
Luogo d’ibridazioni e d’innesti storici e identitari, dalla natura irrisolta, che per lungo tempo si è interrogato – e continua ancora oggi vivacemente a farlo – sulla violenza del Potere, il Sud emerge, dalla lettura dell’ultima raccolta di saggi di Fabio Moliterni, Finzioni meridionali, come spazio nel quale convivono conflitti e alternative spesso possibili. Un’attenta lettura antropologica – che guarda storicamente i testi analizzati (da Leonardo Sciascia a Vittorio Bodini, da Rina Durante a Pier Paolo Pasolini, da Ernesto de Martino e Carlo Levi a Nino De Vita, fino alle tendenze più recenti della narrativa pugliese) attraverso un’ottica di longue durée, tra passato prossimo, presente e futuro – si coniuga con le istanze di una sociologia della letteratura vicina al tema della subalternità. Per lungo tempo il Meridione d’Italia, infatti, è stato visto come teatro di emarginazioni: in questa prospettiva, allora, vale più di tutte la lezione di Antonio Gramsci, che nel venticinquesimo dei Quaderni del carcere offrì la chiave di volta per eleggere il Sud quale «laboratorio in cui si sono meglio esercitate, nella storia italiana, le forme della repressione e del trasformismo a opera degli intellettuali tradizionali, delle élite e dei partiti di massa, ma allo stesso tempo [come] luogo critico dal quale ripartire per un rinnovamento radicale e profondo dell’intero sistema sociale della Nazione» (p. 9).
Il pensiero di Ernesto de Martino, un filo rosso che carsicamente percorre i saggi delle Finzioni meridionali, viene attraversato da Moliterni guardando primariamente al suo «stile etnografico», e la novità più rilevante è la ricerca della connessione (pur nella difformità di esiti ideali, o prospettive) dell’autore di Sud e magia con l’opera e il pensiero di Carlo Levi: le opere meridionalistiche dei due intellettuali sono indagate per quanto riguarda i temi del sacro e del mito, della persistenza dell’arcaico, e in particolare delle motivazioni o finalità ideologiche alla base delle loro strategie narrative.
Riconsegnare la voce agli oppressi, dunque, e denunciarne la marginalità sociale ed esistenziale; ridefinire le categorie della Storia, ora intesa in senso evenemenziale, ora come mosaico da scomporre e ricomporre; mettere in chiaro la «naturale» violenza del Potere e le sue ambiguità, sono al centro dei saggi su Rina Durante e Leonardo Sciascia: della prima, scrittrice e giornalista salentina, poco nota al grande pubblico, si ricostruisce l’attività letteraria «dispersa su quotidiani e periodici, nell’arco di un decennio che va dal 1963 […] fino alla metà degli anni Settanta, quando la scrittrice fa ritorno nel Salento dopo la parentesi romana» (p. 15). Registri narrativi diversificati e molteplici piani interrelati, «interessanti sconfinamenti nei territori del grottesco e dell’assurdo» (p. 22) fanno di Rina Durante una scrittrice d’eccezione, maestra di una scrittura comica e popolare, sperimentale, carnevalesca e politica, in grado di allestire un’antropologia letteraria intorno alle «“contro-memorie” dei subalterni, dei devianti e dei marginali che si muovono negli interstizi o nelle periferie della Storia» (p. 23). Di Leonardo Sciascia, la cui opera viene sondata da Moliterni a partire dalle Favole della dittatura (primo libro dell’autore siciliano, dato alle stampe nel 1950), si pone al cuore della questione la natura stessa della letteratura, della parola letteraria come problema, nel senso di costruzione (finzione) d’una realtà alternativa e spesso indicibile: «come parlare del fascismo, o delle dittature tout court, “parlando d’altro” [parole di Sciascia]? Ecco la domanda per rispondere alla quale, a un certo punto, Sciascia ha scelto per il suo esordio di scrittore la strada dell’apologo e della favola, sconcertando, e non poco, i suoi lettori» (p. 47). Il primo libro di Sciascia, che ossessivamente s’interroga sul senso dell’(in)giustizia e sulla tortura, sulla natura dispotica e criminogena del Potere precostituito, può essere allora letto sotto la lente di un’allegoria che «regola la dialettica tra individui e classi sociali» (p. 49), una forma di violenza che le ceneri del fascismo avrebbero per lungo tempo ancora covato, dal dopoguerra fino a oggi. Questa linea critica si dispiega anche nel saggio sul Consiglio d’Egitto (1963), romanzo maturo e apertamente meta-storico dello scrittore siciliano, in cui la portata più rilevante del libro, individuata da Moliterni, si registra anche «nell’alternanza o […] sovrapposizione di punti di vista in contrasto tra loro che apparentemente esauriscono tutto l’orizzonte della narrazione» (p. 58). Il linguaggio e la grammatica del Potere (lessico, rituali, mentalità) sono assorbiti nel tessuto stesso della narrazione, per cui Sciascia, anziché operare una differenziazione delle prospettive e delle angolazioni dei suoi personaggi, realizza al contrario un «congegno testuale multiplanare che nelle continue interferenze vocali, nella rinuncia ad un punto di vista stabile, nella gestione volutamente ondivaga della focalizzazione, finisce con il presentarsi come un prisma dialogico nel quale vige la parzialità di ogni prospettiva univoca o unificante» (pp. 58-59).
Vicino al tema d’una generale souffrance degli esseri viventi, una sofferenza profondamente legata alla natura e alla Storia, al paesaggio e ai luoghi natii – e che per certi aspetti richiama le tendenze più evidenti della lirica leopardiana e primo-montaliana – Vittorio Bodini (poeta e traduttore salentino) si fa portatore, nelle sue raccolte liriche, di istanze plurali e antinomiche, deformate e deformanti, che nella tarda produzione poetica si riversano in una «sintassi contorta, non sempre sorretta da una struttura logica, […] con […] frequenti infrazioni della punteggiatura» (p. 85) e con versi atonali che esorbitano dalle misure tradizionali della lirica italiana contemporanea. Nell’opera del poeta salentino, il paesaggio, allora, una presenza costante e pervasiva, come si è visto «eccede la mera dimensione tematica» (p. 77): oltre ad incarnare un generale motivo ispiratore, esso è «attraversato da angosce e inquietudini esistenziali, filosofiche e metafisiche […]. [Si] parte dalla rivolta radicale contro una realtà amata e insieme respinta, [se ne] rintraccia[no] le manifestazioni vitali ma anche i segnali di certezza della morte, di una sventura o di un’infelicità sempre in agguato» (p. 87). Ne deriva un’immagine della terra salentina non pienamente conciliata, scissa tra un animismo ancora atavico e primitivo e un antropocene selvaggiamente industrializzato. Alla stessa maniera nella poesia di Nino De Vita, annota Moliterni, si registra «una dialettica paradossale e irrisolta che è capace di far convivere gli opposti e i contrari» (p. 117). Polarità dicotomiche attraversano l’opera in versi del poeta siciliano, nella quale forme di «epicità corale» (p. 118) restituiscono alla memoria collettiva lingue e culture dimenticate e sull’orlo dell’oblio.
Linguaggi e dialetti intesi come «forme di vita» ritornano intatti nell’ultima conferenza tenuta da Pier Paolo Pasolini il 21 ottobre 1975 presso il Liceo «Palmieri» di Lecce; il poeta delle Ceneri di Gramsci era stato invitato per tenere una lezione, dal titolo Volgar’eloquio, nell’ambito di un corso di aggiornamento per docenti (il cui tema era Dialetto e scuola) organizzato dal Ministero della Pubblica Istruzione. Il pomeriggio di quella stessa giornata Pasolini lo trascorse a Calimera, un piccolo comune della Grecìa salentina, accompagnato da Rocco Aprile e Luigi Tommasi. Qui ebbe modo d’ascoltare, in maniera improvvisata e tra i vecchi locali di una dismessa fabbrica di tabacco, i canti popolari della tradizione grica, e ne rimase profondamente colpito. Attraverso paradossi, parallelismi e provocazioni, Pasolini ebbe modo, nella sua conferenza, di denunciare il «declino» e la «morte dei dialetti», quindi di metterne in luce, per converso, la funzione dinamica e propulsiva (contro un volgare «tecnocratic[o]», un «Italiano orrendo»), e connotando l’intero discorso d’una «torsione pedagogica, disperata e vitalistica che escludeva la rassegnazione e il nichilismo, e che invece testimoniava», in un fondale apocalittico, la volontà di «proteggere la natura non integrata della funzione intellettuale» (p. 97).
Le esperienze marginali, non sempre integrate, o perlomeno poco riconosciute, che Moliterni ha cercato di illustrare in questa raccolta di saggi, restituiscono un Meridione letterario ma non libresco (come ha osservato Marco Gatto in una recensione alle Finzioni uscita sul «Manifesto» il 7 gennaio 2025), ancora ricco, per lo più insondato e pienamente da (ri)scoprire. L’alterità del Sud, che sfida dal di dentro le istanze più critiche della contemporaneità, con tutte le sue impurità e diseguaglianze, può ancora essere un’alternativa «scentrata e irregolare» (p. 12) contro le pericolose tendenze omologanti del tempo presente, sul piano letterario e politico.