Senza voler fare della mitologia generazionale, mi sento di poter dire che la mia generazione – quella nata negli anni Cinquanta e che ha cominciato a prendere coscienza di sé negli anni Settanta – abbia avuto la “grazia” di una ferita immedicabile, che la rende testimone necessario e incomprensibile a un tempo (ai più giovani ma anche ai padri riciclatisi giovanilmente in nipoti, tutto scordando o rimuovendo). La lucida ferita privata dentro una storia più grande di cui, in qualità di semplice e periferico esponente di tale generazione, sento di dover raccontare, affinché si possa intuire se non fendere e capire la nebbia di questa notte disgustosa e inquietante, diventando piccolo traduttore/traghettatore di un “luogo” alla volta del magma indistinto in cui ci si vuole comodamente adagiati e dimentichi, è quella di essere risultati oggetti della Grande Trasformazione che nel corso degli anni Sessanta e Settanta (in questi ultimi con particolare accelerazione e virulenza) ha posto le basi del vivere oggi in Italia in particolare, ma non solo; Grande Trasformazione (dalla testa della gente al paesaggio in cui essa si muove) tanto lucidamente analizzata da Pier Paolo Pasolini nei suoi vari aspetti, non da ultimo in quello linguistico.
Le parole di Eugenio Turri, cui si deve anche la definizione di Grande Trasformazione, riferite in primo luogo al paesaggio, sembrano adattarsi molto bene a qualsiasi aspetto del nostro vivere (territoriale-architettonico, socio-politico, linguistico-mediatico), risultando, a distanza di un quarto di secolo, addirittura profetiche:
2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
Penso che non esista artigiano della parola che non rifletta, operando, sul suo lavoro. Direi che ciò capiti naturalmente. Nel mio specifico caso di poeta che nasce “dalettale”, la materia stessa di cui è fatta la scrittura, la lingua/le lingue, il loro convivere o il loro contrastarsi è diventata talvolta oggetto di riflessione metapoetica, ma mai fine a sé stessa. Sinceramente il “menarsela” sulla poesia nella poesia non mi ha mai interessato troppo, fortunatamente nei poeti italiani che leggo con passione essa è una componente marginale se confrontati con altre realtà europee. Ciò non toglie che mi capitino sotto molti testi in “poetese” che si accarezzano l’ombelico metapoetico.
3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto […] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?
La citazione da Fortini, se vogliamo, nella prima parte è abbastanza scontata: “naturalmente” qualsiasi artigiano della parola sa che qualsiasi forma necessita di sforzo e progetto che, negli anni, si attesteranno in una sua unica, riconoscibile e indispensabile “voce”. Sul dare un valore etico-politico alla forma, avrei qualche dubbio, a meno che non si intenda con questa etichetta lo studio, la professionalità, il rigore e anche la passione con cui si affrontano pure tutte le altre questioni del vivere e agire umani. C’entra la tradizione con tutto questso? Forse, a volte, molto spesso no: le risposte che richiede questo nostro tempo molte volte non si trovano nella tradizione, richiedono inventività e impensabilità non ancora pensata. E, probabilmente, il peso, la forza, l’incidenza che Fortini e compagni d’epoca assegnavano anche socio-politicamente al loro operare letterario era “trasfigurato”, sproporzionato alla realtà dei fatti. Faccio fatica, insomma, a entrare in dialogo con le riflessioni citate. Probabilmente la domanda andrebbe riformulata.
4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha» (Fortini, Prefazione al Faust). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?
La traduzione fa parte indissolubile del mio quotidiano artigianato, per motivi sia di lavoro sia di interesse: è chiaro che, scrivendo come traducendo, non si opera su una tabula rasa scoprendo l’acqua calda: la tradizione, i maestri sono lì, presenti compagni di viaggio. Come tutti i compagni di viaggio a volte possono essere però anche importuni, inquietanti, poiché se può essere vero che vi sia una qualche tensione (conscia o inconscia) a una tradizione, le sfide che il tradurre (per sua natura condizionato dall’immediatezza e dunque sempre, subito caduco) pone, necessitano di concrete strategie ogni volta nuove per affrontare adeguatamente nell’habitat di reazione il testo stimolo dando vita a un testo reazione che, magari, viaggia, è costretto a viaggiare, al di fuori di qualsiasi tradizione per arrivare da qualche parte.
5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?
Ma secondo me, anche qui si sfiora il banale: per chi scrive e in quella data forma, questa è sempre non conciliante, su di essa non si contratta. Se volessimo definire questa posizione come “politica”, qualsiasi poeta che sia tale, sarebbe anche “politico” e dunque tutti potrebbero essere ricondotti a una “funzione Fortini”. Penso però che non si possa fare questa uguaglianza. Certamente vi sono in circolazione determinati poeti che potrebbero rientrare, anche con la loro forma, nel concetto di “politicità” indicato da Mengaldo per Fortini (magari mi sbaglio, ma mi viene da pensare a Gianni D’Elia o a Giancarlo Sissa), quanto però essi si riconoscano nella “funzione Fortini” non posso dire. Per quanto mi riguarda, essa non mi ha mai interessato particolarmente.