Andrea Inglese,
Storie di un secolo ulteriore
Ezio Partesana

Andrea Inglese, Storie di un secolo ulteriore, Milano, Derive Approdi, 2024.

La teologia – la scienza di Dio – serve sovente due padroni, e per questo i suoi seguaci parlano di cose ultime nascosti dentro un fantoccio: Alla verità dell’Onnipotente si rivolgono, ma narrano di noi, di noi In un modo tale, c’è da aggiungere, che si preferirebbe tacessero. Tutto quello che non sarebbe dovuto accadere è ritratto con precisione, nei racconti di Storie di un secolo ulteriore, e con una perfidia che sfiora il “lo avevamo detto” dei rivoltosi del secolo passato.

Andrea Inglese commette però, per così dire, un terzo peccato: chiede ragione. Perché tocca parlare dell’oratore Rinaldo o della Cuoca di Durruti? Come Dante, Inglese va incontro (“va in cerca”, verrebbe voglia di dire) agli uomini e alle donne, ma senza Virgilio e la metafisica tomista. Così i suoi dispersi raccontano sì quel che li danna (rari i dialoghi diretti) ma la lezione etica resta malinconicamente sospesa, era a un passo ma ce la siamo persa. Il narratore non ha perso la parola né il giudizio, ma il mondo gli mangia tutto quello che vorrebbe dire.

«Ulteriore» è un comparativo, non dunque solo “al di là” ma bensì “più che lontano, trapassato”. Il secolo ulteriore non sono cento anni aggiunti a quelli già trascorsi, non è un passato in cronologia, piuttosto un secolo di troppo, un tempo sprecato a rivedere ancora le medesime miserie. La tentazione di leggere i racconti di Inglese come metafore barocche, come diavoli e mostri immaginari che reggono gli architravi d’un portale o di una finestra, e che solo chi li fece sa cosa significassero i loro corpi distorti, è forte. La Storia di una sala sarà la memoria infantile del salotto buono di casa o l’immagine scura del luogo dove si credeva di arrivare una volta tolto il pavé dalle strade? La risposta alla tentazione, e alla domanda, è nelle forme vuote che Andrea Inglese descrive come se fossero piene, di un senso, almeno di rammarico, contro una architettura del dominio della cui prospettiva non sappiamo più dire nulla: «I pensieri sempre più ottusi».

Tutti i testi di Storie di un secolo ulteriore si chiamano “Storia con…”, con l’eccezione di sei intermezzi privi di titolo e scritti in prima persona a un “tu” che appare essere un poco più di un personaggio di un racconto; spesso cominciano con “tu e io”, e solo dopo aver stabilito l’alleanza spiegano. Confessioni, forse, del reale, in mezzo a tante fiabe grottesche. La forma parallattica nasconde le ragioni delle “storie” ma qualche forza traspare; vero che Giove è lontano, ma ha una massa enorme. Lo statuto di una realtà semplice – quel che è accaduto, quel che avevamo creduto – è piuttosto messo in forma di parodia che è, come noto, l’uso di forme ben morte per far sapere che qualcosa di nuovo sotto il sole ci sarebbe anche. È un atteggiamento politico, non solo artistico, il tacere quello del quale è così difficile parlare, è uso politico del piacere della lettura o, letteralmente, seduzione, cioè sviamento.

Nella puntigliosa fenomenologia di Storia con fagioli, al riconoscimento di un Io libero e sovrano nella sua costruzione del mondo fenomenico, si blocca lo scherzo in gola quando riconosce che oramai siamo proprio così, che esattamente questo ci è rimasto e c’è poco da ridere. Si guarda indietro, alla teologia che avevamo, ma sono rimaste solo le reliquie e il culto a loro appropriato, e di battaglie e preghiere neanche un mormorìo. È davvero un seduttore Inglese, che non si pente neanche quando il catalogo è completo e non c’è più via di scamparla. Indugia nella sua arte – come il falso “parlato” di Storia con cadaveri – e tiene a bada i mostri (Storia con brutti), dà la sua personale versione della Colonia penale (Storia del fiume) e fa il verso a Quenau, in mancanza di calvados, con i Sette finali alternativi…

Se qualcosa gli si può rimproverare, a Inglese, è, come a Don Giovanni, di ripetere sempre la stessa cosa. Nel suo personale – e dunque comune – mondo delle idee che non abbiamo fatto scendere in terra, alla fine la «abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione» e le «giurie dei grandi premi letterari» sono per l’extraterrestre lo stesso scenario.

Inglese ha ragione; probabilmente pensa, come Adorno, che dalla buona educazione di una conversazione in un vagone ferroviario si possa giungere ai campi di sterminio. Solo che quel che presenta nei suoi racconti è la parodia del macello, i clown in scena dopo che tutto è già stato compiuto. È difficile tenere tutto insieme, se non per sofferte sparizioni, non più meditazioni ma incubi di una vita offesa.

Le scelte lessicali e sintattiche compiute sono perfette; parlata “bassa” dei personaggi, nomi propri popolari e arcaici, frequenti elenchi con minima variazione, producono il contrario dello straniamento, è anzi un appaesamento quello che ti prende, come se tutto quel che viene raccontato fosse normale, esperienza del quotidiano vivere qui e ora. Ci si sente a casa, insomma, ma viene da guardare sotto il letto per essere sicuri di non aver fatto entrare, inavvertitamente, i mostri in camera.

Lo smarrimento che si prova leggendo le Storie di un secolo ulteriore è lo stesso che prende quando si chiede al Creatore il perché del male sulla terra: Si vorrebbe essere un uomo di Dio, ma la tempesta è troppo forte per far finta di nulla. E così sulle parole calano due padroni, il non-giusto e il reale, e l’unico modo per soddisfarli entrambi è fingere, come Arlecchino, dare una bella forma anche a quel che non si dovrebbe neanche tollerare. Ed è proprio qui lo spiritello anarchico di Inglese che ripete: «Vedi? Basta ricordare e anche a tutto questo possiamo dare un segno e un nome». Il problema è ricordare cosa, quale sia la “volta per sempre” che ci fa ancora, come Giobbe, mettere le labbra contro l’orecchio di Dio.

La storia del destino comune è, forse, un capitombolo; il fascino dello stile di Inglese è, però, iscritto davvero negli scalini troppo corti del regime narrativo farsesco, dove da ogni porticina può davvero entrare, come detto dagli esegeti della lingua di Dio, il Messia. Allo stesso modo un tono elevato, elegiaco e lirico, spicca nel burlesco a ribadire che si può anche ridere, ma con le mascelle serrate e i pugni in tasca: «Si doveva stare assieme come una cosa assodata e definitiva, senza vere obiezioni, senza enormi dissensi, ma poi alla fine non rimane più nessuno. […] Non rimane più nessuno da nessuna parte». Di alcuni tratti Malone sarebbe orgoglioso: «Vedo un uomo. Corre via. Non è un filosofo. Io stesso corro. Io corro a perdifiato. Vedo un uomo. Corre via di nuovo. Non è lo stesso uomo. Non è neppure lui un filosofo» (Storia con gatto e portoghesi). Nel secolo ulteriore, nella sua dimestichezza con la brutale severità di quel che accade ai rapporti umani, esce a volte di senno, sfugge, diciamo così, la ferma realtà da vendicare, – Avevamo sognato tutto molto diverso sui nostri libri, dietro il muro del nostro giardino, tra i mirti e gli oleandri (Büchner); i testi di Andrea Inglese raccontano di quel che avevamo sognato, quando ancora sapevamo sognare. E quel che ne rimane, beninteso, il terzo peccato dello scrittore.

C’è una coscienza della messa in scena che non è meno forte per essere stata privata, al contrario di tutti gli altri, di un titolo: non è “storia con…” niente, non ha un nome proprio, non fa misteri dell’accaduto. Riflette, letteralmente duplica, i soggetti protagonisti di tutte le altre storie, è, si sarebbe detto, un dialogo interiore, una domanda da demone corrusco: Perché darsi tanta pena a scrivere? Andrea Inglese risponderebbe, forse, ironicamente, che qualcuno deve pur fare il lavoro sporco. Ma la verità è che: «Tutto quello che viene dopo, il domani, il futuro, il nuovo, e le altre nozioni temporali complesse, tutto sarà più gradevole da vivere, e pronto al chiarimento, allo scontro» (IV Intermezzo).

Può essere piacevole non leggere oltre, a meno che non si voglia lo scontro.