E questo è il sonno…
Temi, montaggio, figuralità
Felice Rappazzo

«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell”avvenire’ il disperato gesto…
Al mio custode immaginario ancora osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.

Nessun vendicatore sorgerà,
l’ossa non parleranno e
non fiorirà il deserto.

Diritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta
affaccendata e zitta.

Tutta la creazione…
Carcerate nei regni dei graniti, tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione…

Ma voi che altro di più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi,
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto ormai è un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità

Questa poesia di 36 versi, priva di titolo, conclude l’ultima raccolta di Franco Fortini, Composita solvantur (1994); conclude anche la sezione omonima, a dire il vero, ma in qualche modo staccandosi da essa. In realtà nel volumetto compare anche una «Appendice di light verses e imitazioni» non proprio breve (contiene quattordici componimenti, alcuni dei quali notevoli per temi e costruzione formale), ma, anche se l’indicazione «Appendice» potrebbe essere ironicamente fuorviante, è molto difficile considerare questo gruppo di componimenti una sezione autonoma, per l’impiego del corsivo nell’Indice a designarla, per la varietà dei temi, e soprattutto per le indicazioni che troviamo proprio nel componimento che ci apprestiamo ad analizzare. Esso rimanda infatti, dichiaratamente, al primo componimento della prima raccolta del poeta, ed allude quindi ad una specularità, ad una circolarità, ad una chiusura simbolica dell’attività poetica. Richiami tematici, e dunque ancora circolarità, troviamo anche nel testo di apertura della raccolta, posto quasi in esergo prima della sezione introduttiva, «L’animale». Interamente in corsivo, esso ha inizio coi versi: Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole; vi troviamo ancora l’allusione alla verità (ma ad una verità che la poesia, «le parole», non possono cogliere, che esse, anzi, contribuiscono a distanziare, a separare), quasi in simmetria e in opposizione con le parole ultime di E questo è il sonno… Al tessuto intertestuale che meglio vedremo se ne aggiunge dunque uno intratestuale, che appare fin da una prima lettura molto cospicuo. Entro la sezione terminale, poi, che conferisce il titolo alla intera raccolta («Composita solvantur», appunto), il tema che domina e che si ripropone in vari modi e motivi irraggiandosi per tutti i componimenti è proprio quello della fine e della morte, dell’eredità e della non insostituibilità di ciascuno: i vari motivi sviluppano insomma un unico tema con variazioni. In breve: già ad una sommaria analisi, la poesia presenta una serie di rimandi e riecheggiamenti allusivi che le conferiscono una posizione e un rango di spicco nella raccolta e nella produzione di Fortini.

Soffermiamoci su un altro aspetto, quello enunciativo e formale: la stesura del testo è affidata ad un montaggio di strofe e di citazioni (come vedremo meglio), per lo più in corsivo, e al corsivo, appunto, si affida la soggettività del poeta-locutore; solo due strofe e un segmento di verso sono in tondo: la voce esterna, dell’oggettività, della lucida razionalità storica, dell’Altro, della “realtà”? Forse. Ma è evidente, intanto, che proprio il montaggio è la forma essenziale del componimento. Forse ne è anche – nascostamente – il tema, l’ipogramma latente. Esso rimanda infatti ad un dialogismo agonistico e drammatico, ad un conflitto di voci e riflessioni, all’alternarsi di momenti elegiaci e di asseverazioni “forti”. La successione tondo/corsivo combinata con la brusca giustapposizione tematica e con forti ellissi fra l’una e l’altra delle strofette, sembra insomma alludere, entro il rapporto fra riflessione e descrizione, a due voci dialetticamente intrecciate, a una polifonia conflittuale, talvolta narrativa, talaltra epigrammatica. La costruzione del testo si configura così come una sorta di enigma, ossia come una commistione di dati accertati o verificabili e di altri che appaiono invece incerti e oscuri: dall’insieme di queste multiple giustapposizioni scaturisce l’energia e il significato del testo.

Anche la versificazione, dal canto suo, contribuisce a tale dialogismo agonistico. Si tratta di misure metriche spesso utilizzate da Fortini, ma qui, più che altrove, inframmezzate da alterazioni di ritmo, da spezzoni di enunciati, da rapide conversioni da un registro espressivo ed enunciativo all’altro, dall’irregolarità strofica: e non si sa se sia la metrica a provocare tali torsioni enunciative o se non siano piuttosto gli scossoni provocati nell’enunciato dalla successione, apparentemente disordinata, dei motivi poetici, a produrre le inarcature metriche. Per questo motivo, rinunciando ad una descrizione sistematica degli aspetti metrici del testo, che non si allontanano da quelli spesso osservati nel Fortini maturo,1 mi limiterò, qui, ad annotare la presenza, in esso (come del resto in molti altri testi di Fortini), di una versificazione varia, nella quale sono presenti allusioni a versi canonici e misure ritmiche e metriche “libere”, accanto a due forme canoniche principali: gli endecasillabi che segnaliamo ai vv. 2, 5, 7, 14, 19, 21, 26, 27, 36 (quest’ultimo, come il v. 7, tronco, mentre i vv. 2 e 19 sono endecasillabi solo se vi leggiamo una sinalefe); e, ancor più significativamente, parecchi versi derivati dall’alessandrino, con misure che vanno dal dodecasillabo al doppio settenario, tutti, o quasi, forniti di marcata cesura: 1, 3, 4, 6, 10, 12, 17, 18, 19, 29, 31, 32, 34, 35; in totale la versificazione “canonica” (sebbene tutt’altro che regolare e omogenea) raccoglie ventitrè versi, cui va aggiunto anche qualche settenario: non poco per una forma aperta e dinamica come quella che esaminiamo. Eppure la lettura delude l’aspettativa della regolarità, come effetto, certamente, dell’alternanza e varietà di forme e del montaggio già segnalato.

Forma aperta, abbiamo detto: ma fino a che punto ed entro quali limiti? Se guardiamo all’aspetto metrico in senso stretto, certamente possiamo ritenerla tale, data l’irregolarità strofica e la varietà dei versi. Ma la questione va posta in modo più complesso: è vero che Fortini predilige le forme “chiuse”, anche se questa preferenza non esclude che diversi suoi notevoli testi assumono morfologie dinamiche e differenziate, “aperte” insomma; tuttavia in questo campo non è possibile prescindere dagli aspetti tematici, o – se si preferisce – dalla disposizione dei motivi entro il testo. Se è vero che un enunciato articolato e complesso come una poesia dà luogo ad un “discorso” fondato su simmetrie ed asimmetrie, su ellissi, su richiami e rimandi degli elementi tematici, tutto ciò non può essere escluso dall’apprezzamento e dalla definizione di una “forma”. Perfino aspetti qui apparentemente caotici come il montaggio e la sequenza dei versi risulteranno orientati più alla costruzione coerente che alla sconnessione testuale. Se assumiamo questo punto di vista, quello che valorizza, insomma, la forma del contenuto, E questo è il sonno… si dimostra una forma senz’altro “chiusa” per la sua densità e compattezza: è una osservazione che può essere estesa a molti altri testi maturi di Fortini.

Si tratta di annotazioni che qui intendo solo suggerire, giacché una loro discussione abbisognerebbe di analisi che si concentrino non su uno ma su una serie significativa di testi; nell’ordine, su quelli della sezione, su quelli della raccolta, senza escludere rimandi all’insieme dell’opera poetica dello scrittore. Per quanto, a prima vista, più varia, Composita solvantur è raccolta che rivela compattezza non minore, poniamo, rispetto a Questo muro. Ma lo scopo di questo studio è procedere all’analisi dei motivi poetici e delle allusioni tematiche presenti nel componimento, seguendolo strofa per strofa; annotando preliminarmente che il contesto simbolico e testuale di riferimento, esplicitamente richiamato dall’autore, è, come avviene di frequente in questa raccolta (ma anche altrove), quello del Purgatorio dantesco.2

Ecco la prima strofe del testo, dunque:

«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell’‘avvenire’ il disperato gesto…
Al mio custode immaginario ancora osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.

Ecco cosa scrive Fortini nella breve nota esplicativa (in realtà anch’essa piuttosto ellittica) che è posta a conclusione del volume e che, non certo a caso, è dedicata per un buon terzo proprio a questa poesia:

In corsivo e senza titolo come quello d’apertura, lo scritto che posto prima dell’appendice conclude la raccolta piuttosto che una sequenza di versi mi pare una epitome autobiografica: «E questo è il sonno» sono le prime parole del primo verso di Foglio di via, lo scrissi cinquant’anni fa, «custode immaginario» è quello, di mutevole identità, della poesia che qui s’intitola, appunto, Il custode. Una volta per sempre è titolo di una raccolta di versi del 1963. La selva è quella del già ricordato canto del Purgatorio. «Tutta la creazione [geme insieme e patisce doglie]» richiama un tormentato passo dell’Epistola ai Romani, 8,21.3

L’avvio è nel complesso piano e narrativo. La prima strofe è uno dei pochi luoghi per i quali la definizione di «epitome autobiografica» sembra appropriata: degli elementi che ritroviamo elencati nella nota, tre su sei sono concentrati proprio in questa strofe (i riferimenti al verso iniziale, alla selva, al custode). L’aspetto autobiografico, sebbene in forma di «epitome», appare, nel testo, in forma allusiva e “trascendentale”, anche se non certo serena; e soprattutto si accompagna, come sempre in Fortini, alla riflessione sul destino della specie umana, un destino qui drammaticamente osservato sia sul versante storico, sia su quello apocalittico. Si noti già che la figura del poeta, qui «fatuo vecchio», è contrapposta a quella vitale ma turbata dei «ragazzi mesti» che chiuderanno la poesia: inizio e fine si toccano. La contrapposizione fra vecchi e giovani, o fra vecchiaia e giovinezza, che disperatamente vorrebbe ordinarsi a dialogo, incornicia insomma la materia poetica. Avevamo letto, a tacer d’altro, in Questo muro, il breve apologo Il bambino che gioca, che chiude la sezione «Il falso vecchio»: in esso le parti del saggio, del narratore di favole, e quella dell’ascoltatore sono invertite: è il vecchio ad ascoltare ciò che il bambino ha da narrare, e il vecchio ascolta e riflette («Gli si facevano sicure e chiare / cose che mai aveva capite»). Vedremo che la poesia che stiamo studiando comprende anche una ripresa e uno sviluppo di quel motivo poetico ormai antico; ma le componenti specifiche dell’apologo sono incorniciate, e in qualche modo stravolte, dal contesto “narrativo” e dalla drammatizzazione del testo, che parte da uno spunto – lo dice l’autore – autobiografico: la ripresa, fin dal primo verso, in autocitazione, della prima poesia della prima raccolta, allude all’amore per il niente che avrebbe attratto il giovane poeta cinquant’anni prima, condizione, peraltro, di una aspirazione al domani, all’avvenire: al compimento e alla totalità, insomma.

I tre versi che concludono la strofe mostrano tuttavia un certo cambiamento: alla rievocazione si sovrappone uno strato allegorico. Il custode «di mutevole identità», ripreso e trapiantato dall’omonima poesia di qualche anno precedente («pochi anni fa») è anche segno e simbolo di una fede, di una speranza, o almeno di una tensione costante, che avrebbero avuto la funzione di guida e di protezione permanente per il giovane prima, per il maturo scrittore poi: fedi e speranze sembrano oggi definitivamente tramontate, se il poeta le ha attribuite a se stesso come «fatuo vecchio». Fatuo proprio perché illusoriamente persuaso di una insostituibilità dei propri valori e della propria funzione, ci suggerisce la speculare strofa finale. Anche la fine di tale processo ha colori a un tempo storici e metastorici: allude allo spegnersi delle speranze di palingenesi sociale e antropologica, ma anche ad amare riflessioni (di stampo decisamente leopardiano) sulla infelicità e necessaria incompiutezza della natura e del destino umani, che delle prime costituiscono la condizione, forse, inevitabile. Si noti la complessa e quasi contorta sintassi con cui si accenna alla preghiera rivolta al custode: oltre ad alterare l’andamento piano dei versi che precedono, questa ricercata soluzione stilistica sembra sottolineare la ritualità, la sacralità liturgica della preghiera stessa, calcata com’è su un formulario arcaico e sull’uso intransitivo di «pregare» che, in latino, comporta propriamente il valore linguistico di «rivolgere preghiere a qualcuno». Il risveglio nella «santa viva selva» del Paradiso terrestre, pre­sentato come superamento del sonno protetto dal custode-Virgilio, è anch’esso, a ben guardare, un tentativo di mantenere uno stato di illusione, di oblio.4

Ma con la seconda strofe la variazione è repentina, nello stile enunciativo e nei temi: si tratta della parte probabilmente più complessa (e compressa) del testo, vera chiave di volta dell’interpretazione, cui tutto il componimento finisce col riferirsi:

Nessun vendicatore sorgerà,
l’ossa non parleranno e
non fiorirà il deserto.

Il racconto, quasi commemorante, con cui si avviava la prima strofe, lascia qui il passo ad una brusca asserzione percussiva, imperniata su una triplice negazione. L’uso del carattere tondo ci richiama ad una diversa attenzione. La voce impersonale, perentoria, che annuncia tre dure verità, sembra essere ispirata ad un rigido, sadico principio di realtà. È il cuore del componimento: la brevità non può nascondere a lungo la densità di pensiero della terzina, il reticolo dei riferimenti culturali, che danno spessore a un passo che, da solo, risulta sufficientemente chiaro (non c’è da sperare in alcuna redenzione o soluzione millenaristica), ma anche relativamente povero. È, questo, uno dei casi in cui il testo va letto soprattutto attraverso l’ipotesto: questione complessa e anche contraddittoria, in Fortini. Qui, accenno solo alle linee che mi sembrano più appropriate: l’intertesto o – per essere più precisi – l’insieme dei suoi ipotesti, vale soprattutto, in lui, come «interpretante»: ossia, per utilizzare il lessico di Michael Riffaterre (ma senza condividere la prospettiva semiologica e antireferenziale che gli è propria), come uno di quei «testi di mediazione che vengono citati in una poesia o da essi soltanto allusi».5 L’ipotesto è, in sintesi, uno strumento di tematizzazione, che allude a contesti culturali prima che poetici, a valori e – non da ultimo – a linguaggi. Guardiamo, dunque, analiticamente alla strofetta. «Nessun vendicatore sorgerà»: il verso, un endecasillabo tronco, coincide con l’enunciato nella sua compiutezza: ne riconosciamo agevolmente la fonte, non a caso tramandata anche nella pratica scolastica; è un celebre verso di Virgilio (Eneide, IV, 625), che così suona: Exoriare aliquis meis ex ossibus ultor. Abbandonata da Enea, Didone prepara un tragico e indispettito suicidio e invita un suo imprecisato discendente, del cui futuro sopravvenire è peraltro certa, a risarcire il suo sacrificio: il verbo exoriare va inteso infatti in senso esortativo («sorgi», «rinasci», troviamo infatti in molte traduzioni moderne): è noto che Virgilio alludeva ad Annibale, preteso ideale discendente di Didone. Conosciamo anche la ripresa di questo verso in una pagina di Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, che ha rinnovato e allargato la ricezione dell’episodio per il pubblico moderno dei lettori.6 Il «vendicatore» che non sorgerà sembra legarsi, sul piano testuale, ancora al «custode immaginario» del v. 4: l’esile speranza racchiusa in quella figura viene spazzata via. Non ci sarà risarcimento al male storico e naturale, né sul piano sociale né su quello antropologico né su quello religioso. Il vendicatore è un redentore che mai verrà. Né l’uomo saprà redimersi attraverso la lotta di classe, attraverso il compimento del suo essere sociale. Il significato non abiterà il mondo. Il valore figurale e apocalittico del verso non potrebbe essere più netto.

Tuttavia questo motivo ricorre due volte ancora nei due versi successivi, costituendo così un elemento sovradeterminante. Innanzi tutto un’osservazione sul piano metrico, che ha un rilievo anche sul piano interpretativo: si tratterebbe di due settenari, se la congiunzione «e», che chiude il secondo, in forte dialefe, non provocasse una marcata anomalia ritmica e metrica al secondo verso; essa, inoltre, impedisce la sequenza asindetica delle tre negazioni, e, in tal modo, sembra collegare concettualmente i motivi e le allusioni presenti nel secondo e terzo verso. L’ipotesto, a sua volta, rafforza questa ipotesi.

«L’ossa non parleranno», infatti: nel verso virgiliano troviamo già la parola «ossa», ossia le spoglie, che sono tuttavia anche luogo e fonte di rinascita (quella di un vendicatore): la morte sacrificale di Didone lo genererebbe. Sembrerebbe un rafforzamento del concetto appena esposto; tuttavia il valore di questo enunciato si mantiene parziale. Un arricchimento e un compimento può prodursi se accettiamo come “fonte” ulteriore un passo biblico che si sovrappone all’ipotesto virgiliano,: un brano – di impressionante visionarietà e forza rappresentativa – di Ezechiele (37, 1-14). In esso al profeta viene ordinato da Dio di vaticinare su un grande cumulo di ossa inaridite, che ricoprono una pianura, affinché riprendano carne e nervi e rivivano. Citiamo il brano nella sua integralità:

La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi:

«Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò lo spirito e rivivrete: saprete che io sono il Signore». Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era lo spirito in loro. Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano». Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercitò grande, sterminato.

Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi ri­conduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.7

Non troviamo qui a rigore, né alla lettera né in metafora, ossa o corpi parlanti, ma solo un processo che, alla fine, porta al ricostituirsi dello spirito nei morti che così rivivono. Il passo del profeta non nasconde, anzi esibisce, il suo valore parabolico. Se esso agisce nella memoria poetica (e, a maggior ragione, se Fortini lo tiene in voluta considerazione), tale valore parabolico si trasferisce al testo, conferendogli tuttavia un ulteriore strato allegorico. Le ossa – popolo d’Israele che rivive – sono qui diventate il luogo topico e l’emblema della memoria e dell’eredità: rovesciando nel testo della poesia, con la negazione, quel che leggiamo nel passo di Ezechiele, memoria e eredità non rivivono, restano mute dinnanzi a chi, forse, ne attende un vaticinio, un messaggio. Il tema del rapporto fra generazioni (dal passato al presente, dal presente al futuro) comincia a delinearsi in questi versi per diventare uno dei principali di questo testo. Il senso ci è dunque sufficientemente chiaro: dai morti, dai padri (quindi da chi detiene memoria e da chi può trasmettere un patrimonio di saperi e valori) non c’è nulla da aspettarsi. Non c’è trasmissione dal passato come non c’è speranza di redenzione nel futuro; e se non si può attendere nessuna redenzione è chiaro che – come conclude il verso successivo – «non fiorirà il deserto».

Anche quest’ultimo verso ha una fonte biblica e profetica, questa volta molto più diretta e, ancora una volta, rovesciata in una negazione. È un passo di Isaia, dal quale riprendiamo i tratti salienti (35, 1-2 e 5-7):

Si rallegrino il deserto e la terra arida
esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca;
sì, canti con gioia e con giubilo.
[…]
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno acque nel deserto,
scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,
il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua.
I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli
diventeranno canneti e giuncaie.8

Anche questa seconda “fonte”, molto probabile (certamente più diretta di quella che precede), si limita a irrobustire l’insieme dei riferimenti culturali dai quali si genera il testo poetico: esso, insomma, è comprensibile anche senza riferimenti ipotestuali; comprensibile, ma meno ricco, deprivato di profondità. L’arricchimento che ne consegue non è, peraltro, una semplice risonanza; esso ci aiuta ad affrontare un altro problema, quello della recisa negazione del valore utopico che la forma dell’enunciato fortiniano ancora una volta presenta. il deserto «non fiorirà», ci dice il testo; ma l’ipotesto ci presenta poi una ricca e molteplice serie di immagini di rinascita e riviviscenza. Possiamo perciò pensare ad una negazione “freudiana”, naturalmente voluta e costruita dall’autore? Come in altri casi, mi sembra opportuno rispondere, contemporaneamente, no e sì. No, perché Fortini è autore troppo consapevole, psicologicamente e intellettualmente, per poter perseguire il gioco facile del rovesciamento della negazione o per rimanerne soggiogato; sì, per la costitutiva ambivalenza, anch’essa ben padroneggiata dallo scrittore, del testo poetico. E tuttavia da Freud viene un suggerimento interpretativo più raffinato e complesso di che quello cui si potrebbe attingere meccanicamente dalla abusata forma della negazione. Proprio nelle pagine che concludono l’analisi del lapsus sopra citato, Freud osserva che questo comporta un «meccanismo di dimenticanza, cioè la perturbazione di un pensiero ad opera di una contraddizione interna proveniente dal rimosso».9 La forma retorica comprende infatti una condizione di dubbio, una oscillazione continua fra pessimismo e volontarismo: una «perturbazione», dunque, una contraddizione interna, piuttosto che una “semplice” negazione, un rovesciamento di valore dell’enunciato. Nessuna redenzione è possibile, certo, fidarsene è illusorio. Ma la storia non è finita, e prende strade imprevedibili. L’antico lettore e traduttore del Faust sa che al genere umano non si prospetta, escatologicamente, una salvezza definitiva, neanche in versione mondana; ma che una strada per la trasmissione dell’esperienza (per la sua trasmissibilità) esiste sempre.

L’ipotesto biblico è dunque presente (a mio avviso tale presenza è indiscutibile) non solo per la ricchezza e la densità testuale che esso suggerisce e per l’alta figuralità che il verso di Fortini richiama, ma anche perché consente al lettore di percepire un vertiginoso spaccato storico, nel quale le stesse cose ritornano. Il testo biblico è dunque attualizzato: non nel senso che esso presenti una perenne verità o almeno una verità di lunga durata dalla quale prelevare brandelli ancor oggi vivi; ma, al contrario, perché il presente interroga il passato e in esso s’inscrive, cogliendone forme e modelli. Così del resto aveva fatto uno degli ispiratori di Fortini, Bertolt Brecht, quando – per fare un esempio – “traduce” l’Antigone di Sofocle trasportandone il prologo negli anni del nazismo: non un semplice adattamento, ma un modo diretto per dichiarare che il presente interroga il passato e che nei suoi sedimenti si inscrive: violenza e sopraffazione sono una antica storia, eppure ogni volta nuova.

Da notare è ancora l’efficacia della specifica modalità dell’enunciato, che assume la forma del kerygma, dell’annuncio, dell’oracolo e, secondo la proposta di N. Frye, del mito: kerygma, sostiene lo studioso canadese, è una sorta di «retorica di Dio», «cronologicamente anteriore al linguaggio metaforico» e «veicolo di ciò che viene tradizionalmente chiamato rivelazione»;10 la forma dell’enunciazione interferisce inoltre con l’intertesto biblico e virgiliano. Nel modo enunciativo, per di più, va posta la de­bita attenzione al rapporto fra il martellamento asseverativo (nel ritmo e nella brevità) e la forma negativa che esso assume; strettissima è inoltre, come abbiamo visto, la connessione fra forma negativa e tema dell’enunciato stesso.
Proseguiamo nella lettura:

Diritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta
affaccendata e zitta.

Tutta la creazione…
Carcerate nei regni dei graniti, tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione…

Troviamo evocato e descritto in questa strofe (divisa a sua volta in due parti infram­mezzate dall’enunciato «Tutta la creazione…») un duplice sommovimento, un duplice dramma naturale, percepito dapprima nel mondo animale e poi in quello geologico e minerale. Si tratta, non pare esserci dubbio, di una trasposizione allegorica del disordine umano. Le immagini provengono dal mondo morale e «dall’immaginario sociale dell’epoca premoderna»,11 dove sono radicate. Ordine sociale e ordine cosmico si scambiano le parti. «È da questa visione che trae origine l’idea che i disordini che avvengono nella sfera umana hanno un’eco nella natura, in quanto è l’ordine stesso delle cose a essere minacciato»;12 ma qui la rappresentazione è forse più stringente, in quanto essa è «figurale» nel senso specifico che Fortini riprende da Auerbach, condivide e spesso ripropone: tale rappresentazione, infatti, mantiene viva la lettera e dunque il valore istoriale dell’immagine, mentre allude anche a uno spazio altro, allegorico appunto.

Torniamo al testo: la prima parte della strofe mette in scena due figure animali opposte, quella della preda e quella del predatore. I «ghiri gentili dei boschi» implorano, in una postura quasi di vana preghiera («lo implorano ancora»), l’avvento di quel vendicatore (liberatore? salvatore?) che – come abbiamo visto – non verrà; i ghiri hanno gli atti e gli aspetti della vittima, dell’animale sacrificale, immolato alla garanzia di uno spietato ordine cosmico; il linguaggio che li connota («zampette», «posa di pietà», gentilezza) ne accentua i tratti di debolezza e, quasi, la predestinazione. D’altro canto essi levano anche al cielo «le griffe preumane»; e troviamo, in questa facies, l’elemento dell’incompiutezza, del bozzolo, della natura ancora non naturata (non del tutto pervenuta a compimento), che Fortini ricava da Kafka e che si rivela un motivo segreto della sua poesia.13 La civetta «affaccendata e zitta», è evidentemente un inquietante e minaccioso uccello di morte, se ricordiamo che proprio così la chiama Brecht in un testo che Fortini aveva tradotto: Primavera 1938, dalla Raccolta Steffin: citiamo per intero la terza e conclusiva sezione

Dai salici lungo il Sund
in queste notti di primavera chiama spesso la civetta.
Secondo la superstizione contadina
la civetta informa gli uomini
che non vivranno a lungo. A me
che so di avere detto la verità
su chi comanda, l’uccello di morte
non c’è bisogno che m’informi.14

La civetta suggerisce e minaccia morte ai «ghiri gentili», figura della vittima predestinata e innocente; ma, nel testo di Fortini, essa sembra obbedire, più che a un istinto sadico, a una implacabile necessità, dalla quale essa stessa è trascinata: figura “leopardiana”, certo, del mondo naturale, ma anche, probabilmente, della modernità, efficiente e anonima, che al premoderno, e preumano, così come alla dimensione creaturale dell’umano, si oppone operosa indifferente e cinica. «La violenza storica è tanto più devastante quanto più la Storia è un Dio nascosto», ha osservato Mengaldo.15 Qui il Dio nascosto è tanto la Storia quanto la Natura. I due animali qui raffigurati, non certo isolati nella poesia di Fortini,16 discendono da quel campo vasto degli animali guida che, fin dai millenni remoti della civiltà della caccia, hanno popolato l’immaginario sociale, consentendo all’umanità, è stato scritto, «l’attraversamento di una frontiera ontologica»;17 da questo rapporto «nacque la prima riflessione dell’uomo sull’essere e sul mondo, una riflessione che gli animali hanno sorretto e sostanziato con la loro conturbante alterità, ma anche con la loro affinità, ancor più conturbante.[…] Questa cultura, che con una punta di disprezzo l’etnologia ha un tempo chiamato totemica, e che si può forse più propriamente definire animalistica, è ormai irrimediabilmente spenta: un campo di mute rovine, appunto, o una foresta di pietra. Ma queste rovine petrose sono dense di significati dimenticati, e ci tramandano ancora una dispersa galassia di segni arcani, indecifrabili, ma pregni di senso».18 Il mitologema resta dunque «un organismo vivente […] che può essere di volta in volta rielaborato e riadattato alle singole occasioni».19 In tale arcaica cultura si rivela fra l’altro la reciprocità del rapporto predatore/preda; in essa «sembrano essere in gioco due ruoli, quello del predatore e quello della preda, che non solo sono complementari, ma si implicano l’un l’altro»; il lettore s’identifica, forse del tutto, con la preda/vittima.20 Tuttavia la poesia ha anche l’effetto di far rivivere il denso significato delle «rovine petrose» nella sua ricca dialettica.

L’emistichio che segue, in tondo, «Tutta la creazione…», non è un’allusione intertestuale, ma una vera e propria citazione monca, “istituzionale”, essenziale alla comprensione del passo e del testo nel suo complesso. La connessione, la specularità fra l’aspettativa umana e quella della «creazione» ne sono il tema: come i figli di Dio aspettano con ansia la rivelazione, così la creatura tutta aspetta perennemente una redenzione. L’importanza del passo è confermata da una delle scarne note al testo, che lo completa e lo commenta brevemente: «”Tutta la creazione [geme insieme e patisce doglie]” richiama un tormentato passo dell’Epistola ai Romani, 8,21».21 La citazione chiosa la prima parte della strofe e introduce al tempo stesso alla seconda, che ne amplia il tema e la ripropone nel suo ultimo verso. Vediamola per un tratto leggermente più ampio, nel testo della Vulgata:

Nam expectatio creaturae revelationem filiorum Dei expectat
[…] Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc
non solum autem illa

sed et nos ipsi primitias Spiritus habentes
et ipsi intra nos gemimus
adoptionem filiorum expectantes redemptionem corporis nostri

Spe enim salvi facti sumus.22

Ma perché Fortini definisce «tormentato» questo passo? Certo per la sua drammaticità e per il conflitto che si intravvede nel testo paolino; ma probabilmente egli ha in mente anche la tradizione esegetica, e in particolare il lungo e veramente “tormentato” commento che Karl Barth conduce sulla Epistola ai Romani; l’uno e l’altra, com’è noto, fra le letture costanti di Fortini, soprattutto al tempo della sua formazione. Ecco dunque il commento del teologo svizzero che ritroviamo al breve passo paolino cui la poesia accenna, passo che – se ben si guarda al rincorrersi dei suoi motivi interni – sembra costituire quasi il terreno di radicamento ideale dell’intero componimento fortiniano, combinazione di pessimismo esistenziale e di escatologia:

Che cosa sappiamo? Sappiamo che dobbiamo tacere davanti a Dio. Sappiamo che quando parliamo della gloria di Dio, parliamo di un futuro che non sarà mai tempo. “Noi sappiamo che tutto il creato ad una voce geme ed è in travaglio fino ad ora.” Tutto il creato, anche quello occulto, nascosto e perciò difficilmente accessibile alla nostra conoscenza! Si tratta qui della conoscenza della nostra conoscenza, non della sua diffusione e divulgazione! Noi sappiamo che quel che conosciamo o conosceremo è una cosa “gemente,” “in travaglio,” separata dalla sua origine, una cosa relativa separata abissalmente dall’assoluto. Poiché in quanto conosciamo qualche cosa, la conosciamo appunto come cosa, come relativa, E appunto questo è la sua creaturalità. E appunto questa sua creaturalità è la causa del suo “gemito”, del suo “travaglio”. Noi sappiamo che ogni cosa creata, che è nel tempo (e non sappiamo nulla di ciò che non è creato e nel tempo), porta in sé il suo essere eterno come un eterno futuro non nato, che vorrebbe partorire – e che nel tempo non partorirà mai. Noi conosciamo l’universalità, l’unanimità, la comunanza di questa distretta piena di speranza, di questa speranza piena di distretta.23

Posto strategicamente al centro di una strofe, a raccordare e separare al tempo stesso due elementi della «creazione», questo enunciato paolino richiama dunque al lettore, attraverso il percorso a ritroso di testi cruciali per la formazione di Fortini, un tema in lui quasi ossessivo: Barth chiama «futuro che non sarà mai tempo» questo processo di perpetue doglie della natura; Fortini rimanda in molti testi poetici e politici all’idea di una tensione che tuttavia produce perennemente un non-compimento, l’impossibilità della pienezza, la precarietà del significato come “destino” dell’uomo: a partire dalla non inevitabilità del socialismo o dall’idea del comunismo come battaglia per la sua realizzazione, non come raggiungibile compiutezza. Le componenti escatologiche, di radice biblica e poetica, rivelano la loro persistenza anche oltre il loro momento genetico, in una versione esistenziale e mondana, ma non sciattamente secolarizzata. La poesia rivela così la sua forza di rappresentare e tematizzare mediante figure e allegorie, mediante il suo alimento dalle vene profonde dell’immaginario.

Questo «gemere» della creazione, questo perenne «patir doglie», pur senza parto, è riconfermato – siamo alla seconda parte della strofe – in un altro ambito naturale, quello minerale e inanimato delle acque e delle sorgenti. Il verbo «gemere» è non a caso ripreso dall’ipotesto e l’atto che esso designa, attribuito alle acque «tradite» (ossia, possiamo intendere, distratte forzatamente dal loro fine, che è quello dello sgorgare), riprende ancora l’immagine figurale delle doglie di un parto che non avviene ma che si annuncia vanamente di istante in istante. Qui l’altro ipotesto, neanche tanto nascosto, è il Dante delle Rime, ammirato e amato fin dai tempi del «Politecnico», e precisamente quello della petrosa I’ sono giunto al punto de la rota. Citiamo i vv. 53-55: «Versan le vene le fummifere acque / per li vapor che la terra ha nel ventre / che d’abisso le tira suso in alto». In Dante dunque le acque imprigionate hanno uno sfogo, sia pure nel rigido paesaggio invernale; in Composita solvantur Fortini ha già utilizzato l’immagine delle acque costrette nella «condotta forzata» in La salita (e, già prima, essa era apparsa anche in Deducant te angeli, in Questo muro): qui la condotta, immagine di un lavoro umano necessario ma cieco, opposto al lavorìo della natura, ma anche, in esso, integrato, portava le acque al deflusso «nella utilità»; nell’ultimo componimento, invece, il poeta presenta le acque come «carcerate» e compresse perennemente fra gli strati della terra: siamo appunto nel campo semantico definito dalla citazione paolina appena considerata. Lo «sgorgo» è qui affidato (e ancora una volta ritorniamo al testo neotestamentario citato) alla sola speranza: è una possibilità, una tensione, non una certezza. L’esito escatologico non è solo incerto: appare quasi impossibile e strozzato. Natura e storia si oppongono e si ricongiungono, ancora, quasi in circolo.

Ma voi che altro di più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi,
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto ormai è un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

Questa strofe esibisce uno scarto tematico molto vistoso rispetto a quello che il componimento aveva finora offerto. Del resto un testo fondato proprio sul montaggio, prevede anche la marcata eterogeneità dei materiali che lo compongono. Qui si passa dunque, inizialmente, da temi escatologici e figurali ad altri, sociali e politici, più legati dunque all’urgenza della cronaca; poi si torna a tematiche, per così dire, esistenziali. Parallelamente accade, sul piano dell’enunciazione, che in questa sequenza di versi si attenui di molto la percussività ritmica: l’enunciato è quello tipico di una invocazione, di una preghiera, quasi di un lamento soffocato. E tuttavia anche questi ultimi passi assumono ben presto, sia nello scorrere dei versi, sia nel riflesso interpretativo che consegue, uno spessore drammatico del tutto coerente con l’insieme.

A chi è rivolta l’allocuzione di Fortini, così precisa e diretta con quel «voi» iniziale? Credo che si tratti, al tempo stesso, di un interlocutore generale o, meglio ancora, indeterminato, e di uno più precisamente individuabile. Il destinatario indeterminato è chiunque voglia ormai solo «sparire» e «disfarsi», che, insomma, sia vinto da orientamenti scettici e forse anche da cinico pessimismo o da opportunismo; chiunque, insomma, dalla storia e dal perenne conflitto umano, non si aspetta nulla, nessun cambiamento, nessuna trasformazione, nessuna soluzione escatologica, a maggior ragione. Il destinatario specifico è probabilmente quell’universo nichilistico di intellettuali (epifenomeno di una sconfitta storica del sogno di liberazione dell’uomo), con cui Fortini ha lungamente polemizzato fin dagli anni settanta. Per questi intellettuali, avanguardia, a dire il vero, di un ampio ceto colto o semicolto del tutto investito dal «surrealismo di massa», la realtà si presenta «come deprivata di essenza».24 Fortini sembra alludere insomma anche a precisi circoli e a precisi interlocutori, e, per quanto la forma poetica tenda, ovviamente, a generalizzare e a sfumare, questi versi assumono un valore anche “politico” e antropologico.25

Ebbene questi destinatari, cui la voce del poeta si rivolge con una modalità patetica (che, si noti, in Fortini è fatto rarissimo e per lo più ironico), potrebbero avere ragione: non aveva forse il testo dichiarato seccamente, poco sopra, «nessun vendicatore sorgerà», con quel che segue? Non ruotava forse attorno a questo nucleo concettuale l’insieme del testo, fino ad ora? Se dunque non c’è da riporre speranza in alcuna redenzione, perché mai non sparire e disfarsi? Come accettare e legittimare l’aggressività e il sarcasmo del saggista contro il nichilismo degli altri (già stigmatizzato come proprio errore giovanile, da quanto abbiamo appreso), se il poeta stesso non mostra che un universo irredimibile, natura e storia perturbate e distrutte? Eppure qui troviamo tale dialettica, e il testo sembra muoversi piuttosto verso una ascensione, dopo che la prima parte aveva crudelmente presentato una sorta di catabasi spirituale: «Di bene un attimo ci fu. / Una volta per sempre ci mosse». I due versi in successione, che nel ritmo antilirico del novenario tronco e del decasillabo ripropongono l’asseveratività del kérygma, già sperimentato nella seconda strofetta, ricercano e ritrovano, a ritroso, un momento positivo della storia individuale e sociale, nel quale il bene e la volontà sembravano aver avuto una parte infine decisiva, se non il sopravvento. Qui l’enunciato «una volta per sempre», che riprende il titolo assunto dalla raccolta poetica di Fortini (anzi dal volume che ripropone l’insieme delle raccolte che precedono Paesaggio con serpente; e che ritorna, più pianamente altrove, ancora in Composita solvantur),26 allude, evidentemente, a un percorso umano e poetico. Ma l’interpretazione ne è forse più complessa: «per sempre» è il sintagma centrale, che vale qui, a mio avviso, come in tedesco l’espressione «fur ewig». Una volta (un impulso, una scelta, un atto di volontà) ci mosse per il futuro, irreversibilmente; ed è questo scatto verso il futuro, utopistico ed escatologico al tempo stesso che creaturale e sociale, che redime storia e natura. Troviamo in questo passo ancora l’influsso etico di Kierkegaard, che tanto ha già segnato Fortini. Dunque si possono pregare quanti hanno desistito, per debolezza e stanchezza, dallo sforzo verso il compimento, dalla ricerca della totalità, di fermarsi nel loro processo di autodissoluzione. Ad essi (ormai indicati quasi come “figure” dantesche, non come gruppi sociali) ci si rivolge con una imprevedibile preghiera: «ma difendeteci». Proprio costoro possono dunque, paradossalmente, difendere dall’insensatezza che incombe chi, allo stremo delle forze, può solo gridare un messaggio con voce strozzata: non in nome di antiche fedi (religione, marxismo, arte, cultura: poco importa quali e quante) né in nome di una presunta integrità individuale, che qui sembra un’empietà. La lotta, la vita stessa, è un atto collettivo, nel quale non è lecito respingere alcuno dei deboli, degli erranti o degli sconfitti.

La poesia muove così verso le strofe finali, ma i due ultimi versi qui riportati aggiungono un elemento, una variante, qualcosa di diverso. Tutto ormai è un urlo solo: ancora una citazione monca e strozzata, ma quanto mai significativa. Si percepisce senza difficoltà un fondo drammatico, ma la “fonte”, un verso di Montale, consente un ampliamento e anche un approfondimento di orizzonti: «[…] è un urlo solo, un muglio/di scerpate esistenze», scrive il poeta ligure in Tramontana, secondo momento del trittico «L’agave su lo scoglio».27 In Montale la violenza del vento apre allegoricamente a un paesaggio esistenziale frantumato; Fortini si avvale del precedente montaliano per alludere anche ad altro. Anche questo silenzio e il sonno prossimo, infatti, è l’enunciato immediatamente successivo, che prende avvio e spunto dal momento esistenziale e personale del poeta (il silenzio e il sonno della morte, comunque si voglia ampliare il campo, sono elementi irriducibili) per riportare il violento caos (il «muglio di scerpate esistenze») ad un piano di dramma storico e, di nuovo, apocalittico. Ancora una volta il rapporto scambievole e reversibile fra il piano pubblico e quello privato, fra la storia e il destino dell’individuo, sono tema e momento genetico della poesia di Fortini.

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.

Ancora un brusco effetto di montaggio, una violenta giustapposizione tematica, un secco scarto, stilistico e “tonale”, in questa breve strofe, rispetto a quanto precede. Un enunciato, al primo verso di questa, praticamente impronunciabile secondo una qual­siasi ritmica del verso, prosastico eppur marcato in una sequenza scandita; poi due versi che alludono all’alessandrino (un quinario più settenario, con cesura, il primo dei due; un ottonario più quadrisillabo, il secondo); e infine un verso bisillabo molto marcato simbolicamente, coincidendo l’unica parola di cui è composto col nome di un personaggio storico: si tratta (ci ricorda la nota dell’autore) di quel commissario politico Klockov che resistette eroicamente fino alla morte, assieme ad altri pochi, all’esercito tedesco che avanzava verso Mosca, nei dintorni della capitale. Fortini riprende le frasi a lui attribuite: «La Russia è grande ma non abbiamo più dove ritirarci perché dietro di noi c’è Mosca».28 E la strofe allude proprio alla condizione di estrema difficoltà e necessità, alla situazione irrimediabile di un momento catastrofico, di una assenza di una sia pur labile protezione: allegoria di una condizione esistenziale e storica, individuale e collettiva – ancora una volta. Klockov parla ai suoi: ma il testo recita, in un inciso: «- ci disse»; dunque la frase dovrebbe essere riportata da qualcuno dei sopravvissuti; ma forse egli parla a noi, a tutti i lettori, qui e ora. Non l’eroismo, dunque, ma la condizione estrema della irredimibile durezza del vivere e lottare, è il motivo poetico di questa strofe, e la sua permanente attualità: la resistenza estrema lungo la Volokolàmskaja Chaussée, è stato osservato, è «una battaglia campale, orgogliosa e disperata – ma anche un punto di svolta, un’inversione di rotta. […] Il tempo storico, e con esso la figura di un sacrificio, doveva suggellare l’ultimo atto della vicenda poetica di Fortini».29 Sul finire del testo si conferma e si rafforza così, più rilevato di prima, quel procedimento stilistico-formale che abbiamo già notato: il montaggio e l’effetto espressionistico che ne consegue, creato dallo stridere delle parti ellittiche e percussive (come questa, che si collega anche per la scelta del carattere tondo alla strofe «Nessun vendicatore sorgerà …») con quelle dotate di maggior distensione “lirica” e soggettiva. Anche sul piano tematico, del resto, assistiamo ad una costruzione che procede secondo contrasti: non i disperati “nichilisti” della strofe precedente, ma i “resistenti”, forse non meno ma diversamente disperati, ne sono i protagonisti. Due poli opposti, ma convergenti, di un desolato paesaggio storico. Lo spessore allegorico che è proprio di tutta la raccolta assume qui, in tal modo, una complessità maggiore e più stratificata, quasi modernisticamente, rispetto ad altri testi della stessa raccolta, non meno ardui ma più compatti e chiusi (come quelli della sezione «L’animale», ad esempio). Tuttavia il testo non finisce qui:

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.

È questa terzina la conclusione del testo, una conclusione che, per quanto apparentemente distesa, risulta non meno complessa ed enigmatica di altre parti. Inoltre essa si rivela il filo conduttore, l’esito necessario del discorso morale che Fortini conduce lungo il componimento, e si raccorda, per vari fili, all’insieme e a tutte le sue parti: e, in modo specifico, alla prima e – soprattutto – alla seconda strofe. La poesia dimostra così, nel suo concludersi – se mai occorresse – di essere tutt’altro che l’accostamento di momenti diversi, di spunti separati. L’emergere dei vari quadri rimanda sempre, infatti, a un saldo “discorso” e a una complessa elaborazione tematica.

Nella strofetta parla, come all’inizio, la prima persona. La voce che dice “io”, controfigura del “vecchio” poeta, oppone la sua patetica ed elegiaca condizione, il suo suono che immaginiamo flebile, al marcato ritmo della terzina in tondo dei vv. 7-9 e ai versi immediatamente precedenti; il personaggio inoltre richiama – anzi sembra esplicitamente citare – quello che abbiamo da poco incontrato, leggendo la raccolta, nella poesia Il custode, e che, come abbiamo visto, lo stesso Fortini richiama come antecedente di quest’ultima poesia. Lì, in una sorta di agone dialettico col misterioso «custode» che è nel titolo (e che viene richiamato al v. 4 di E questo è il sonno…) il soggetto-protagonista del quadro narrativo si presenta in una ricerca di residui che vorrebbero essere, forse, i luoghi allegorici, la facies hyppocratica del senso:

Frugo in fondo alle tasche, tra le briciole
di paglia e di galletta, tra le bucce
di castagne, lanuggini, crini di fodere.30

I due testi, e non solo per questo, e, ancora, non da soli, costituiscono in qualche modo un piccolo “sistema” entro la raccolta. Presentano entrambi una estrema ricerca del significato, relegato ormai fra relitti e foglie morte, in luoghi e spazi, dunque, non di pienezza ma di vacuo. Il «fatuo vecchio» cerca invano tracce del senso tra le foglie dei viali, relitti anch’esse di stagioni vitali: non più nella lotta, nel combattimento, nell’energia sociale e collettiva. La volontà di trasformazione e liberazione, affidata fino a ieri a grandi progetti culturali e sociali (la religione, le lotte, il movimento operaio, il marxismo…), sarebbe dunque diventata un feticcio, una “narrazione”? E invece no, la storia non si arresta, anche se le sue vie appaiono, alle generazioni al tramonto, ignote e oscure. Nella poesia più matura di Fortini (e nella più tarda raccolta, in particolare) «insieme alla fine è riaperto il discorso di un nuovo inizio: genesi ed apocalisse, nella visione dell’autore, debbono rimescolare i tempi per far luogo ad un tempo nuovo».31 Bisognerà forse lasciare la parola a nuove figure, nuove identità, nuovi “discorsi” (il “vecchio” Fortini sembra voler affrontare questi temi, in certe pagine di Extrema ratio e in numerosi interventi degli ultimi anni), dopo che tutto ciò che aveva costituito l’insieme dei valori propri della spinta liberatoria dell’uomo novecentesco, legata alla chiara cultura del conflitto e dell’antagonismo, ha mostrato il suo esaurirsi; ma non possiamo certo leggere questi versi come un cedimento alla cultura del “pensiero debole”, assolutamente egemone alla fine degli anni Ottanta, ma sicuramente e duramente avversata da Fortini sia sul piano culturale sia su quello politico. Semmai tale pensiero (che è innanzi tutto una prassi sociale diffusa) rivela meglio del pensiero dei “resistenti” la sconfitta e la fine di un ciclo sociale, essendo – di fatto – l’introiezione di tale sconfitta. Il conflitto, irrinunciabile, andrà dunque ricercato, o indicato, in una elaborazione e in una prassi che non separino l’attività positiva dell’uomo dalla sua soggettività, per fragile ambigua e “colonizzata” che essa sia? Certo è che l’erede non è più, come nella poesia di Brecht tradotta e commentata da Fortini quasi vent’anni prima, il giovane e allegro ladro di ciliegie, che a tale assunzione di ruolo alludeva nel riempirsi le tasche del frutto rubato:32 qui l’invito, quasi la supplica, alla protezione di verità «nostre», ossia di generazioni passate, ormai al tramonto, è rivolto a ragazzi inconsapevoli, turbati, estranei ai miti e alle fedi dei padri, disordinatamente in cerca di se stessi e di un senso, mestamente oppressi dalla povertà dell’esperienza (lo scalciare la bottiglia può essere letto anche come un mettere da parte la tradizione, l’eredità e la saggezza dei padri). Sono essi ormai gli sconosciuti eredi, cui il vecchio poeta consegna saggiamente, senza saperne l’esito, il proprio lascito. I «ragazzi mesti» richiamano il «mito allucinato dell’erede» da Fortini individuato nel ladro di Brecht; ma, inoltre, riassumono in sé le varie figure che abbiamo incontrato scorrendo il testo, dai ghiri dei boschi alle acque carcerate, dai disperati nichilisti ai combattenti fino alla fine. Sono essi, in ultima analisi, il vendicatore che – avevamo letto prima – non sarebbe sorto: figure non di pienezza, ma di vuoto, allegorie non di un esito ma di un passaggio. Il vecchio non ha nulla di insegnare ai giovani, può solo supplicarli di proteggere certe verità che riconosce come sue e proprie anche di una generazione: non riproponendole tali e quali, ma cercandone altre: trasmettendo, per l’appunto, la forma della ricerca, o, se si vuole, la ricerca come forma. Del resto onorare l’eredità dei padri, proteggere il loro lascito (la bottiglia scalciata, la pietra scartata dai costruttori), non vuol dire, con Ugo Foscolo, indirettamente citato, averne il culto («Proteggete i miei padri» è, come si ricorderà, l’emistichio due volte ripetuto da Cassandra nei versi finali di I sepolcri), non solo conservarla, ma anche e soprattutto perderla, dissolverla, trasformarla. Proteggere e riproporre l’eredità, in questo senso, comporta anche la difesa di una memoria, richiesta a coloro che non desiderano altro che sparire («ma difendeteci», v. 26), non meno che agli eroici resistenti guidati da Klockov.

Il vecchio è anche il poeta, il vate, il depositario di saperi. Nel rivolgere le foglie egli cerca probabilmente anche qualche altra cosa: un ruolo per sé in quanto poeta. Ma sa che questo ruolo è ormai impossibile: fortunatamente impossibile. Quasi certamente l’immagine patetica ed elegiaca del volgere le foglie non è solo un quadro, a suo modo, “realistico”, tratto dalla vita di tutti i giorni; quasi certamente c’è dietro un’allusione precisa al ruolo del poeta/profeta e guida.

Come dava la profezia la Sibilla cumana? Ce lo dice il mito, e Virgilio fra gli altri, nel sesto Canto dell’Eneide; qui la Sibilla si scatena in un canto sgolato, incomprensibile e terrorizzante; ma di solito scrive la sua sentenza sulle foglie, che il vento, poi disperde e porta via; ed Enea la prega proprio di evitare questo suo modo di profetare («foliis tantum ne carmina manda / ne turbata volent rapidis ludibria ventis; / ipsa canas oro …», vv. 74-76). E Dante, nel XXXIII del Paradiso (vv. 65-66):

Così al vento, ne le foglie levi,
si perdea la sentenza di Sibilla.

L’immagine del vecchio che rivolge le foglie quasi a cercarvi una profezia, lo scioglimento di un enigma, è dunque, molto probabilmente, quella del poeta che cerca, ma non ritrova, il suo ruolo antico di vate: questo non gli è più consentito, o è visibilmente degradato; il futuro appartiene ai suoi eredi. Essi sapranno trovare il linguaggio, i valori più adeguati.

Questi versi si lasciano leggere quasi come una mesta elegia. Ma è chiaro che il tema è quello dell’eredità e del significato, proprio perché, come sempre in Fortini, viene censurata l’urgenza esistenziale, per il consueto tramite della sua trasposizione sul piano dei destini generali. A interpretare nel suo insieme il testo, a intravedere nel testo della vecchiaia filamenti di una elaborazione già avviata, se non consolidata, una Cina allegorica torna forse a proposito. Di Lu Xsün, da lui molto amato, Fortini aveva molti anni prima, tra l’altro, scritto: «L’uomo che in punto di morte detta le sue magnifiche e implacabili disposizioni testamentarie che guardano verso la vita è quello stesso che ha sempre guardato anche verso le creature che, dal passato, dalla tradizione, si nutrono del nostro stesso sangue. […] Per questo l’opera di Lu Xsün è un episodio della rivoluzione mondiale. Distrugge i tumuli degli antenati, ne sparge i resti, vi semina i cereali di cui i sopravvissuti si nutriranno. Esercita atterrita la necessaria empietà filiale».33

Note

1 Basti ricordare le osservazioni condotte da P. V. Mengaldo a proposito di Questo muro, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp 291-317.

2 La sezione «La salita» e il componimento dello stesso titolo rinviano ovviamente al Purgatorio. Per il resto i rimandi di Fortini (che si leggono, nella Note finali alle pp. 85 e 86) sono ancora al Canto XXVII, quello stesso che fa da ideale riferimento tematico alla raccolta Questo muro. Fortini richiamerà questo Canto del Purgatorio dantesco anche per il componimento Il custode (ma i rimandi alla «santa viva selva» denunciano una indicazione erronea, essendo la «selva antica», il Paradiso terrestre, un sintagma del v. 23 del successivo Canto XXVIII). Su questo, e su altri spunti che seguono, cfr. C. Calenda, Di alcune incidenze dantesche in Franco Fortini, in Id., Appartenenze metriche ed esegesi. Dante, Cavalcanti, Guittone, Napoli, Bibliopolis, 1995, pp. 145-53; e G. Magrini, Il nido del nido, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», VI, 1985, pp. 331-342.

3 F. Fortini, Composita sovantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 86.

4 Il sonno e il conseguente risveglio sono naturalmente anche una citazione del sonno di Dante, nel Canto XXVII del Purgatorio, dopo l’attraversamento del muro di fuoco, nell’«alta grotta» del v. 87. Ma la «selva», come abbiamo già notato, compare nel Canto successivo, quello di Matelda.

5 M. Riffaterre, Semiotica della poesia, Bologna, il Mulino, 1983, p. 142.

6 L’analisi di Freud del lapsus legato a questo verso si legge in S. Freud, Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. 4, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti 1900-1905, pp 63-68.

7 Cito da La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1985, pp. 1890-1891.

8 Ivi, pp. 1618-1619. Citiamo i primi due versetti anche dalla Vulgata, per la maggiore trasparenza del rapporto fra testo poetico e testo latino: «Laetabitur deserta et invia / et exultabit solitudo et florebit quasi lilium // germinans germinabit et exultabit laetabunda et laudans» (da Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellshaft, 1994, p. 1131).

9 CFr. S. Freud. Opere, cit., p. 68.

10 Cfr. N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, trad. it. di G. Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 53 e 54. Per un impiego delle categorie di Frye a proposito di Fortini, cfr. L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Lecce, Manni, 1999, specie alle pp. 189-191.

11 Cfr. Ch. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, trad. it. di P. Costa, Roma, Meltemi, 2005, p. 26.

12 Ivi, pp. 26-27.

13 Cfr. F. Fortini, Nota del traduttore; in F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti, Torino, Einaudi, 1986, pp. 277-285; «perché l’umano verme compia la sua metamorfosi in angelica farfalla è necessaria la Grazia», annota lo scrittore (p.284); Fortini risente quasi certamente della lettura di Kafka resa da W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Id., Angelus novus, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 261-289.

14 B. Brecht, Poesie di Svenborg seguite dalla Raccolta Steffin, introduzione e traduzione di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1976; la citazione è tratta dalle pp. 143-144.

15 P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, cit., p. 305.

16 Cfr. E. Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, in «Hortus», 16, II sem. 1994, pp. 20-27.

17 Cfr. il saggio di C. Donà, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 344.

18 Ivi, p. 9.

19 Ivi, p. 191.

20 Ivi, p. 190. Nell’annotare, nella stessa pagina, una serie di elaborazioni sul tema del rapporto fra predatore e preda, che portano progressivamente dalle «forme più selvagge e violente che si esprimono nel modello predatorio» ad altre più miti ed elaborate che seguono un «modello oracolare», Donà osserva fra l’altro che «il Medioevo occidentale porta a termine questa evoluzione riprendendo il modello predatorio e rovesciandolo puntualmente; allora, conformemente ai predicati della religione dell’Agnello, non ci si identifica più con il predatore, ma con la preda, e quello della caccia non è più un modello da seguire, ma uno stadio da superare».

21 F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 86.

22 Il testo della Epistula ad Romanos, 8, 19 e 22-24, si trae sempre da Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, cit, p. 1759, che riprende la procedura di scrittura di San Girolamo, per cola et commata; e dunque senza interpunzione. Ed ecco la traduzione: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione di figli di Dio. […] Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza siamo stati salvati» (La Bibbia di Gerusalemme, cit, p. 2433).

23 K. Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 291-292. Abbiamo, naturalmente mantenuto, nella citazione, le lievi differenze lessicali rispetto al testo citato da Fortini. Interessante, ai fini interpretativi, è anche il seguente passo, che sposta l’attenzione dalla natura all’uomo: «Anche noi manifestamente gemiamo, noi “possessori delle primizie dello spirito”, né più né meno che la creazione gemente che ci sta intorno; gemiamo nella stessa “vanità”, cioè nello stesso contrasto di vita e morte, di luce e di tenebre, di bellezza e volgarità in cui la udiamo gemere anch’essa; siamo in travaglio come la creazione, portando in noi un futuro eterno del quale sappiamo che non è mai stato né sarà mai tempo» (ivi, pp. 293-294).

24 Traggo questa citazione da F. Fortini, Disobbedienze. II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma, Manifestolibri, 1996, p. 180.

25 Com’è noto Fortini ha punteggiato la sua attività saggistica di interventi polemici contro ogni forma di “irrazionalismo”, vero o presunto, talora forzando i termini polemici, fin dagli anni Sessanta; ma qui sembra proprio che si possa individuare un episodio preciso come retroterra dei versi. Nello stesso volume appena citato leggiamo infatti, alle pp. 82-87, l’articolo Le invisibili incrinature degli anni Ottanta, che recensisce il volume collettivo Sentimenti dell’aldiqua, e che possiamo considerare una sorta di summa, sintetica, dell’atteggiamento intellettuale e morale dello scrittore su questi temi. Interloquendo con Paolo Virno e Giorgio Agamben, Fortini non si limita a polemizzare contro le posizioni nichilistiche, contro il “cinismo” che accetta, di fatto, il dominio del capitale e la sussunzione delle coscienze separate all’interno del suo anonimo piano. Egli accoglie parte delle posizioni degli “avversari”, per contestarne tuttavia gli ultimi esiti, quasi occultati o rimossi: lo «sradicamento» – introiettato e accettato – che prende avvio dagli anni Ottanta cos’è se non «l’ultimo anello […] di un processo di espropriazione dell’uomo a se stesso»? (Ivi, p. 86).

26 «Tutto questo una volta per sempre ci dice addio», leggiamo in questo componimento (Il temporale, p. 57); dove il sintagma vale, semplicemente, «una volta per tutte», «d’ora in avanti» e simili.

27 Riprendo il suggerimento da R. Luperini, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni, 2007, p. 86.

28 Cfr. F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 86.

29 Cfr. L. Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008, p. 247.

30 F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 45.

31 L. Lenzini, Stile tardo…, cit., p. 237.

32 Cfr. F. Fortini, Brecht e il suo ladro, introduzione a B. Brecht, Poesie di Svendborg seguite dalla raccolta Steffin, cit.: «la vita dell’allegro ladro […] non è solo profezia di un avvenire dove il mio e il tuo non saranno più; è il mito allucinato dell’erede» (p. VIII).

33 F. Fortini, Lo spettro cinese, in Verifica dei poteri. Saggi di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, p. 294.