Gigi Roggero, Intelligenze fuggitive. Movimenti contro l’università azienda, Roma, manifestolibri, 2005.
Il pamphlet di Pierluigi Pellini La riforma Moratti non esiste rappresenta forse la punta più avanzata di una riflessione riformista all’interno dell’università da parte di un giovane e coraggioso docente, e ci dice fin dove può arrivare la resistenza del corpo accademico (nella sua parte migliore) ai piani di smantellamento dell’istituzione pubblica che sono sotto gli occhi di chi vuol vedere. Il centro del libro è costituito da una corrosiva e divertente critica alla «Riforma Moratti» che, inserendosi nella linea Zecchino-Berlinguer, «non cambia (quasi) niente», a parte la legittimazione dei «ricercatori aziendali», il rifiuto di istituire la terza fascia della docenza, il raddoppiamento delle 60 ore di docenza obbligatoria a 120, peggioramenti e confusione nel sistema concorsuale (non così poco in realtà…). Lo scempio simbolico, scrive Pellini, è stato accompagnato da uno scempio reale «scritto in finanziaria, e non da quest’anno» (p. 31); insieme, non meno desolante, alla rumorosa ma in realtà modesta opposizione di rettori, presidi, ordinari e associati; e soprattutto dei ricercatori, insieme ai precari coloro che tengono in piedi gran parte dei corsi,
Il capitolo centrale del libro è intitolato «Qualche idea per una riforma vera». L’assenza di processi realmente democratici è esemplificata attraverso il caso di auto-investitura della CRUI, «una privata associazione di privati cittadini: al pari di una bocciofila di paese o di una loggia massonica». Sulla casualità del secondo esempio sorvolerei, dato che la questione sta nell’abusiva rappresentanza di soggetti (i lavoratori) di fatto esclusi dal processo di governo e riforma dell’università. Ancora più grave il fatto che al «verticismo dirigista» tanto in voga a destra come nel centro-sinistra (Modica docet), si siano opposte spinte corporative dal basso, spiegabili in termini difensivi ma pur sempre incapaci di leggere la totalità del processo.Si parla finalmente dei “precari” dell’università. Pellini dice giustamente che i professionisti che occasionalmente prestano le loro competenze alle università non sono precari: nulla da eccepire.
Ma quando si dice che «un dottorando non è un ricercatore precario, ma uno studente che ha (in alcuni casi almeno) la fortuna di avere una borsa di studio che gli permette di vivere decorosamente e di perfezionare la sua formazione», e che il fatto di trovarlo spesso ad adempiere funzioni di segretario, di docente supplente, di autista, di esaminatore «è malcostume italico», allora bisogna dire che la categoria del malcostume spiega poco, che un supplemento di indagine è doveroso, e che la questione non è se chiamarlo o meno precario, ma se di fatto, non sapendolo o non considerandosi tale per la maggior parte delle volte, non lo sia già.
Un primissimo livello di indagine ci dice ad esempio che negli ultimi anni il numero dei dottorandi in Italia è aumentato in maniera notevole. Chi scrive è un dottorando appartenente alla categoria protetta: nessuna corvée, mai avuto a che fare con uno studente. Eppure basta volgere solo di poco lo sguardo verso i dipartimenti scientifici, tanto per fare un esempio, e vedere come viva in una delle “università modello” (Siena, ma si potrebbe parlare di qualsiasi altra) un dottorando di Farmacia che dal lunedì al venerdì si occupa della ricerca, non finanziata dal privato (figurarsi!, non è questo il modo in cui il privato entra nel pubblico, l’aziendalizzazione è una cosa più complessa), ma indirizzata all’attività produttiva immediata. Se non vogliamo chiamarlo lavoro precario ma ricerca disinteressata o formazione benissimo, ma allora non parliamone più. Non è ovviamente il caso di Pellini, che qualche pagina dopo si scaglia contro la moltiplicazione incontrollata di posti di dottorato con e soprattutto senza borsa. Per le figure universalmente riconosciute come precarie, gli assegnisti, i borsisti, i docenti a contratto (ma le tipologie sono una quindicina!), Pellini immagina una semplificazione accompagnata da un aumento di salari (esistono contratti per docenze annuali di 30 ore, pagate 1000 euro!) e di diritti («precariato accettabile», ma sarebbe meglio non teorizzare questo monstrum). Giuste rivendicazioni che ogni sindacato decente dovrebbe sostenere. Nelle proposte di Pellini, alla fine del periodo di prova un’ulteriore selezione dovrebbe portare una parte dei ricercatori ad un impegno a tempo indeterminato nelle università, il resto ad un impiego nell’amministrazione pubblica, preferibilmente nella scuola. Ma non, come si dice nel libro, perché un assegnista ne saprà comunque più di un diplomato SSIS! Il corporativismo dei sindacati della scuola esiste, ma non si può semplificare così il problema dell’insegnamento nella scuola parlando di «qualche attempato precario», e idee come quelle sopra esposte ce le saremmo aspettate da uno di quei baroni tanto giustamente criticati.
Il passaggio successivo riguarda i concorsi, ed è particolarmente importante se si pensa che il «reclutamento straordinario» del quale si parlava all’inizio desta sospetti anche per la poca chiarezza dei criteri di selezione e delle modalità concorsuali.
I cosiddetti «concorsi locali» introdotti nella seconda metà degli anni ’90, non sono mai stati concorsi locali: «Sono stati e continuano ad essere un ibrido mostruoso […] coniugano i peggiori difetti del localismo più anarchico con quelli del controllo baronale esercitato dalle cordate nazionali» (p. 63), magari sotto forma di società di settore, con le varie correnti al loro interno. Peraltro quel minimo di imponderabilità che restava per i concorsi da ordinario e associato era assolutamente assente in quelli da ricercatore, vinti puntualmente dal candidato locale (con o senza merito). Oggi, per l’autonomia, nessuna università può essere costretta, dal ministero o da chicchessia, ad assumere un vincitore di concorso, se non è di suo gradimento.
D’ora in poi tutti i membri delle commissioni concorsuali saranno sorteggiati. Nei settori controllati da baronie efficienti, nella lista elettiva non comparirà alcun nome scomodo. «Che poi si possa chiamare nazionale un concorso che si svolgerà presso una singola università, e non presso il ministero (questo prevede la legge Moratti), è alquanto dubbio» (p. 59). Al che, del concorso nazionale, si aggiungerà la burocratica lentezza. Su questo le controproposte del centrosinistra appaiono sterili: «Il Senatore [Modica, sempre lui] subordina l’introduzione del suo sistema favorito (lista aperta e chiamata locale) alla nascita di una agenzia di valutazione (a ognuno il suo dadà), i cui oracoli dovrebbero scongiurare le derive localistiche. Perché se un’università assumesse un mediocre sarebbe additata a pubblico ludibrio: mah…» (p. 62).
Un altro punto affrontato da Pellini riguarda le carriere tutte interne alla stessa università, un unicum italiano, dei Chierici poco vaganti. I trasferimenti negli ultimi anni sono spariti, giungendo al paradosso per il quale, nonostante la penuria di posti, ai concorsi si presentano pochissimi aspiranti vista l’impossibilità di superare il candidato locale.
Si riflette poi sulla valutazione, sia dei docenti strutturati che dei giovani ricercatori in sede di concorsi: gli organismi nazionali di valutazione sono dei carrozzoni soggetti inevitabilmente a pressioni di ogni tipo:
Per i concorsi il discorso è ancora più radicale: «Un grecista è perfettamente in grado di giudicare il valore di un latinista, e anche di un italianista e perfino di un filosofo». Lo stesso vale per gli scienziati.
Incredibile quanto viene fuori a proposito dei settori scientifico-disciplinari: «Ebbene, i settori scientifico-disciplinari sono 370 (trecentosettanta). Alcuni contano meno di dieci docenti, tutti compresi: ordinari, associati, ricercatori. Esilarante spezzatino della ricerca, vertiginosa polverizzazione del sapere» (p. 85).
Le conclusioni estendono la riflessione all’ingabbiamento e ad una comunità scientifica nazionale che «assomiglia a un corpo fossilizzato che si autoriproduce e tende alla più piatta conservazione».
Non convince tanto l’esempio, ma è secondario, per cui questa chiusura ha impedito che le nuove metodologie della critica letteraria, elaborate in America, entrassero in Italia. Conservatorismo e storpiato avanguardismo spesso convivono bene, e le mode critiche, dai Cultural studies ai Gender studies, passando naturalmente per la onnipresente critica tematica fioriscono in ogni ateneo: in realtà siamo americani a modo nostro.
Pellini chiude con un decalogo che si riporta brevemente: abolire i settori scientifico-disciplinari, istituire concorsi veramente locali abolendo le carriere interne; limitare drasticamente e regolare in modo chiaro il precariato di ricercatori e docenti; portare a 65 anni, per tutti, l’età pensionabile, e impegnarsi in un piano ventennale di impiego; stanziare finanziamenti adeguati, garantendo davvero il diritto allo studio (borse di studio nazionali e rilancio dell’edilizia studentesca); riformare la riforma della didattica; abolire tutte le riforme Moratti della scuola e tornare al concorso nazionale (per la scuola); sviluppare i rapporti internazionali, riportare la democrazie nelle università, sensibilizzare la pubblica opinione per una discussione veramente partecipata.
«Il punto di non ritorno» – conclude sconsolato l’autore – «è vicino» (p. 92).
Diverso il ragionamento che sta dietro Intelligenze fuggitive, libro che vorrei discutere come parziale tentativo di rispondere alle questioni poste da Pellini, scritto da Gigi Roggero, giovane dottorando del dipartimento di sociologia e scienza politica dell’Università della Calabria.
Quando Pellini parla della necessità di aumentare i finanziamenti, di riformare la didattica, di regolarizzare il precariato, dice bene. Non dice forse con la sufficiente chiarezza che tutto questo, a meno di non credere alla favola del riformatore illuminato, è frutto di una lotta. Lotta che attraversa l’istituzione, non solo in quanto spinta del nuovo che vuole sostituire il vecchio (e sono sacrosante le sue pagine sulla gerontocrazia dell’università italiana), ma soprattutto in quanto all’interno dell’università si assiste ad un processo di proletarizzazione dei lavoratori (dai ricercatori ai tecnici, dai lavoratori nelle pseudo-cooperative dei servizi al personale delle biblioteche, delle mense, delle case dello studente, dei servizi fotocopie, etc.), che andrebbe in primo luogo riconosciuto. L’attacco al lavoro è in pieno svolgimento. Roggero, pur parlando solo dei precari della ricerca e della didattica, tutto questo lo sa bene.
Lotta dunque, contro l’università azienda (Movimenti contro l’università azienda è il sottotitolo del suo libro) ed insieme critica dei saperi, dei modi avvilenti e dei contenuti insignificanti che il 3+2 ha reso pane quotidiano degli studenti. Le due cose vanno insieme. Colonizzata dalla «cultura d’impresa» l’università pensa se stessa e si riproduce attraverso contenitori vuoti (crediti, moduli, etc.). Contenitori, «perché solo così essi valgono a convogliare contenuti compatibili, e nello stesso tempo a escludere ogni contenuto – o significato, o messaggio – incompatibile con loro».1 I movimenti contro l’università azienda sono in primo luogo forme di opposizione ad un modello educativo che a livello continentale, a partire dagli accordi di Lisbona e dal Bologna Process (siamo alla fine degli anni ’90), ha tentato di stabilire uno spazio europeo della formazione.
Un’intervista all’autore, comparsa sull’«Ospite ingrato» (I, 2005) col titolo L’ingovernabilità del sapere vivo, contiene, in forme a volte più efficaci e convincenti, le tesi principali del libro insistendo in particolare sullo scardinamento della dialettica pubblico-privato e sulla precarizzazione del lavoro intellettuale.2
Roggero dà dei numeri che parlano:
L’introduzione ci porta immediatamente al centro della questione: «Crollata l’immagine del felice imprenditore di se stesso, si affaccia quella del precario, non solo vittima dell’incertezza di vita e di reddito, ma soprattutto soggetto di desideri e comportamenti irriducibili alle ragioni del mercato e dei riformatori, più o meno illuminati che siano» (p. 8).
Immediatamente, prevenendo una possibile critica, l’autore scrive: «Questo libro non sostiene affatto che i Knowlwdge workers siano il nuovo soggetto centrale, il segmento avanzato che rimpiazza la classe operaia nella posizione di avanguardia».
Il problema però non è quello di capire se l’uno rimpiazza l’altro, ma se ci sia oggettivamente una possibilità di ridurre ad unità ciò che è percepito come diverso. Basta assistere ad una qualsiasi riunione della Rete Nazionale dei ricercatori precari, con gli stessi soggetti intervistati dall’autore, per rendersi conto che la strada da fare è ancora tanta.
«Esistono concreti segnali di insorgenza di un sapere vivo consapevole della propria eccedenza rispetto alle possibilità di una sua espropriazione privata…» (p. 11).
Il concetto di «autonomia» che compare nella stessa pagina per diventare uno dei motivi principali del libro, affonda le sue radici nella tradizione operaista italiana, della quale l’autore è studioso, e si esplicita in uno spazio di azione politica, che supera le dimensioni statuali (sulla scorta, per la verità, di affrettate e non troppo attendibili liquidazioni negriane) per situarsi in una dimensione internazionale (che giustamente è indicata come la vera dimensione del conflitto).
Il punto di vista politico che si esprime è volto alla «costruzione di una sfera pubblica alternativa sia allo Stato sia al mercato, esplorando le potenzialità, i problemi e i nodi aperti di quel nuovo principio di realtà incarnato nel movimento globale» (p. 11).
«Lo scardinamento della dialettica pubblico-privato» è un processo, scrive Roggero,
C’è una compresenza di forme e tempi diversi: convivono rapporti feudali, l’artigianale attività di ricerca, il parataylorismo, la precarizzazione del lavoro post-fordista, il just-in-time dell’organizzazione che dovrebbe sfornare laureati. Il docente è di fatto un datore di lavoro.
Aziendalizzazione, competitività e contrattualizzazione del rapporto tra studente e università, sono i criteri in base ai quali vengono pensati tempi e modi di una didattica esplosa a dismisura, svolta dai soggetti che dovrebbero fare ricerca, e che pongono il problema di una diversa idea di università, né passatista né ovviamente apologetica del presente. «La paura» diceva Michelet «non è una forza rivoluzionaria»; parafrasandolo con Roggero si potrebbe dire che neanche la nostalgia lo è, figuriamoci per l’università pre-riforme. Temo però che a volte, dai discorsi dei ricercatori precari, o da come li legge Roggero, il rifiuto di alcune forme istituzionali sia un partito preso, anche perchè la rigidità di orari e la ripetitività non sono certo caratteristiche attribuibili al lavoro universitario pre-riforme.
Il secondo capitolo è intitolato «Ambivalenza della “periferia accademica”: tra precarizzazione e nuove figure soggettive». «La “selezione di classe”» – scrive l’autore – «non avviene più a monte (in fase di ingresso all’università), ma a valle, nel guado della carriera universitaria» (p. 36).
L’«esercito universitario di riserva» è diventato lo strato portante della nuova università, su di esso grava l’enorme carico didattico; il fenomeno ha davvero un valore paradigmatico rispetto ai mutamenti delle forme di lavoro. «E tuttavia, si intravede la posta in palio che le recenti mobilitazioni hanno fatto balenare: la flessibilità imposta si può, in potenza, rovesciare in potere contrattuale, in forza politica, in autonomia di nuovi percorsi formativi. In potenza, appunto» (p. 42).
E ancora: «La precarizzazione è la risposta all’autonomo esercizio della flessibilità; la mancanza di diritti è lo stravolgimento della rivolta contro l’appiattimento del diritto eguale per tutti».
Fatto sta che «i tempi brevi impediscono strutturalmente la ricerca e la trasmissione di sapere e conoscenze che sono, per loro stessa natura, complessi» (p. 45).
Per Roggero c’è un altro punto importante: esiste un’«eccedenza della passione», un furor che spinge le figure della precarietà della ricerca a continuare nel loro lavoro anche quando le condizioni lavorative lo sconsiglierebbero.
Ma l’eccedenza della quale si parlava prima non può, secondo Roggero, essere collocata nella tradizionale dialettica delle forze produttive, ma costituisce il «potenziale scardinamento dei meccanismi della valorizzazione capitalistica. Indica la possibile sottrazione al valore, la materiale diserzione delle sue leggi» (p. 61).
L’imprescindibilità della condivisione delle conoscenze non è, come l’autore stesso precisa, una novità: «gia Marx ci spiegava come il capitalista si appropria della cooperazione operaia senza pagarla». L’eccedenza dei saperi è allora letta come «una forma particolare dell’eccesso della vita umana (in quanto facoltà biologica/cosciente di attività volontaria) rispetto alla logica capitalistica, che è al centro della categoria marxiana di lavoro vivo» (p. 62).
Interessante una prima definizione dei terreni delle lotte:
Il quinto capitolo ha per titolo «Nuove pratiche d’autonomia». I discorsi vengono situati all’altezza che gli è propria, almeno in «Occidente», quella del capitalismo “postfordista”. Vale la pena di citare lungamente:
L’ultimo capitolo, «Lo spazio transnazionale e la frontiera europea come campi di azione», pone la necessità, ed insieme le difficoltà, di pensare un percorso europeo volto a decostruire i miti della civiltà, sulla scorta delle riflessioni dello storico bengalese Chakrabarty, decostruendo insieme la pretesa universalità ed oggettività delle scienze sociali e della cultura occidentale.
Le conclusioni, visto quanto detto, non possono che essere definite dall’autore «precarie».
È senz’altro vero che un cambiamento è avvenuto o sta avvenendo: l’immagine di portatori della cultura e del sapere accademico non è più quella dei giovani ricercatori.
Resta tuttavia una partita tutta da giocare, che è forse la più importante delle questioni che questo libro ci consegna:
1 A. Mazzone, Prefazione a R. Martufi, L. Vasapollo, Comunicazione deviante. L’impero del capitale sulla comunicazione, Napoli, Mediaprint, 2000, dove il discorso è in realtà più generale e riguarda l’intera società.
2 Può essere interessante leggere l’intervento di Gigi Roggero alla giornata di riflessione sull’università, dal titolo La posta in gioco. Il resistibile declino dell’università, tenuta a Siena il 28 marzo 2006.
3 Il riferimento è a M. Castells, La nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi, 2002, p. 32.
4 Il riferimento è a K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 403.