I tentativi di ricondurre l’interpretazione delle Sette canzonette del Golfo di Franco Fortini1 alla riflessione generale sulla guerra non possono che indurre la critica a esprimere un giudizio limitato, dubbioso o, al contrario, forzosamente positivo su questi componimenti. Andrea Inglese, in Scrivere di guerra: Fortini e Buffoni, rileva che nelle Canzonette non c’è traccia alcuna di una lettura storico-politica dei fatti della prima guerra del Golfo.2 Il valore di questi testi si troverebbe allora, aggiunge Inglese, nella modalità attraverso cui questi fatti vengono conosciuti, non come eventi politici, bensì come fatti televisivi. Le Canzonette del Golfo direbbero che «la televisione ci avvicina alla guerra e nello stesso istante ci separa irrimediabilmente da essa».3 Se questo fosse il reale valore conoscitivo delle poesie in discussione bisognerebbe rilevare che, in altri luoghi della propria opera, Franco Fortini ha condotto analisi ben più articolate ed efficaci. In relazione al rapporto tra guerra e rappresentazione mediatica, la riflessione condotta all’altezza de I Cani del Sinai appare, seppure espressa in una terminologia oggi in parte desueta, di valore infinitamente maggiore.4
Non diverso è l’imbarazzo con cui Ennio Abate presenta le Canzonette, in un articolo che ripercorre la riflessione di Fortini sul tema della guerra:
II
In questa breve nota vorrei provare a fondare l’interesse per questa sezione di Composita solvantur su un diverso ambito tematico e conoscitivo. Si proverà a presentare questi sette componimenti come tentativo di riflessione in versi sulla differente durata dei tempi storici e sulla possibilità di vederne l’incrocio in un’ontologia integralmente storica e sociale dell’umano.
Per fare questo è utile accostare le Canzonette non ai testi dell’autore dedicati alla guerra, bensì a una poesia pubblicata in Poesie inedite6 che, negli ultimi anni, ha attirato l’attenzione di alcuni critici. Mi riferisco a Reversibilità7 e agli studi di Guido Mazzoni e Romano Luperini.
Nell’interpretazione che il primo dà di questo componimento, in Forma e solitudine, si legge:
È necessario a questo punto rileggere i testi per seguire lo sviluppo di questa dinamica di durate e significati.
III
Il primo componimento si apre su un quadretto idillico. È il tempo della natura a inaugurare l’opera: lo splendore del mattino, un giardino, un «ragnetto» (v. 4) che si dondola al vento sulla sua ragnatela. Il tempo dell’uomo è introdotto da un primo segnale: «Lontanissime sirene» (v. 6) in enjambement con «d’autostrada» e dall’ingresso in scena del principale personaggio di queste liriche: il «vecchietto» (v. 9) che nel suo giardino gode l’aria tersa di una domenica mattina. Nella terza strofe si ritorna sul tempo naturale, ma osservato con gli occhi dell’uomo: le formiche vanno in fila a fare “danni” alle pere mature. In questo primo componimento non c’è traccia della guerra, ma il termine “sirene” sembra annunziarla.
Nella seconda Canzonetta, il tempo brevissimo degli eventi militari è introdotto da un verso che ha il sapore di una favola, quasi a voler stilisticamente riprendere il gioco del ragnetto nel giardino: «Lontano lontano si fanno la guerra» (v. 1). Il “vecchietto” è distante dagli eventi, è «il sangue degli altri» (v. 2) che viene sparso. Il suo sanguinare è invece procurato da un altro elemento, ancora una volta idillico e campestre, cioè dalla puntura di una spina di rosa. La comparazione del proprio sangue col sangue altrui porta ad una ironica riflessione sul ruolo del poeta e dell’intellettuale, che chiuso nel suo giardino “occidentale” non può né portare aiuto alle vittime e né parlare, perché la sua parola resta inascoltata. E se anche potesse far sentire la sua voce, a cosa servirebbero i versi? La riflessione ha una brusca torsione verso l’amarezza: si metta fine alla triste ironia, il sole comincia a scomparire, bisogna indossare una «maglia» (v. 14) per affrontare l’inverno del conflitto.
Prima di prendere realmente congedo dalla “mesta ironia” del componimento precedente, un altro testo di stile leggero serve a introdurre un secondo personaggio: una «gentilissima ragazza» (v. 4), che prepara la colazione al “vecchietto”. L’attenzione è spostata su piccolissimi gesti quotidiani: il desiderio di fare colazione non con una qualsiasi tazza, ma con la propria tazza è promessa di felicità. La tazza riflette il turchino del cielo quando è più limpido e leggero, leggero, aggiunge il poeta, «come te» (v. 10), come la ragazza che ha accanto. Già dalla sua prima apparizione la figura femminile (ironicamente una “gentilissima” che prepara la colazione) ha una connotazione al contempo seria: è in più stretto contatto, rispetto all’uomo, con il tempo naturale, con la leggerezza dell’aria e il turchino del cielo sereno.
Con la quarta Canzonetta il tono cambia e anche la forma metrica si adegua: è quella nobile, per tradizione letteraria, del sonetto. Nelle due quartine lo scenario è quello della guerra. Come minacciose divinità, i governanti dell’occidente, i «sanguigni regni» (v. 1), definiti «imperatori» (v. 1), attraversano i cieli (quanta distanza dal cielo turchino del precedente componimento!), sorvolando le luci ora notturne delle città. Essi sono assorti, concentrati nel definire progetti malvagi o colpevoli. Scagliano «tra fetori e fumi» (v. 5) micidiali schiere di «congegni» (v. 6), di bombe. L’effetto dei bombardamenti è quello di dilaniare i corpi degli uomini, ridotti a brandelli: si riconoscono femori o cervelli, e in quelli che non sono più uomini, ma solo immagini spettrali di uomini (“segni umani”), sono impressi, come marchi, grumi bruciati e rappresi. Nelle due terzine del sonetto la focalizzazione è di nuovo sull’Occidente, ma questa volta, non è l’io a campeggiare, ma il noi degli uomini e delle donne occidentali. Questi dèi-imperatori a noi, solo a noi, hanno dato pace. Per i nostri giorni, che pure volgono al tramonto («occidui», v. 10), si ravvivano e splendono i vigneti e i campi seminati e il riso favorevole della sorte. Ci rende sereni e allegri un breve riso, quel «poco» (v. 12) costituito da una vista che ci permette di spaziare con lo sguardo o, in chiara opposizione, la chiusura della pagina di un libro, che promette autoteliche glorie letterarie. Osservando nuovamente questo sonetto nel suo complesso, si nota come nelle due quartine, con effetto di accelerazione che sottolinea la rapidità del tempo brevissimo degli eventi bellici («già», v. 5), è descritta la guerra. A questo tempo corrispondono nuovi personaggi senza volto: gli imperatori-dèi e i popoli occidentali, protagonisti di questa specifica durata. Per la seconda volta, inoltre, l’attività poetico-intellettuale è connotata dal marchio dell’impotenza e della chiusura («i chiusi inchiostri», v. 13).
Nella quinta Canzonetta l’«inverno» (v. 1) della guerra è già passato, il tempo degli eventi si fa sempre più breve. I suoi «clamori» (v. 2, metafora “morta” del lessico giornalistico) sono stati insieme terribili, per la realtà della guerra, e vani, per l’effetto di irrealtà creato dalla comunicazione. Al tempo delle battaglie di popoli che ci sono lontani, estranei, estraniati dal racconto mediatico, si oppone nuovamente il tempo lungo della natura: l’«eterno degli ippocastani» (v. 5), che continuano a germogliare dai «ceppi» (v. 6). Nella seconda strofe ritorna il personaggio femminile, che sembra avere la stessa lenta indolenza della natura: graziosa, annoiata, ancora in pigiama sul terrazzo, rivolge una preghiera alla natura, sua “simile”: chiede che il bene vinca sui campi coperti di sangue, come il sole vince la nebbia al mattino. La preghiera della donna si può considerare “esaudita”, ma solo in un senso, ancora una volta, ironico: è già marzo (il 27 febbraio George Bush aveva annunziato la fine delle ostilità) e lei non si è accorta che il «peggio» (v. 14), il male della guerra, è improvvisamente svanito.
Nella sesta poesia, il ritorno della primavera («Aprile torna», v. 1) sembra far dimenticare la guerra appena terminata e i versi descrivono la vita di un borgo in un giorno di festa. Il fresco della sera arrossa le guance di alcune ragazze, impegnate in una gara ciclistica. I ragazzi avvertono quasi in modo animalesco il loro odore («le annusano», v. 9), una delle ragazze passa nella grazia del seno e della muscolatura. Eppure qualcosa nella festa primaverile è cambiato: le parole vociano «rauche» e «laide» (vv. 5 e 6): «Fu dolce, in altro tempo, primavera. / Godono pepsi cola ignude gole.» (vv. 7-8). La stagione non è dolce, la sua dolcezza è in un tempo ormai passato o nell’eterno inattingibile della natura, soprattutto per il “vecchietto”. Per lui, la stessa bellezza femminile che passa appartiene a un altro tempo, un tempo in cui fu un pungente piacere. Non gli resta che interrogarsi su quale piacere sensibile gli resti. La conclusione è amaramente ironica: il «dormire» (v. 14).
Il dormire si trasforma nell’immagine affine della morte nell’ultimo, fondamentale, bellissimo componimento. Tutta la tensione presente tra tempi, luoghi e personaggi-simbolo è ripresa e sintetizzata in pochi tratti essenziali e la vicenda del “vecchietto” (e in essa quella del poeta e della poesia) trovano compimento. L’operazione di “pulizia” del proprio giardino è in relazione con l’operazione di “polizia” in atto durante la prima guerra del Golfo.11 Nello stesso tempo il “vecchietto” si identifica con le vittime. Nel momento in cui sente avvicinarsi la morte, come la lumaca morente che rimette «plasma e anima» (v. 8), rilascerà un veleno scuro e definitivo che lento si insinuerà nel potere degli “dèi” della guerra.12 I tre tempi e le tre figure rappresentative di queste diverse durate coincidono per un attimo nella sua figura. Il “vecchietto” sperimenta insieme il tempo breve dell’umano, nel suo imminente morire, il tempo brevissimo dei carnefici, nel suo gesto distruttore di ‘pulizia’, il tempo lunghissimo dell’«ultimo» veleno (v. 12), che «lento» (v. 11) distruggerà gli «dèi crudeli e ignoti» (v. 11).
Come la critica ha evidenziato per Reversibilità, anche nelle Sette Canzonette del Golfo l’intrecciarsi e confondersi dei tempi storici (in questo caso “durate”), dei luoghi (vicino-lontano) e qui ancora delle diverse funzioni simboliche dei personaggi, oppongono alla vanità del parlare, alla chiusura degli “inchiostri”, l’apertura della «possibilità – riprendendo ancora Luperini – di un nuovo patto fra le generazioni e i popoli», negazione possibile di quella «nuova èra nelle relazioni internazionali» inaugurata dalla guerra. Fortini giunge così a disegnare un’ontologia integralmente materiale, storica e sociale dell’umano.
Quella sorta di palinodia (Considero errore),13 che segue di poche pagine le Canzonette, non ne mette in discussione la riflessione fin qui evidenziata, ma vuole ribadire, fuori da ogni dubbio, che la soluzione proposta non è individuale. La risoluzione non è infatti nel momento estremo della propria morte, recitata nei modi di una «ironia lacrimante» (v. 4), ma nel tempo lungo di chi avrà il compito e il dovere di capire «che tempo fu quello» (v. 9), che tempo è il nostro, che appare «incomprensibile e senza nome» (v. 11). Il compito non è più quello del poeta al termine del tempo breve della sua vita, ma quello di chi verrà, il compito di inventare, di trovare una spiegazione. L’attenzione non è più rivolta a sé, ma a noi: «voi tutto dovrete inventare» (v. 14).
IV
A conclusione di questo tentativo di lettura delle Sette canzonette del Golfo è utile porre una breve bibliografia ragionata, che introduca al lettore altre indagini e proposte ermeneutiche di cui non si è potuto dare conto in questo scritto.
Fondamentale per un approccio filologico ai testi è l’articolo di Marianna Marrucci, Canzonette del Golfo. Varianti e inediti, in «L’Ospite Ingrato» VI, 2003, 2, pp. 239-247. Dalla spoglio della corrispondenza relativa a questo componimento appare, tra le altre informazioni, l’intenzione di Fortini di far musicare le Canzonette e l’importante definizione, che l’autore dà dell’opera, di “manierismo del Golfo”.
Sul concetto di manierismo e sulla complessa trama intertestuale soggiacente alle sette poesie (da Metastasio a Manzoni, da Foscolo a Pascoli) si veda l’articolo:
Marina Polacco, Fortini e i destini generali. Lirica e “grande politica” fino a Composita Solvantur, in «Allegoria», n.s. VIII, 1996, 21-22, pp. 42-61, successivamente ripreso nel volume M. Polacco, L’intertestualità, Laterza, Roma-Bari 1998. Ai rimandi intertestuali messi in luce in questi scritti bisogna aggiungere quello, suggerito da Luca Lenzini, alla poesia No’ angossarte, putèl, spera… di Noventa (e indirettamente Heine e Brecht): L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Manni, Lecce 1999, p. 222. Ancora Lenzini ha scritto note importanti sulla “mesta ironia” di questi componimenti: L. Lenzini, Fortini, in Id., Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet, Macerata 2008, p. 234-236.
Sul manierismo e sul problema del tempo nell’intera opera di Fortini si vedano rispettivamente l’articolo di Thomas Peterson, Aspetti manieristici della poesia di Fortini e quello di Giuseppe Nava, Tempo e memoria nella poesia di Fortini, entrambi pubblicati in Dieci Inverni senza Fortini, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 83-92 e pp. 357-363. In quest’ultimo scritto, la dimensione del tempo, nelle Canzonette, è individuata come «strategia di difesa», adottata da Fortini, contro «il funesto valore inaugurale d’una nuova epoca di guerra» (p. 358). Un’ottima definizione del manierismo fortiniano è data da G. Mazzoni in Forma e solitudine, cit.: «Il manierismo esprime nostalgia perché evoca un’immagine dell’integrità che appartiene al passato per scatenare, al cospetto della realtà alienata, un’energia di attesa: non è dunque un valore adempiuto ma un progetto. […] In questo senso, il manierismo è una forma di ironia romantica: indicando una verità ulteriore e irraggiungibile, chiede di essere superato e inverato» (p. 202). Il rapporto generale tra ironia ed “energia di attesa” è stato teorizzato molto bene, riferendosi a Benjamin, da Paul de Man: «L’ironia è la radicale negazione la quale, tuttavia, rivela, attraverso il disfacimento dell’opera, l’assoluto verso il quale l’opera è in cammino» (P. de Man, The Concept of Irony, in Id., Aesthetic Ideology, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996, p. 163-191, tr. it: Id., Il concetto di ironia, in «Studi di Estetica», anno XXXV, III serie, 35-36, 2007, pp. 73-100. Il passo citato si trova a pag. 99).
Si veda infine la recensione alla raccolta Composita solvantur di Raffaele Cavalluzzi (Fortini, “Composita solvantur”, in «Lavoro critico», n.s., 1992 [in realtà 1996], 22-24, pp. 121-124), che interpreta la settima delle Canzonette come «densa metafora autobiografica della patologia che infierisce, sorda, nella sua esasperata fisicità, dentro le viscere dell’uomo-Fortini» (p. 122).
APPENDICE: i testi
Sette canzonette del Golfo
Ah letizia del mattino!
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.
Lontanissime sirene
d’autostrada, il sole viene!
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.
Le formiche in fila vanno.
Vanno a fare, ehi! qualche danno
alle pere già mature…
Quanto sole è sul muretto!
Le lucertole lo sanno.
2. Lontano lontano…
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
3. Se la tazza…
Se la tazza mi darai
che mi piace, la mia tazza
con il manico marrone,
gentilissima ragazza,
tu felice mi farai.
Il suo manico ha il colore
del più vivo e ricco tè
ma riflette anche il turchino
del leggero cielo se
è leggero come te.
4. Gli imperatori…
Gli imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell’orbe assorti in empi o rei disegni!
Già fulminanti tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.
A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.
Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.
5. Come presto…
Come presto è passato l’inverno
fra clamori terribili e vani!
Le battaglie di popoli estrani
che mai sono in confronto all’eterno,
all’eterno degli ippocastani
che dai ceppi si industriano lenti
a sperare germogli lassù?
E tu assorta graziosa annoiata
sul terrazzo, in pigiama pervinca,
forse chiedi al mattino che vinca
come il sole la bruma ostinata
così il bene sui campi cruenti?
Ma è domenica, è marzo: non senti
che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?
6. Aprile torna…
Aprile torna e a sera un frescolino
irrita gote di ragazze accese:
in un palio ciclistico protese
volanti rubiconde mutandine.
Come rauche ora vociano parole
quasi laide nell’aria della sera!
Fu dolce, in altro tempo, primavera.
Godono pepsi cola ignude gole.
I ragazzi le annusano. Una bella
passò, di zinne e deltoidi ribaldi
e d’altro che acre un dì mi fu diletto.
Ma come mai sensibile diletto
trovar non so che me attonito scaldi?
Sì, d’aprile il dormire è cosa bella.
7. Se mai laida…
Se mai laida una limaccia
quando a ottobre l’aria è spenta
lenta bava perse lenta
che
di lunga e liscia traccia
porri o sedani segnò,
metaldèide in grigi grani
fai che inghiotta; e a globo stretta
plasma e anima rimetta.
Quanti soli già lontani
la lucertola mirò!
Lento a dèi crudeli e ignoti
va il mio bruno ultimo fiele…
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?
***
Considero errore
Considero errore aver creduto che degli eventi
(«meglio non nominarli!» mi soffiano i piccoli dèi)
di questo ’91 non potessi parlare o tacere
se non per gioco, per ironia lacrimante.
I versi comici, i temi comici o ridicoli
mi parvero sola risposta. Come sbagliavo!
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.
Chi mai potrà capire che tempo fu quello? Credevo
scendere in un mio crepuscolo. Ahi gente! Invece
altro era, incomprensibile e senza nome. Guardavo
la luna di aprile sullo Eichhorn, a mezzanotte,
e la stellina d’oro dello Jungfraujoch, Disneyland.
(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare).
***
Reversibilità
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
– si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora? E così vive ancora,
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
1 F. Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994, pp. 29-37.
2 A. Inglese, Scrivere di guerra: Fortini e Buffoni, in «Qui. Appunti dal presente», 9, primavera 2004, pp. 41-49.
3 Ivi, p. 42.
4 F. Fortini, I Cani del Sinai, Quodlibet, Macerata 20023, in particolare pp. 12, 18-19, 24.
5 E. Abate, Fortini, la guerra, la pace, in «Poliscritture», rivista pubblicata in cartaceo e on-line, 18 giugno 2007.
6 F. Fortini, Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972.
7 Ivi, p. 27.
8 G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 206-208.
9 R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-87.
10 R. Luperini, La condizione intellettuale. Prolusione per l’inaugurazione del 767° anno accademico, Università di Siena, 2007, www.unisi.it/eventi/inaugurazione767/relazioni.htm.
11 Scrive Fortini in nota, affiancando i due temi: «Le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, un’operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo una nuova èra nelle relazioni internazionali. La metaldèide di Se mai laida… è nome chimico di un prodotto che contro lumache o limacce si sparge in granuli sul terreno» (F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 85).
12 Sul tema del veleno della vittima che uccide il carnefice, cfr. F. Fortini, Stanotte…, in Id., Composita solvantur, cit., p. 13. Romano Luperini commenta così questa poesia: «Il morso con cui l’animale uccide la bestiola lo condanna: resterà contagiato dal veleno che già contamina il sangue della sua vittima. […] A entrare in circolo […] è il veleno di un inquinamento che tutti ci riguarda» (R. Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 71). La poesia, risalente al 1985, fu pubblicata inizialmente con il titolo L’animale.
13 F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 74.