La sua constatazione circa i giornalisti «mezzibusti e nani» non sembra però tener conto della situazione strutturale che – nella maggior parte dei casi – li rende tali. Siccome anche Rossana Rossanda, nel suo commento sul PD del 24 giugno, ci ricorda la deriva della Repubblica di Weimar, mi sembra opportuno richiamare in mente il ruolo che in essa ebbero i media.
Kurt Tucholsky (1890-1935), che scrisse per decine di giornali, ha descritto la situazione d’impotenza del redattore nei confronti dell’editore: «come lui finisca per mentire a se stesso, compensando in eccesso i propri difetti, di cui si sente colpevole, e pavoneggiandosi squallidamente con se stesso e i suoi collaboratori». Già nel 1921 la stampa è «molto più che corrotta, è influenzata. O meglio, influenzata in modo incontrollata. Ai redattori ormai è entrato nel sangue che, alla fine, devono pensare non alla verità, ma all’effetto delle loro notizie». Il redattore è dunque libero di fare ciò che vuole solo a condizione di recepire lo spirito del «rappresentante del cartello che controlla il giornale», e purché «non si spezzi la catena dei riguardi, quelli verso gli inserzionisti […], quelli verso la suscettibilità dei lettori borghesi».
Sono gli innumerevoli gruppi di interesse oltre ai poteri forti, nella Germania di Weimar, ai quali la stampa fa solo da «musica d’accompagnamento». Un simile ruolo si può notare anche in Italia: nei due paesi a tarda unificazione nazionale la stampa non ha mai raggiunto una vera autonomia con funzione di critica verso il potere costituito, non ci sono stati gli spazi per la formazione un “quarto potere”. I massmedia sono imprese dedite al profitto, la cosiddetta “informazione” è, semmai, un prodotto secondario, ormai presente per lo più come “infotainment”, basti guardare un telegiornale qualsiasi. Il settore pubblico della TV, da tempo contagiato, dovrebbe essere protetto e difeso con maggiore forza e passione dalla cosiddetta società civile – per non parlare del necessario aiuto pubblico ai resti della stampa indipendente – almeno per tenere viva l’illusione di un pluralismo mediatico. Sono i processi di concentrazione economica nel settore a produrre quei meccanismi che condizionano sempre più anche gli strumenti di lavoro degli addetti, non solo in Italia, ma qui la situazione contrattuale dei giornalisti appare particolarmente scandalosa. Il lettore si trova dunque nello stesso stato di costrizione descritto da Tucholsky, 1932: «Acquistare ciò che i cartelli ti gettano davanti; leggere ciò che i censori ti consentono; credere a ciò che la chiesa e il partito ti impongono. Al momento i pantaloni si portano semilarghi, mentre la libertà è fuori moda».
La deriva nella dittatura presidenziale di Weimar (dal 1930) restringeva sempre più non solo gli spazi della stampa di sinistra, ma anche di quella borghese, critica nei confronti dell’involuzione politica, favorita da uno stato di precarietà legislativa. (La famosa Costituzione di Weimar non prevedeva uno specifico diritto di “libertà di stampa”, codificato solo come variante della “libertà di opinione”, a sua volta regolata da una apposita legge del Reich, modificabile e quindi modificata più volte secondo le esigenze delle instabili maggioranze parlamentari). La presa del potere da parte di Hitler nel 1933 non dovette modificare tale stato di cose sul piano istituzionale, e il passaggio fu anche in questo settore, graduale. Harry Pross, studioso del giornalismo, ricordò nel 2000 che «fra il 1930 e il 1931 l’opportunismo tipico di un settore sempre in anticipo assume una sfumatura bruna». E Carl von Ossietzky, direttore della ormai mitica rivista indipendente «Die Weltbühne», e già processato e incarcerato dalla Repubblica nel 1931 per «alto tradimento pubblicistico», osservò nel 1932: «Nella situazione attuale la cosa sconvolgente non è che il fascismo vinca, ma che gli altri vi si adattino. Brüning cerca di assimilarsi a Hitler, i socialdemocratici prendono a modello Brüning. Il fascismo condiziona comunque gli argomenti e il livello».
Allora fu il magnate della stampa di destra e dell’industria cinematografica UFA (il maggiore impero multimediale europeo), fondatore del «partito del popolo della nazione tedesca» (DNVP) e poi primo ministro dell’economia di Hitler, Alfred Hugenberg, ad aver preparato – con i suoi adepti – il terreno mentale alla graduale dissoluzione della fragile democrazia.
Se il lettore odierno individua dei paralleli con quel passato egli sa anche che la storia non si ripete, se non come farsa, ma questa alla quale assistiamo ora, come ricorda Rossanda, veramente non fa ridere. Stupisce, soprattutto all’estero, il fatto che il fenomeno Berlusconi sia stato così fortemente sottovalutato da ampi settori politici e dell’opinione pubblica e non solo riguardo all’intreccio immediato tra potere economico e politico. Il fatto che nella sua figura questi due si fondano, rende ormai quasi incontrollabile la dissoluzione delle istituzioni democratiche, quella “balance of powers”, da sempre sotto pressione nella breve storia repubblicana del paese. Ma questo intreccio rende la situazione anche più palese e ovvia (e dunque potenzialmente criticabile) che in altre realtà occidentali, nelle quali la sola concentrazione economica del potere massmediatico riesce comunque ad annebbiare di populismo le coscienze dei consumatori e a mediare gli interessi dei poteri forti in maniera più velata. Qui ci sarebbe da parlare dei vari Murdoch, Bertelsmann, Kirch, Springer ecc. che a loro volta riescono a forgiare la realtà nei loro imperi: «Deve essere stato sempre così. Ma quel che, nell’era industriale, è prosperato a completamento dell’opera, è l’influenza della realtà sulla stampa, appunto di quella realtà che deve essere riprodotta. È l’oggetto che domina», annotava Tucholsky nel lontano 1921, quando non c’erano né televisione né internet, e continuava: