzione di tutti i problemi intorno alla realtà nel senso più ampio del termine. In quanto deduttivismo, la metafisica di Wolff è anche un teoricismo, poiché ogni aspetto della vita umana è ritenuto interamente conoscibile e regolabile da un procedimento logico uniforme e necessario. Lo scetticismo corrisponde all’interesse crescente di Kant per l’empirismo inglese e per Rousseau, che affermano l’autonomia o il primato dell’affettività e l’irriducibilità alla deduzione dell’esperienza singolare, data all’evidenza intima di un soggetto individuale. Attingere il punto di vista critico significa per Kant articolare tra loro, da un lato, l’immediatezza dell’esperienza diretta, pratica ed affettiva, di un reale non logicizzabile, e, dall’altro, la validità e l’universalità delle operazioni dello spirito umano. La critica si interroga dunque sulla tensione tra il valore e il fatto, tra la validità e la genesi, e sulla loro composizione organica nelle attività dell’uomo. Nel secondo capitolo, dedicato alla Critica della ragion pura, la polarità dogmatismo-scetticismo riappare sotto forma di opposizione, nell’ambito della conoscenza, tra razionalismo ed empirismo, e, più precisamente, tra due tipi di giudizio su cui paiono riposare tutte le operazioni conoscitive: i giudizi analitici e i giudizi sintetici. Nei primi, com’è noto, il predicato è interamente contenuto nel soggetto e la conoscenza non fa che sviluppare gli impliciti di una definizione (ciò che corrisponde grossomodo all’ambizione deduttiva del wolffismo); nei secondi, il predicato aggiunge alcunché al soggetto, ma solo nel modo di un’associazione contingente, da cui nessuna conclusione generale potrebbe essere tratta. La sintesi a priori è quindi il luogo geometrico in cui cooperano la novità reale apportata dal predicato e l’universalità-necessità della relazione di questo con il soggetto. Nelle parole di Solmi, nei giudizi sintetici a priori abbiamo l’impressione «di apprendere qualche cosa di nuovo e di diverso, anche se, d’altra parte, abbiamo ugualmente e contemporaneamente l’impressione che le cose non potrebbero stare altrimenti che così».5 In altri termini, la sintesi a priori riunisce due determinazioni opposte: l’eterogeneità dei termini del giudizio e la «necessità o spontaneità con cui si saldano fra loro come sotto l’azione di una forza ineluttabile».6 Per descrivere la sintesi a priori, Solmi insiste sulla spontaneità e l’organicità della sua operazione, fino a darne una caratterizzazione quasi vitalista:7
Mi pare che questa posizione governi anche un’osservazione di Solmi sull’“io penso” in quanto appercezione trascendentale (cioè lo schema formale che accompagna ogni pensiero in quanto attribuibile ad un soggetto pensante): malgrado gli sforzi di Kant per fare dell’“io penso” un’istanza puramente formale, muta quanto alla natura della “cosa-che-pensa”, secondo Solmi «è impossibile eliminare dall’“io penso” ogni riferimento all’esistenza concreta e immediata, all’essere che è direttamente implicito in quel “cogito”».9 Se “io penso”, allora “io esisto”, anche se ignoro chi sono “io”, e la finitudine dell’io concreto in quanto heideggeriano essere-nel-mondo, il cui contenuto reale è dato dall’esperienza sensibile e dal commercio pratico con le cose, sembra potersi in effetti dedurre dai concetti kantiani, mentre la dissoluzione idealista del mondo nell’atto del pensiero è da scartarsi come conseguenza legittima del criticismo poiché essa elimina il rapporto ineliminabile con l’alterità che è la base della sintesi. L’“io penso” non è l’io empirico, ma lo slittamento dall’uno all’altro «si determina con una necessità automatica e irresistibile».10 A questo punto, ci si può chiedere, andando oltre la lettera del testo (e di Kant), se sarebbe accettabile definire il rapporto tra “io penso” e io empirico come una forma di sintesi a priori, poiché tra questi due elementi eterogenei il passaggio sembra farsi in nome di un’esigenza irreprimibile del pensiero. Si può intanto osservare che il recupero del tema della finitudine, e, correlativamente, la riaffermazione dell’impossibilità di sopprimere la Cosa-in-sé, dipendono nella ricostruzione sistematica di Solmi dal principio della totalizzazione degli opposti e dalla sua espressione nella sintesi a priori in quanto totalizzazione di dogmatismo e scetticismo, logica ed esperienza, razionalismo ed empirismo.
La conclusione della Critica della ragion pura, cioè la Dialettica trascendentale, è in ogni caso inconcepibile senza il principio dell’insuperabilità della finitudine da parte della conoscenza, poiché vi si tratta dell’esclusione dall’ambito della conoscenza delle Idee della Ragion pura: l’Anima, il Mondo, Dio. Com’è noto, queste entità, che trascendono l’esperienza fenomenica, sono nondimeno accessibili all’essere finito che è l’uomo attraverso una “potenza” diversa da quella conoscitiva, cioè l’agire in quanto determinato dal rapporto alla Legge morale. Nella dimensione pratica, si manifesta di nuovo la tensione, il conatus, verso un orizzonte di totalità in eccesso sui limiti immediati della condizione umana: le idee intorno «alla triplice totalità dei fenomeni dell’esperienza interiore, dei fenomeni del mondo esterno e dell’essere in generale nel suo fondamento ultimo»11 sorgono nell’uomo in virtù di un bisogno troppo radicato nello spirito per poter essere soppresso. Così, la Critica della ragion pratica tematizza una dimensione dell’uomo che costituisce il secondo dopo la conoscenza esplorata dalla Critica della ragion pura. L’analisi della vita morale appare allora come lo sviluppo di un’opposizione che ripete tanto quella tra razionalismo, empirismo e criticismo, quanto quella tra giudizi analitici, sintetici e sintetici a priori. Le conclusioni della Dialettica trascendentale rappresentano una riproposizione dell’empirismo, in quanto l’esistenza delle totalità espresse dalle Idee della Ragione non può essere dimostrata sulla base della nozione empirista dell’esistenza: «L’esistenza è una posizione assoluta dell’oggetto, che è attestata unicamente ed esclusivamente dall’intuizione sensibile».12 Di fronte a ciò, il bisogno dello spirito di afferrare queste totalità non sarà soddisfatto restaurando una conoscenza diretta del soprasensibile, come vorrà un certo idealismo, ma opponendo alla conoscenza un’altra facoltà capace di totalizzare ciò che sfugge all’esperienza sensibile.
La Critica della ragion pratica studia quindi la legge morale in quanto facoltà non conoscitiva. Solmi insiste sul fatto che la ricerca del tertium tra l’immediatezza cieca dell’empirismo e la necessità vuota del razionalismo si ripropone anche in seno a quest’opera, il che configura la ricostruzione del sistema kantiano come una triade di triadi. Così è rifiutata la morale fondata su un ideale di perfezione, con argomenti che, nella ricostruzione di Solmi, esprimono di nuovo il valore nel sistema kantiano dell’esistenza concreta in quanto forza espressiva: condizionare la qualità morale dell’agire ad un ideale di perfezione stabilito dalla conoscenza significa che
Solmi ricorda che nel Saggio sull’intelletto umano di Locke il giudizio è contrapposto alla conoscenza «come una manifestazione dell’attività razionale (o intellettuale) dell’uomo che, pur non potendo pretendere all’esattezza e alla certezza della conoscenza matematica o scientifica, possiede un indiscutibile valore».18 Il giudizio si applica a conclusioni non dotate di certezza matematica, e tende a coincidere con la ragionevolezza immanente alle pratiche sociali e ai criteri di gusto (il sapere dello storico, del giudice, dell’intenditore o del creatore di opere d’arte, del contemplatore della natura…). Questo tipo di giudizio, che Kant chiama “riflettente” per distinguerlo dal giudizio “determinante” proprio ai saperi esatti, è ancora una volta un’operazione «conforme a una tendenza profondamente radicata nella natura umana»,19 che ci spinge ad apprezzare e a valutare senza possedere la certezza di una regola esplicitabile e pienamente razionale. In altri termini, la Critica della capacità di giudizio studia i prodotti e le operazioni della nostra tendenza a giudicare, non già a partire da una legge generale applicabile a dei casi singoli, ma a partire da casi singoli trattati “come se” esistesse una legge generale. A questo proposito, Solmi osserva che
Solmi però suggerisce, poche pagine prima, un’apertura aldilà del sistema kantiano. Quest’ultimo si chiude sulla precarietà e l’insufficienza delle capacità formatrici e sintetiche dell’uomo di fronte al caos naturale. Con un rovesciamento che ancora una volta non potremo non definire adorniano, Solmi suggerisce che, nel Novecento, la sproporzione che ci opprime non viene da fuori di noi, ma dai nostri propri poteri divenuti ormai incommensurabili rispetto all’esigenza della sintesi e della totalità:
1 J. Vuillemin, L’héritage kantien et la révolution copernicienne. Fichte-Cohen-Heidegger, Paris, PUF, 1954.
2 R. Solmi, Lezioni su Kant, prefazione di Marco Gatto, Macerata, Quodlibet, 2021, p. 26.
3 E.M. Forni, Archeologia e ripetizione, saggio introduttivo a G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Bologna, Cappelli, 1979, p. XV-XVIII.
4 Ibidem.
5 R. Solmi, Lezioni cit., p. 36.
6 Ivi, p. 37.
7 Sulle metafore biologiche nelle Lezioni, si veda la recensione di G. Fichera, Imprevisti tracciati metaforici di un pensiero filosofico, in «Il manifesto», 31-07-2021. Da ricordare che anche per Enrico Forni, nel saggio introduttivo a Deleuze, la rottura con il meccanicismo newtoniano costituisce il valore contemporaneo delle Critiche.
8 R. Solmi, Lezioni cit., pp. 38-40.
9 Ivi, p. 65.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 81.
12 Ivi, p. 78.
13 Ivi, p. 97.
14 Ivi, p. 103.
15 Ivi, p. 109.
16 Ivi, p. 111.
17 Ivi, p. 118.
18 Ivi, pp. 119-120.
19 Ivi, pp. 122-123.
20 Ivi, p. 124.
21 Ivi, p. 125.
22 Ivi, p. 124.
23 Ibidem.
24 Ivi, p. 134.
25 Ibidem.
26 Ivi, p. 137.
27 Ivi, p. 128.