Massimiliano Tortora,
Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta
Riccardo Dileno

Massimiliano Tortora, Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta, Milano, Ledizioni, 2024.

Lo studio di Massimiliano Tortora dedicato al romanzo italiano degli anni Cinquanta riunisce tredici saggi, per la maggior parte già editi e qui riuniti in volume, accomunati dalla stessa impostazione di fondo, ovvero rintracciare per ciascun autore e testo il rapporto con le poetiche moderniste da un lato e con il (neo)realismo dall’altro. L’idea di fondo del saggio si può riassumere nella convinzione che il genere romanzo – vale a dire la fiducia mai sopita che la parola possa rappresentare il mondo attraverso una mimesi pur sempre organica – sia in grado di rimanere saldo pur sotto le spinte del modernismo e comunque senza appiattirsi sulle poetiche neorealiste.

Tortora ripropone un’impostazione critica del rapporto tra realismo e modernismo condivisa dai suoi lavori precedenti. Già infatti nella monografia del 2019 dedicata a Tozzi, l’autore senese (caposaldo del canone dei modernisti italiani) era analizzato sì alla luce del modernismo, ma anche nella consapevolezza della persistenza di alcuni retaggi del realismo ottocentesco, della lezione di Verga per esempio, ancora attivi specialmente in opere più tradizionali come Tre croci. Molto opportunamente Tortora suggeriva per Tozzi (ma ciò vale per il contesto italiano in generale) una nozione più tenue di modernismo, che non obbligasse ad un riscontro stringente e quindi a conti fatti forzato con il modernismo europeo e americano. In sostanza, il modernismo storico (vale a dire primonovecentesco) in Italia già si proponeva in una posizione di compromesso e mediazione con il realismo ottocentesco. L’ultimo saggio riparte proprio da questa idea di una condizione modernista attiva lungo tutto il corso del Novecento e che il romanzo acquisisce, senza mai oltrepassare del tutto le poetiche realiste (peraltro una tesi affine è sostenuta anche da Riccardo Castellana che ha proposto di recente la nozione di realismo modernista, con accezione questa volta auerbachiana).

Il saggio opta per una periodizzazione del decennio molto convincente: il termine d’inizio è il 1948 che con la sconfitta del Fronte popolare sancisce la fine di quello spirito di ottimismo e fiducia nella storia che costituiva il presupposto necessario del Neorealismo; quello finale è il 1963, data inaugurale della Neoavanguardia italiana, che diffonde uno sperimentalismo fortemente avverso al romanzo (soprattutto in polemica con gli autori più celebri come Bassani, Cassola e Moravia). Il distacco dalla letteratura resistenziale è analizzato prendendo in esame generi sostanzialmente saggistici, come il reportage e l’inchiesta, che però conservano comunque un’ambizione letteraria e narrativa. Questi testi, essendo volti ad una contestazione del presente, chiudono i conti con quello spirito resistenziale che portava con sé una certa fiducia nel futuro dell’Italia e un’adesione ideologica che fungeva da perno della narrazione. Scrittori e scrittici, insomma, fanno i conti con la delusione degli ideali resistenziali e si confrontano con la realtà drammatica del Paese, con intenti di analisi critica e denuncia sociale: così Sciascia in Sicilia, Ginzburg in Abruzzo e in Basilicata e, pur in un contesto diverso, Moravia in Unione Sovietica.

Alla luce dell’oscillazione tra i due poli del realismo e del modernismo vengono presi in esame autori più o meno canonizzati come Bassani, Moravia, Pomilio, Volponi e Arpino (per citare solo i principali); con il pregio di potersi porre ad una distanza critica sufficiente a superare i dibattiti a caldo che di frequente hanno restituito un’immagine parziale e distorta di molti di questi. Il quadro del romanzo degli anni Cinquanta è infine completato dai capitoli dedicati alla letteratura sulla Shoah, nelle sue diverse fasi di elaborazione del trauma, e al romanzo industriale che, negli anni di inizio del Boom economico, si propone di rappresentare e denunciare la condizione operaria nelle industrie italiane.

In conclusione, lo studio di Tortora restituisce un’immagine chiara e complessiva (ma mai generica grazie a molti affondi in casi studio specifici), del romanzo lineare e realistico che ha costituito il genere dominante della narrativa degli anni Cinquanta. Nel farlo si avvale anche di analisi del rapporto degli scrittori con il mondo editoriale (anche quello delle riviste), sempre più importante in questi anni in cui emerge una vera e propria industria culturale, e anche di una consapevolezza sociologica che permette, soprattutto grazie alle nozioni di campo e capitale simbolico di Bourdieu, di sondare il rapporto degli scrittori con il contesto sociale.