Gianfranco Contini,
Una corsa all’avventura. Saggi scelti (1932-1989), a cura di Umberto Motta, Roma, Carocci, 2023.
È molto più d’un’antologia la raccolta di saggi dedicata a Gianfranco Contini curata da Uberto Motta, ordinario di letteratura italiana all’Università di Friburgo: sbarcatovi nel 2011 è ora responsabile del “Dominio di studi e ricerche in Filologia e Letterature italiane”. Di Contini (1912-1990) è superfluo rammentare la mole di pubblicazioni e l’autorità indiscussa a livello mondiale di sommo filologo e di critico letterario. Ma se uno studioso o uno studente avesse voluto farsi un’idea della sua opera attraverso un libro accessibile in libreria, a portata di mano, si sarebbe imbattuto finora in non poche difficoltà. Gli scritti raccolti nei volumi editi da Einaudi sono concepiti per specialisti e si rivolgono ad un pubblico limitato. Eppure non si possono leggere Gadda o Montale, Dante o Petrarca senza attraversare pagine di acume straordinario, e scritti stesi in una prosa talmente elegante e sofisticata da costituire di per sé un piacere oltre che un ricco repertorio di indispensabili appigli conoscitivi. Per questo suo stile, unico e di suprema finezza, Contini ha incassato rilievi scherzosi o severi. Ricordo quando col consueto sarcasmo Sebastiano Timpanaro recitava con la sua voce baritonale l’attacco emblematico dell’introduzione al Canzoniere del Petrarca (1964, ma apparso già nel 1951):
Il cartellino alla cui ombra alberga il presente esercizio reca scritto: «lingua del Petrarca». L’adozione di simile etichetta non importa semplicemente la rinuncia a un «ritratto in piedi» di Petrarca, ambizione che sarebbe immoderata, certissimamente a parte subiecti, e forse anche a parte objecti, rinuncia a quella che sogliono chiamare visione globale, per un angolo visuale particolare.
Per intessere un’indagine che restituisca l’integrità di un autore, secondo Contini, era sempre imperativo muovere dal dettaglio, scegliere un “terreno tattico” che fosse “professionalmente consentito”. Le conclusioni (provvisorie) sarebbero venute dopo. Per riferire di un autore era fondamentale che si fosse tecnicamente attrezzati degli strumenti necessari e preferibilmente se ne occupasse chi fosse, egli stesso, esegeta, poeta o prosatore, in grado di dominare sovranamente i ferri del mestiere, non per esibirli nella loro stretta funzione, ma per farne momenti capaci di penetrare nell’edificio compiuto, nella struttura dell’opera. La lingua era la dimensione principe da «auscultare», verbo corrente nei saggi metodologici: quasi che l’oggetto da analizzare fosse un corpo vivo di cui cogliere sussulti, scarti, invenzioni, repliche. Nelle righe iniziali dedicate a Petrarca s’incontrano già le categorie essenziali del lessico continiano: «esercizio» contiene l’invito ad un approccio umile e parziale. Il ritratto a tutto tondo verrà in seguito, composto con le tessere di un mosaico da costruire lentamente per verifiche interne (intratestuali) e collegamenti esterni (intertestuali) del testo da chiosare e presentare. I ventisei saggi scelti per questo tomo disegnano diacronicamente un percorso che traccia una vera e propria monografia. Ogni pezzo è preceduto da un prezioso informatissimo cappello che lo colloca nella stagione (o occasione) in cui nacque e si sofferma sui punti nodali. In Come lavorava l’Ariosto (1937) Contini spiega il valore della critica delle varianti di cui è stato strepitoso maestro. Sprezzantemente qualificata come critica degli scartafacci si rivela invece, sotto il bisturi delle sue mani, un metodo di inestimabile efficacia per entrare nell’officina dell’autore e svelare i segreti del suo operare:
Che significato hanno – scrive Contini –, per il critico, i manoscritti corretti dagli autori? Vi sono essenzialmente due modi di considerare un’opera di poesia: vi è un modo, per dir così, statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risultato, e in definitiva riesce a una descrizione caratterizzante; e vi è un modo dinamico, che la vede quale opera umana o lavoro in fieri, e tende a rappresentarne drammaticamente la vita dialettica.
Nella prima procedura l’opera è un valore in sé, nel secondo tipo di accostamento emerge la faticosa approssimazione: non più elevata a valore assoluto di “creazione” ma smontata con chiarezza pedagogica in quanto prodotto. Procedendo per questa via Contini mise in luce il carattere dell’ottava ariostesca, la coincidenza di ritmo metrico e musicale sintassi. La critica ha da trasferirsi in laboratorio, ammoniva Contini, in un’intervista (a Renzo Federici). E si rifletta su
Implicazioni leopardiane (1947), contributo decisivo, anche in senso teorico, in pungente dialogo con Giuseppe De Robertis. Dove le correzioni si partiscono in tre tipi: vi sono correzioni che rinviano a passi del medesimo componimento, altre a passi estranei al componimento esaminato, altre ancora che rimandano, o per inserimento o per cancellazione, a luoghi che esorbitano dall’opera scrutata e invocano abitudini o presenze impresse nella coscienza dell’autore stesso.
Contini è stato protagonista di imprese eccezionali, che non è enfatico definire storiche. Vengon da citare i Poeti del Duecento, i due volumi usciti da Ricciardi nel 1960. O la molto discussa e coraggiosa antologia della Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, uscita da Sansoni. Sì, proprio nel 1968. Fu il Sessantotto letterario di Contini, che per altri aspetti ne soffrì crudeli e immotivate contestazioni, proprio nella Firenze dove insegnò, seguitissimo, dal 1973 al 1975. Si rilegge con commozione la Testimonianza per Pier Paolo Pasolini (1980). Par di ascoltarvi battiti autobiografici: «Le virtù che egli rimpiange sono quelle, sicure ma probabilmente condannate a morte, appartenenti a una società arcaica, patriarcale. La sua utopia non è prospettica ma nostalgica». Non era stato così anche per Dante? Ma i sentimenti non offuscano la razionalità filologica di chi non cedeva a cadenze patetiche. Perché il metodo di analisi testuale, di sapiente ecdotica, praticato da Gianfranco Contini fu ispirato ad una tenace adesione al testo. E resta imperitura la sua lezione nutrita di “diligenza e voluttà”, come suona il titolo di una bella intervista a Ludovica Ripa di Meana (1989), concessa giusto a testamento, in limine di sereno commiato. All’insidiosa domanda di cosa riteneva avesse bisogno la società italiana rispose: «Di qualcosa… mah… di qualcosa di religioso, se osassi usare questo termine. Un minimo di religiosità… Questa frase rischia di essere interpretata in senso confessionale e, naturalmente, si tratta di tutt’altra cosa». Il filologo sovveniva al pudore di una confessione che scopriva una spiritualità mai dismessa, intima e non esibita, personalmente vissuta e non teatralmente proclamata.