Czesław Miłosz:
descrivere le fini dei mondi
Giovanna Tomassucci

1. Storie degli Ultimi Giorni

Nei primi anni Quaranta, durante la duplice occupazione sovietica e tedesca del suo paese, Miłosz ha composto alcune poesie, poi raccolte in Ocalenie (Salvezza, 1945), in cui compare il tema dell’osservazione esterna di un dramma altrui o addirittura della fine di un mondo. Mi riferisco a Piosenka o końcu świata (Canzone sulla fine del mondo), Campo dei Fiori e Biedny chrześcijanin patrzy na getto (Il povero cristiano guarda il ghetto). Tutte e tre appartengono al breve ciclo Głosy biednych ludzi (Voci di povera gente) e sono state ispirate da episodi della Seconda guerra mondiale cui il poeta aveva assistito in prima persona: l’annessione della Lituania all’Unione Sovietica nel giugno 1940, la repressione del ghetto di Varsavia nell’aprile del 1943 e l’atto immediatamente successivo, la sua distruzione totale. È importante inoltre ricordare che proprio Miłosz è stato uno dei primi intellettuali a reagire a caldo a questi avvenimenti.

Per descrivere gli eventi della seconda guerra mondiale più di una generazione di poeti polacchi ha cercato di dar vita a un nuovo linguaggio poetico non solo crudo e essenziale, ma anche fantastico e visionario. Miłosz è stato un maestro in quegli anni e la sua lunga vita gli ha permesso di riflettere su questa sua esperienza. Il poeta appare interessato a inserire quegli episodi da una parte in una dimensione metastorica, metafisica, escatologica, dall’altra a individuare costanti o certi circolari ricorsi del divenire storico. Nell’introduzione alla propria traduzione dell’Apocalisse scriverà:

użyję terminu, który znalazłem u prawosławnego teologa Sergiusza Bułgakowa: wizje świętego Jana dotyczą metahistorii. Kiedy je spisywał, Rzym stał u szczytu potęgi, ale jego zagłada była przygotowana, jako że […] wszechmoc światowego imperium taki tylko mają koniec. Czas metahistorii jest inny niż czas historii, inne są też jej prawa: lament podbitych narodów i krew męczenników są w niej położone na szali i znajdują zadośćuczynienie. A jak metahistoria i historia są ze sobą złączone, nie mnie zgadywaći.1

[Mi servirò di un termine trovato nel teologo ortodosso Sergej Bulgakov: le visioni di San Giovanni riguardano la metastoria. Quando le scrisse, Roma si trovava all’apice della propria potenza, ma la distruzione era già predisposta, poiché […] l’onnipotenza di un impero mondiale non può che aver fine. Il tempo della metastoria è diverso da quello storico, altre sono le sue leggi: in essa il lamento dei popoli sconfitti e il sangue dei martiri vengono posti sul piatto della bilancia e ottengono soddisfazione. E non è mio compito indovinare il legame che intercorre tra metastoria e storia].

Formatosi tra due culture, la polacca e la russa, allora particolarmente sensibili al tema del tramonto della civiltà occidentale, il poeta polacco-lituano si è interessato fin dagli inizi ai processi di distruzione e ricostruzione della storia e ai meccanismi d’indifferenza e oblio di testimoni e posteri. La sua poesia cerca di dar voce ai lamenti dei popoli sconfitti, ma si propone di farlo in maniera correlata, mai direttamente rappresentativa: il passaggio dalla storia alla metastoria implica uno scavo verso lo «sfondo metafisico del mondo»2 e per rappresentarlo occorrono forme non realistiche. Nei versi composti nella Varsavia del 1943, da lui definita «abisso totale»,3 ricorre perciò a una descrizione alterata, straniata che si ancora spesso a ricorsi storici simili. La sua miscela di ironia e orrore, l’uso di una sorta di «montaggio» tra scene analoghe, ma risalenti a periodi storici diversi (come in Campo dei Fiori) sono unici nel loro genere. Il risultato è una visione rarefatta, una prospettiva che permette di osservare sia da vicino che da lontano, come con uno zoom, sia nello spazio che nel tempo. Le emozioni vengono distanziate o filtrate da vari miti ed immagini più che da una riflessione morale esplicita.

Signorelli, Finimondo

Signorelli, Predica e morte dell’Anticristo

Qualche anno prima, durante il suo primo viaggio in Italia nel 1937, il giovane poeta era stato affascinato dagli affreschi di Signorelli nella cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto, in particolare dagli apocalittici Finimondo e Predica e morte dell’Anticristo, con scene di razzia e massacri, in cui feroci angeli sterminatori bombardano con una pioggia di dardi una folla indifesa. Riportiamo alcuni passi di un suo breve saggio, dall’eloquente titolo Sul silenzio, che Miłosz volle dedicare un anno dopo al ciclo pittorico:

Jakie znane grozy! Ależ o nas mówi to malowidło! Diabelska władza. Antychrysta skrzydło. […] I na uboczu dwaj artyści, którzy milczą, nie biorąc udziału w wielkim świecie na cześć fałszywego boga.4

[Che noti orrori! Ma è di noi che parla questo affresco! Il potere del diavolo. L’ala dell’Anticristo […]. In disparte due artisti (probabilmente Beato Angelico e Signorelli N. d. G. T.) osservano – proprio come noi oggi – in silenzio, senza prender parte a quel grande mondo che venera un falso dio].

Lo sguardo esterno… Senza dubbio è questa la chiave di volta che unisce varie sue poesie: Campo dei Fiori, Il povero cristiano guarda il ghetto, Przedmieście (Periferia). Nella prime due la catastrofe è vista da un osservatore anonimo e distaccato.

Riportiamo qui il testo:

Canzone sulla fine del mondo

Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.

E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.5

Benché ispirata dall’improvviso arrivo dei carrarmati sovietici nel centro di Vilna nel 1940, cui l’autore aveva assistito, la poesia non narra alcun evento storico: si tende piuttosto a riflettere più generalmente sulla cieca pulsione vitale della natura e degli uomini, indifferenti alle «fini dei mondi» e alle altrui tragedie. È una sorta di «distillazione» del motivo ispiratore in un «preparato» di immagini in assoluto contrasto con il titolo. Sono scene di maniera di cui si potrebbe agevolmente ricercare l’origine o accostare una specifica iconografia: api su fiori, gai delfini e passeri, serpenti, pescatori, signore a passeggio per i campi, ubriachi e ortolani. Partecipano tutti a un vibrante ciclo naturale che non può che renderli spettatori distratti o ignari di quella «fine del mondo» che ha luogo forse non molto lontano.

La scena di Campo dei Fiori è invece innestata su una similitudine storica:

A Roma in Campo dei Fiori
ceste di olive e limoni,
spruzzi di vino per terra
e frammenti di fiori.
Rosati frutti di mare
vengono sparsi sui banchi,
bracciate d’uva nera
sulle pesche vellutate.
Proprio qui, su questa piazza
fu arso Giordano Bruno.
Il boia accese la fiamma
fra la marmaglia curiosa.
E non appena spenta la fiamma,
ecco di nuovo piene le taverne.
Ceste di olive e limoni
sulle teste dei venditori.
Mi ricordai di Campo dei Fiori
a Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve del muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano alte
nel cielo sereno.
Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme,
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia.
C’è chi ne trarrà la morale
che il popolo di Varsavia o Roma
commercia, si diverte, ama
indifferente ai roghi dei martiri.
Altri ne trarrà la morale
sulla fugacità delle cose umane,
sull’oblio che cresce
prima che la fiamma si spenga.
Eppure io allora pensavo
alla solitudine di chi muore.
Al fatto che quando Giordano
salì sul patibolo
non trovò nella lingua umana
neppure un’espressione,
per dire addio all’umanità,
l’umanità che restava.
Rieccoli a tracannare vino,
a vendere bianche asterie,
ceste di olive e limoni
portavano con gaio brusio.
Ed egli già distava da loro
come fossero secoli,
essi attesero appena
il suo levarsi nel fuoco.
E questi, morenti, soli,
già dimenticati dal mondo,
la loro lingua ci è estranea
come lingua di antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
e allora dopo molti anni
su un nuovo Campo dei Fiori
un poeta desterà la rivolta.6

Varsavia, Pasqua 1943

Chi parla in questa poesia è un osservatore del XX sec., che si raffigura il martirio di Giordano Bruno, ma il suo sguardo scivola ben presto dal rogo all’attiguo mercato e alla folla, più attenta alle proprie occupazioni che alla sorte del condannato. Si crea quindi una corrispondenza con una situazione di cui è stato testimone nella Varsavia dell’aprile 1943: la giostra eretta di fronte al Ghetto in fiamme su cui la gente andava a divertirsi.

Qualcosa di ancora più brutale accade ai due sfaccendati della poesia Periferia, che giocano a carte in prossimità del muro del Ghetto di Varsavia, senza far caso al lontano «guaito» dei convogli di deportati. È come se fosse stata messa la sordina alle grida, alla sofferenza: la distanza emotiva si trasmette così anche a noi lettori, che finiamo per contemplare astrattamente questa scena desolata.
La riflessione sulla sofferenza di uomini e animali si associa quindi a quella sull’indifferenza e sul distacco di spettatori più o meno lontani.7 Se essa è anche un dato caratteristico del pensiero dei migliori scrittori e poeti polacchi, da Gombrowicz a Herbert, non bisogna dimenticare un poeta molto ammirato da Miłosz, Wynstan H. Auden, che già qualche anno prima, in Musée des Beaux Arts (1938), era giunto a considerazioni assai simili, ispirate alla Caduta di Icaro di Bruegel il Vecchio:

About suffering they were never wrong,
The old Masters: how well they understood
Its human position: how it takes place
While someone else is eating or opening a window or just walking dully along;
How, when the aged are reverently, passionately waiting
For the miraculous birth, there always must be
Children who did not specially want it to happen, skating
On a pond at the edge of the wood:
They never forgot
That even the dreadful martyrdom must run its course
Anyhow in a corner, some untidy spot
Where the dogs go on with their doggy life and the torturer’s horse
Scratches its innocent behind on a tree.

In Breughel’s Icarus, for instance: how everything turns away
Quite leisurely from the disaster; the ploughman may
Have heard the splash, the forsaken cry,
But for him it was not an important failure; the sun shone
As it had to on the white legs disappearing into the green
Water, and the expensive delicate ship that must have seen
Something amazing, a boy falling out of the sky,
Had somewhere to get to and sailed calmly on.8

Troviamo qui lo stesso tono astrattamente riflessivo della Canzone sulla fine del mondo e di Campo dei Fiori. Miłosz tuttavia sa anche virare verso reazioni emotivamente più forti e immagini più visionarie. Accade nel Povero cristiano guarda il ghetto:

Le api ricoprono il fegato rosso,
Le formiche ricoprono l’osso nero
.

Comincia: lacerato, calpestate le sete,
Comincia: frantumati vetro, legno, rame, nickel, argento, schiuma di
Gesso, latta, corde di strumenti, trombe, foglie, sfere, cristalli –
Puff! Dalle pareti gialle un fuoco fosforescente
Inghiotte il crine di uomini e animali.

Le api ricoprono il favo dei polmoni,
le formiche ricoprono l’osso bianco
.

Stracciata è la carta, il caucciù, la tela, la pelle, il lino,
La fibra, le stoffe, la cellulosa, il capello, la squama di serpente, i fili di ferro,
Crollano nel fuoco il tetto e i muri, la brace avvolge le fondamenta.
Sabbiosa, calpestata, con un albero spoglio, non c’è ormai che
La terra.
Lenta, scavando un tunnel, avanza la talpa-guardiano
Con una piccola lanterna rossa sulla fronte,
Tocca i corpi sepolti, li conta, si fa largo più in là,
Distingue le ceneri umane dal vapore iridescente,
La cenere di ciascun uomo dalla tinta della sua fiamma.

Le api ricoprono la traccia rossa,
Le formiche ricoprono il posto lasciato dal mio corpo
.

Ho paura, tanta paura della talpa-guardiano.
La sua palpebra si è gonfiata come quella d’un patriarca
Solito star seduto al lume di candela
Leggendo il gran libro della specie.
Cosa gli dirò io, Ebreo del Nuovo Testamento,
Da duemila anni in attesa del ritorno di Gesù?
Il mio corpo frantumato mi tradirà al suo sguardo
Ed egli mi conterà fra gli aiutanti della morte:
I non circoncisi.9

Qui non si contemplano da lontano esecuzioni individuali o di massa, non si distoglie lo sguardo dai mattoni del muro né si presta distrattamente orecchio al rotolare di certi vagoni merci… L’io lirico viene catapultato direttamente dentro la scena, non è più solo testimone, ma vittima della guerra e prova le più forti emozioni: sofferenza, paura, disperazione…

Osservare e tacere è una colpa: Miłosz ha qui anticipato un’analoga, più tarda riflessione di Primo Levi. Per il poeta l’ispirare i propri testi «all’Horror del mondo o della vita» può condurre d’altra parte a un contagio dell’«immoralità della storia».10 Comprendiamo così meglio perché negli anni Settanta egli sia arrivato ad autoaccusarsi per aver descritto la morte altrui dal punto di vista di un distaccato testimone esterno proprio in Campo dei Fiori.11

Il proposito del poeta è quello di distanziarsi dall’ottica autocelebrativa della poesia polacca, tanto diffusa negli anni della guerra, e di narrare l’apocalisse che avveniva sotto i suoi occhi, emancipandosi al tempo stesso dagli stilemi delle sue due raccolte precedenti.

Ma in che modo Miłosz vi è riuscito? Quali letture possono averlo ispirato e guidato? Mi concentrerò proprio sul Povero cristiano guarda il ghetto, parte del breve ciclo Voci di povera gente assieme alla Canzone sulla fine del mondo, Periferia e I canti di Adrian Zieliński. La mia scelta è stata dettata da vari motivi. In primo luogo perché affronta «a caldo» in modo singolare e spietato, (e forse per questo respinto dall’antologia clandestina, Z otchłani (Dall’abisso, 1944),12 edita dal Żydowski Komitet Narodowy (Comitato Nazionale Ebraico), il tema della responsabilità morale dei polacchi.13 In secondo perché è straordinariamente visionario, tanto da apparire come un mosaico di tessere di non facile interpretazione. In terzo luogo perché costituisce una fase di sviluppo diversa rispetto alle altre poesie citate. In quarto luogo perché finora è stato analizzato soprattutto nel suo esplosivo contenuto e assai poco nei suoi procedimenti e richiami sia religiosi sia letterari.

2. Il Giudizio

Il Povero cristiano guarda il ghetto si svolge in uno strano Aldilà, quasi a realizzare la fantasia di «wydrążyć tunel do środka ziemi / żeby zobaczyć piekło»14 («scavare un tunnel fino al centro della terra / per guardare l’inferno») espressa nei coevi Canti di Adrian Zieliński. In questa poesia l’io lirico sembra essere l’elemento meno enigmatico: è un Everyman, un non circonciso che, con una formula di inaspettata fratellanza (oppure nel tentativo di un ormai impossibile rovesciamento di ruoli?) si denomina «Ebreo del Nuovo Testamento» («Żyd Nowego Testamentu»). È testimone, ma anche vittima, come lasciano intuire i versi «Le formiche ricoprono il posto lasciato dal mio corpo» («Mrówki obudowują miejsce po moim ciele») e «Il mio corpo frantumato» («Moje rozbite ciało»), forse eco biblica dei Salmi 21, 15-18 («Deus meus, Deus meus respice in me»)15 e 140, 7 («Domine clamavi ad te, exaudi me»), in cui la persecuzione ingiusta si accompagna al motivo delle ossa e dello Sheol.16 Non bisogna dimenticare che anche la stessa denominazione «Povero cristiano» è arcaica e tipica della trattatistica religiosa. Troviamo un «Christianus pauper» nei sermoni di Sant’Agostino, dove un cristiano povero, che si lagna della sua condizione rispetto a quella dei ricchi pagani, viene esortato alla contemplazione di un sepolcro in cui sono ormai confuse le ossa del ricco e al povero, del pagano e del cristiano.17

Tra i vari organi umani che compaiono nell’allucinata scena della poesia di Miłosz si trovano invece ossa nere e bianche, probabile richiamo alla differenziazione tra Peccatori o Giusti. In questo modo il testo si colora dei tratti di un dramma penitenziale della psiche, dagli aspetti complessi ed ermetici. C’è molto di ultraterreno ed escatologico in questa visione, come registrata da una cinepresa che si sposta in verticale, da sotto terra verso l’alto e ritorno, da un inferno all’altro… Oggi è ormai difficile concordare con quei commentatori che hanno visto nella landa spettrale con un albero scheletrico del Povero cristiano il ghetto di Varsavia bruciato e raso al suolo.18 Qui si trovano sparpagliate membra umane stranamente ancora integre e vari materiali organici e inorganici (che potrebbero assurgere a simboli di una Vanitas contemporanea, se non apparissero pronti a venir fusi e riassorbiti dai processi di decomposizione naturale, in una sorte di feroce catena di montaggio organico-simbolica).19 Lo sguardo dell’osservatore ci guida poi rapidamente verso la superficie, dove sta crollando una casa incendiata, per poi tornare ancora nella viscere della terra scavate dalla talpa-patriarca.

La terra «sabbiosa, calpestata, con un albero spoglio» («piaszczysta, zdeptana, z jednym drzewem») è quella impura e maledetta della colpa. Come in Duch Dziejów (Spirito della Storia) del Traktat poetycki (Trattato poetico, 1956):

Ziemia zagłady, ziemia nienawiści,
Żadne jej słowo nigdy nie oczyści.20

[Terra di sterminio, terra d’odio
Nessuna parola potrà purificarti]

Nell’intervista a Ewa Czarnecka (Renata Goszczyńska) Miłosz sarà più esplicito:

Na miłość boską, było getto i była likwidacja trzech milionów polskich Żydów. Właściwie to jest pewnego rodzaju sprawa winy, która na tej ziemi, na całym kraju kładzie się, woła o jakieś oczyszczenie.21

[per amor di Dio, ci sono stati il ghetto e la liquidazione di tre milioni di ebrei polacchi. Qui si tratta di una sorta di colpa che si è deposta su quella terra, su tutto quel paese e che invoca una purificazione.]

Miłosz eluderà la richiesta dell’intervistatrice di chiarire alcuni aspetti enigmatici del Povero cristiano guarda il ghetto, limitandosi semplicemente a definirne il paesaggio desolato l’«immagine di una terra ricolma di ceneri» [«jest po prostu obrazem ziemi pełnej prochów».22

In quella terra, fino a poco prima sede della più grande comunità ebraica e ora suo enorme cimitero, la purificazione può giungere attraverso un «Giudizio» non più divino dei vivi e dei morti, dei colpevoli (perché osservatori e salvati e perciò complici) e delle vittime. Il poeta aspira a rappresentare l’incontro con il mondo dei morti, tanto presente sia nel folklore lituano, ebraico e polacco, sia nella tradizione letteraria polacca dei sec. XIX-XX. Nel 1969, in Na trąbach i na cytrze (Con le trombe e lo zither) del ciclo Miasto bez imienia (Città senza nome) scriverà: «usłyszałem bijące w ciemności serce umarłych i żywych»23 («udii i cuori dei morti e dei vivi che battevano nell’oscurità»). Nel Povero cristiano guarda il ghetto ci troviamo di fronte a una sua variante molto particolare, che si svolge in una landa desolata, davanti a resti eterogenei (la pelle di serpente, corde di strumenti e schiuma di gesso) e viene descritto con registri diversi, l’apocalittico, il grottesco, perfino il ludico. In questa chiave va interpretata l’assurda lanterna rossa collocata sul capo della misteriosa talpa. Il poeta ha ricordato di aver steso questo testo e Campo dei Fiori per reazione alla ferocia nazista, in un impulso vicino alla scrittura automatica.24 Qui ha creato un paesaggio assai vicino alla pittura surrealista,25 in una versione del Giudizio universale a un tempo arcana, drammatica, caricaturale, in cui Dio, gli angeli, i demoni vengono sostituiti da un’improbabile talpa semitica, in grado di riconoscere le parti del corpo di Giusti e colpevoli, di vittime e «aiutanti della morte».

Alla domanda su cosa rappresentasse quell’inquietante figura animale guardiano, Miłosz ha spiegato a Renata Gorczyńska:

Wyobrażenia ludzi o przestrzeni eschatologicznej: Niebie, Piekle, Hadesie czy Szeolu ze Starego Testamentu są dziwne, bardzo rozchwiane, płynne, ale zawsze jest pewnego rodzaju przestrzeń. Można więc sobie wyobrazić przestrzeń podziemną, gdzie idzie jakaś postać, która nie jest martwa. Jeżeli przesuwa się w ten sposób, to musi być kret. […] Kiedy pisałem ten wiersz, nie myślałem w sposób tak programowy, jak ex post wyjaśniam. Naturalnie, że tu chodzi o odwiedziny Szeolu czy Hadesu przez jakąś postać ze świata żywych. A kto tak może się poruszyć – kret chyba.26

[Anche se le raffigurazioni umane dello spazio escatologico (il Cielo, l’Inferno, l’Ade o lo Sheol nell’Antico Testamento) sono strane, instabili, fluide, non manca mai uno spazio di un certo tipo. Si può quindi immaginare uno spazio sotterraneo dove avanza una figura che non è di un morto. Se si sposta a quel modo dovrà essere una talpa […]. Quando scrissi quella poesia non pensavo in un modo cosi programmatico, come ora spiego ex post. Ovviamente qui si tratta di un viaggio nello Sheol o nell’Ade da parte di un personaggio del mondo dei vivi. E chi può avanzare così? Forse solo una talpa].

L’affermazione del poeta appare un po’ troppo sbrigativa. La sua talpa è munita di una «palpebra rigonfia» come quelle citate da Dante nel Purgatorio (XVII, 1-3): una membrana che le vela gli occhi, ma che non le impedisce di muoversi agilmente nel suo habitat. Per questo è padrona e custode delle viscere della terra e appare quindi come l’animale simbolico più idoneo a esplorarne i tragici segreti e a selezionare le ceneri dei morti dopo l’apocalittica distruzione del ghetto: «Moje rozbite ciało wyda mnie jego spojrzeniu». [«Il mio corpo frantumato mi tradirà al suo sguardo»] (corsivo GT) – dirà spaventato il Povero Cristiano.

Anche William Blake – poeta scoperto entusiasticamente da Miłosz proprio negli anni di guerra – aveva dichiarato qualcosa di simile nel motto del suo Book of Thel:

Does the Eagle know what is in the pit,
Or wilt thou go ask the Mole.27

Mondi diversi possono essere conosciuti solo dalle creature che le abitano: per conoscere il mondo sotterraneo ci si deve rivolgere alla talpa. Thel, protagonista del poema blakiano, è una figura allegorica, un’anima che desidera incarnarsi, ma che per il timore che le suscitano le profondità della terra non sarà capace di portare a termine il proprio processo di formazione e conoscenza (Miłosz vi accennerà nel saggio La terra di Ulro [Ziemia Ulro]).28 Uno dei commentatori di Blake ha attribuito a questo animale il ruolo di custode della coscienza o dell’inconscio,29 interpretazione ben applicabile anche a ciò che avviene nel Povero cristiano. La differenza – vi ho già accennato – è che in questa simbolica discesa si toccano corde non solo surreali, ma perfino autoironiche.

Riporto alcuni brani del coraggioso saggio di Jan Błoński, purtroppo da noi sconosciuto, che affronta il tema della talpa che «drąży sumienia» [«scava la coscienza»]:

Kim jest ten kret, trudno powiedzieć. Jest strażnikiem, może strażnikiem pogrzebanych? Ma latarkę, a zatem widzi, widzi w każdym razie lepiej niż umarli. A wśród tych umarłych znajduje się jakby także sam poeta, czy też raczej ten, który wiersz wypowiada. I on tam leży i boi się. Boi się kreta. Osobliwy, zdumiewający obraz. A zatem ten kret ma rysy Żyda, ślęczącego nad Talmudem czy Biblią. Chyba Biblią, bo ona raczej zasługuje na nazwę «wielkiej księgi gatunku», ludzkiego oczywiście. […] Straszny to wiersz, bo pełen lęku. Ale są w nim jakby dwa strachy. Jeden, to strach przed śmiercią, dokładnie przed pogrzebaniem żywcem, co przecie zdarzyło się tylu ludziom, zasypanym w podziemiach, także w piwnicach getta. Ale w tym pierwszym strachu jest drugi strach, strach przed strażnikiem-kretem. Ten kret posuwa się pod ziemią, ale także jakby – poniżej naszej świadomości. To poczucie winy, do jakiej nie chcemy się przyznać. Pogrzebany pod ruinami między zwłokami Żydów, «nieobrzezany» boi się, że zostanie policzony przez morderców. Więc lęk przed potępieniem, lęk piekielny! Lęk nie-Żyda, który patrzy na walące się getto. Wyobraża sobie, że mógłby tu – przypadkiem – także zginąć, i wtedy w oczach kreta, co umie rozróżnić popioły, wyda się «pomocnikiem śmierci». […] A zatem jest w tym chrześcijaninie lęk przed losem, jaki spotkał Żydów, ale jest także – stłumiony, zaszyfrowany przez niego samego – lęk przed tym, że zostanie potępiony. Potępiony przez kogo? Przez ludzi? Nie, ludzi już nie ma. To kret go potępia, a raczej może  potępić, ten kret, który dobrze widzi i zna «księgę gatunku». Własne moralne sumienie potępia (może potępić) biednego chrześcijanina. I on chciałby się przed tym kretem-sumieniem ukryć, bo nie wie, co mu powiedzieć. Miłosz, zapytany, co czy kogo ten kret oznacza, uchylił się od odpowiedzi. Odparł, że napisał wiersz spontanicznie, nie zaś «programowo». Jeśli tak, tym lepiej, wiersz byłby bezpośrednim wyrazem grozy, która – jak to bywa we śnie i także, w sztuce – wyłania z siebie obrazy. Unaocznia to, co nie w pełni zrozumiane, to co było, a może jeszcze jest, w ludziach, zapewne także w poecie, ale w niejasnym, zamazanym, przytłumionym kształcie. Wczytując się w taki wiersz, lepiej siebie rozumiemy, bo to, co niejasne, oglądamy jakby przed nami. Ja Biednego chrześcijanina trochę – jak każdy czytelnik – uzupełniłem, skomentowałem.

[Chi sia quella talpa è difficile dirlo. Un guardiano, il custode dei sepolti, forse? Ha una lanterna, quindi vede, in ogni caso meglio dei morti. Tra di loro si trova forse lo stesso poeta o comunque chi narra gli eventi della poesia. Anche lui giace in quel luogo e ha paura, paura della talpa. È un‘immagine molto particolare, stupefacente. E poi quella talpa ha i tratti di un ebreo che studia intensamente il Talmud o la Bibbia, la Bibbia più probabilmente, perché più adatta al nome di «Gran libro della Specie» – umana, naturalmente. […] È una poesia terribile perché piena di terrore. Ma in essa vi sono come due paure. Una è quella della morte, di esser sepolto vivo, cosa avvenuta davvero a molta gente nei sotterranei e nelle cantine del ghetto. Ma quella prima paura ne racchiude un’altra, la paura della talpa-guardiano. Quella talpa si muove non solo sotto terra, ma in qualche modo anche al di sotto della nostra coscienza. È il complesso di colpa che non vogliamo riconoscere. Sepolto sotto le rovine, in mezzo ai cadaveri degli ebrei, «il non circonciso» ha paura di venir annoverato tra gli assassini. È la paura della condanna, la paura dell’inferno, allora! La paura di un Non-Ebreo che guarda crollare il ghetto. Lui si immagina di poter morire anche lui e di apparire un «aiutante della morte» agli occhi della talpa che legge le ceneri. […] Quindi in quel cristiano c’è la paura di condividere la sorte riservata agli ebrei, ma anche la paura, da lui «cifrata», messa in sordina, di essere condannato. Ma da chi? Dagli uomini? Ma se non ce ne sono più? È la talpa a condannarlo o meglio che lo potrebbe condannare, la talpa che vede così bene e che conosce «il Libro della Specie». È appunto la coscienza morale a condannare (o meglio a poter condannare) il povero cristiano. E lui vorrebbe nascondersi da quella talpa-coscienza, perché non sa cosa dirle. Miłosz, a cui è stato chiesto di spiegare il significato di quella talpa, ha evitato di rispondere, dicendo di non aver scritto «programmaticamente» quella poesia. Tanto meglio: la sua poesia è perciò manifestazione diretta del terrore, un terrore che – come accade nei sogni e nell’arte – genera immagini. Essa mette in rilievo quello che non è del tutto comprensibile, che c’è stato e forse è ancora rimasto dentro gli uomini, certo anche nel poeta, ma in una forma oscura, offuscata, smorzata. Leggendo con attenzione questa poesia possiamo comprenderci meglio, perché ci troviamo di fronte a ciò che non è chiaro. Ho completato un po’, commentato il Povero cristiano, come ogni lettore].30

La talpa è un piccolo animale che torna frequentemente nell’opera di Miłosz. Rappresenta anche il nostro inconsapevole vivere nel ventre del Leviatano, costituito dalla metropoli, dalla società, dalla civiltà moderna:

Żyjemy wewnątrz i nie ma na to rady, tak jak krety poruszają się pewnie pod ziemią, natomiast powietrze zewnątrz, gdzie świeci słońce i śpiewają ptaki, jest dla nich obcym żywiołem. […] żyjemy we wnętrzu Lewiatana, do którego stosują się nazwy: miasto, społeczeństwo, cywilizacja, epoka czyli wszelkie słowa dotyczące międzyludzkich działań.31

[Come le talpe si muovono sicure sotto terra mentre l’aria di fuori, dove splende il sole e cinguettano gli uccellini, è per esse un elemento estraneo così anche noi viviamo dentro e non c’è niente da fare. […] viviamo dentro un Leviatano a indicare il quale si adoperano nomi quali città, società, civiltà, epoca, ossia qualunque parola si riferisca all’interazione fra gli uomini].32

O anche per guardare il mondo con i loro occhi, una visione straniata, infantile, ingenua, ma più autentica della realtà:

Gdybym miał przedstawić czym jest dla mnie świat
wziąłbym chomika albo jeża albo kreta,
posadziłbym go na fotelu wieczorem w teatrze
i przytykając ucho do mokrego pyszczka
słuchałbym co mówi o świetle reflektorów,
dźwiękach muzyki i ruchach baletu.33

[Se dovessi raffigurare ciò che per me è il Mondo
Prenderei un criceto, un castoro o una talpa,
lo farei accomodare su una poltrona a teatro
e accostando l’orecchio al musetto umido
ascolterei ciò che dice sulla luce, i riflettori
la musica e i passi del balletto].34

È come dire che si può rappresentare la realtà solo oltrepassando lo spesso strato del noto e dello scontato, ricorrendo anche a una visione da «favola zoologica». La lanterna rossa della talpa-guardiano rievoca infatti certi stilemi della letteratura dell’infanzia tra Otto e Novecento, in cui il mondo della natura si presenta come una divertente replica di quello umano. La talpa compare infatti in vari classici dell’infanzia tra Otto e Novecento,35 tra cui un libro tanto caro non solo a Miłosz bambino, Gucio zaczarowany (Gustavino incantato, 1884) di Zofia Urbanowska, ma anche al Miłosz poeta, cui ispirerà l’omonimo poema appena citato. Il giovanissimo protagonista della Urbanowska viene trasformato in mosca: tra le sue prime esperienze c’è la visita negli «appartamenti» di una talpa, benigna «aiutante del contadino» oltre che custode dei misteri sotterranei.36 Queste associazioni e richiami permettono al poeta polacco di descrivere non realisticamente l’orrore, instaurando una minore distanza emotiva, mitigando la fredda analiticità della Canzone sulla fine del mondo e di Campo dei Fiori.

Questa modulazione dell’apocalittico in grottesco è già un’esperienza novecentesca, caratteristica di un altro autore particolarmente significativo per il poeta polacco (e in seguito per molti altri poeti della sua terra): T. S. Eliot.37 La lettura dei suoi Collected poems lo accompagnerà intensamente tra la primavera del 1943, durante la rivolta e la repressione del ghetto, fino allo scoppio l’insurrezione di Varsavia, nell’agosto 1944, In questo tempo si dedicherà alla traduzione integrale della Waste Land, la prima in Polonia, che uscirà sulla rivista «Twórczość» nel 1946. Dopo il progetto non andato in porto nel 1945 di un’antologia poetica di lingua inglese (in cui avrebbe dovuto presentare il poeta accanto a Milton, Blake e Browning), Miłosz tradurrà in seguito anche vari altri testi eliotiani: Gerontion, The Hollow men, Burt Norton, Journey of the Magi.

La terra desolata è stata definita da Miłosz una «tragedia grottesca»38 e «un poema sulle rovine, in gran misura satirico sullo stato disperato della civiltà occidentale».39 Come ricorda in Rodzinna Europa [Europa familiare], la sua lettura si svolse nella terribile Varsavia degli anni di guerra:

Bełkot emocjonalny, wówczas powszechny, zawstydzał mnie i robiłem sobie wyrzuty, ile razy zdarzyło mi się napisać coś, co mogłoby schlebiać ludziom czekającym takiego właśnie bełkotu. Dlatego mam odrazę do paru moich wierszy, które zdobyły sobie w okupowanej Warszawie popularność. Nie wcześniej niż po upływie trzech lat zacząłem się «dokopywać» do głębszych pokładów, w czym sporo pomagały rozmyślania nad poezją angielską. O naśladownictwie nie mogło być mowy ze względu na całkowitą różność doświadczeń i na przykład Ziemia jałowa T. S. Eliota, czytana wtedy, kiedy nad miastem stała łuna palącego się getta, była z lekka niesamowitą lekturą. Rodzinna Europa [Europa familiare].40

[Provavo vergogna per quel farfuglio emotivo allora così diffuso e sentivo rimorso ogni qual volta mi capitava di scrivere qualcosa che si accattivasse chi si attendeva appunto qualcosa del genere. Per questo provo repulsione per alcune mie poesie divenute popolari nella Varsavia occupata. Nei tre anni successivi avrei però «scavato» in strati più profondi: in questo mi furono di grande aiuto le mie meditazioni sulla poesia inglese. L’assoluta diversità di esperienze impedì che fosse pura imitazione: così la lettura della Terra desolata di T. S. Eliot, quando sulla città si levavano i bagliori del ghetto in fiamme, fu davvero un’esperienza unica].41

Secondo un’interpretazione di Miłosz dei tardi anni Quaranta, Eliot aveva permesso di affrancarsi dalle impasses dell’estetismo, imponendo una nuova concezione ritmica, non melodica, del verso. Abbandonando una dimensione troppo individualistica e lirica, aveva restituito alla poesia una vis intellettuale e al simbolo una nuova potenzialità.42

Una cosa altrettanto interessante è che nel poema eliotiano compaiono elementi affini al Povero cristiano, come lo smembramento dei corpi, rappresentato da ossa bianche smosse da un viscido ratto. Accade nella II parte, A game of chess:

I think that we are in rat’s alley
here the dead man lost their bones

e nella III, The fire sermon, in cui il Re Pescatore sente alle sue spalle un viscido ratto che sposta le ossa:

But at my back in a cold blast I hear
The rattle of the bones, and chuckle spread from ear to ear.
A rat crept softly through the vegetation
Dragging its slimy belly on the bank
[…]
White bodies naked on the low damp ground
And bones cast in a little low dry garret,
Rattled by the rat’s foot only, year to year.43

Anche qui ci sono le ossa e l’animale impuro. Se in Eliot le prime sono una probabile reminiscenza degli orrori della Prima guerra mondiale,44 in Miłosz divengono un elemento metonimico dell’Olocausto. Il ratto, creatura particolarmente repellente su cui si è modellato un certo stereotipo antisemita (presente del resto anche nell’eliotiano Burbank with a Baedecker: Bleistein with a Cigar),45 si trasforma invece in una creatura ctonia, la talpa. Essa si può associare bene sia con i sepolti sommariamente, sia con i sopravvissuti rifugiatisi nelle cantine o nelle fogne del settore «ariano» di Varsavia.

Un altro elemento comune alla Terra desolata e a Un povero cristiano guarda il ghetto è la divisione in Ebrei e Gentili: in Miłosz la distinzione in circoncisi e non circoncisi implica una logica di colpa e punizione del Giudizio post mortem («I policzy mnie między pomocników śmierci: /Nieobrzezanych» [«Ed egli mi conterà fra gli aiutanti della morte: /I non circoncisi»], mentre nella IV parte della Terra desolata la differenziazione fra «Gentle» e «Jew» sembra venir rarefatta nella prospettiva del destino comune della morte, mutuando i toni della trattatistica cristiana del memento mori:46

Death by water
Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep seas swell
And the profit and loss.
A current under sea
Picked his bones in whispers. As he rose and fell
He passed the stages of his age and youth
Entering the whirlpool.
Gentile or Jew
O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.47

3. La rigenerazione

Nella Waste Land, che pur è articolata attorno al tema antropologico della morte e rigenerazione, è assente la speranza di ogni ricomposizione e le ossa spostate qua e là dal ratto rimangono solo inquietanti segni di morte.48 Diverso è per la poesia di Miłosz, in cui accanto alle ossa appaiono anche organi vitali e non macabri: polmoni e fegato, misteriosamente ricoperti di insetti. La stessa definizione della talpa come patriarca ci autorizza a cercare ancora una volta modelli anticotestamentari, quali ad es. la celebre profezia di Ezechiele sulle ossa inaridite (37: 1-14),49 dove le ossa sparse in un’intera valle si ricoprono di nervi e pelle, resuscitando sotto gli occhi del profeta. Va ricordato che proprio questa visione ha conosciuto un’intensa fortuna prima in ambito sionistico, poi come profezia della Shoah e quindi come mito fondatore dello Stato d’Israele. Anche nell’ultimo poema visionario di Blake, Jerusalem (cap. II, vv. 40-57), appaiono organi sparsi del corpo:

The golden Gate of Havilah, and all the Garden of God,
The vegetating Cities are burned & consumed from the Earth.
And the Bodies in which all Animals & Vegetations, the Earth & Heaven,
Were contain’d in All Glorious Imagination are wither’d & darken’d:
The golden Gate of Havilah, and all the Garden of God,
Was caught up with the Sun in one day of fury and war:
The Lungs, the Heart, the Liver, shrunk away far distant from Man
And left a little slimy substance floating upon the tides.50

La dispersione degli organi vitali è la conseguenza dell’indebolirsi delle potenzialità spirituali. Per Blake tuttavia è ben possibile una rigenerazione, grazie all’armonia di spiritual regions cui corrispondono anche a organi vitali del corpo: Bowlahoola, che presiede a stomaco, polmoni e cuore, e che è anche simbolo della Creative imagination, e Allamanda, che corrisponde al sistema neurovegetativo. Tra le molteplici funzioni del primo è il ricreare corpi per le Wandering souls.51

Si può così anche intravedere come gli insetti che ricoprono fegato e polmoni non debbano essere necessariamente un macabro indizio di morte, ma possano erigersi a simbolo di vita. Formiche e api, legate alla teoria della generazione spontanea risalente all’antichità, ma ancora vigente fino agli inizi del XIX sec.,52 sono state per questo chiamate «figlie della morte». Fonte di teologi e naturalisti erano un passo del Libro dei Giudici (14, 6-8), in cui si narrava come delle api avessero prodotto del miele dentro la carogna di un leone ucciso da Sansone e un episodio assai simile delle Georgiche (IV, 528-558), in cui un loro sciame di api nasceva dalla carcassa di un bue.53

Questa interpretazione mi sembra confortata dalla presenza di api e formiche nel ritornello del Povero cristiano, che oltretutto viene riportato in corsivo, come esterno alla «narrazione» stessa («Le api ricoprono il fegato rosso, / le formiche ricoprono l’osso nero […] / Le api ricoprono il favo dei polmoni, / le formiche ricoprono l’osso bianco […] / Le api ricoprono la traccia rossa, / le formiche ricoprono il posto lasciato dal mio corpo»). Artur Sandauer ha interpretato in maniera molto azzardata questo simbolo, come metafora degli «sciacalli» che durante la guerra depredavano i morti.54 In realtà Miłosz in questo periodo ha piuttosto paragonato a formiche calpestate le vittime dell’occupazione.55 Mi pare perciò plausibile un’interpretazione di segno diverso, connessa con il ciclo vitale e cieco della natura. L’immagine delle ossa sparpagliate, tragicamente attuale nel 1943, accostata a quella mutuata dalla Bibbia e dall’Antichità degli insetti che nascono da membra umane, permetteva di mettere in risalto l’indifferenza dei meccanismi di distruzione e rigenerazione della Natura. In essa è anche possibile intravedere una speranza di riscatto e resurrezione (cosa che accade in maniera molto più retorica in Campo dei Fiori, con il richiamo a una futura rivolta scatenata dalla «parola di un poeta», probabilmente ebreo). I processi naturali, per quanto fisicamente raccapriccianti, promettono una rigenerazione che la Storia non garantisce. Il «Giudizio» della talpa patriarca potrebbe perciò premettere a un processo di rinascita delle vittime e di dannazione dei testimoni, da essa considerati «aiutanti» della morte. Non va dimenticato che nel ciclo della cappella del Signorelli tanto amato da Miłosz c’è un glorioso finale, la Resurrezione della carne, in cui gli scheletri dei morti si trasformano in corpi di uomini giovani e maestosi.

La salvezza e la rinascita sono temi cari al poeta polacco fin dai suoi inizi. Nell’interpretazione che ne dà Miłosz l’Apocalisse o la Resurrezione sono per Blake «misteri connessi con la fine del tempo, ma non con la morte. Ogni qualvolta un Individuo Respinga l’Errore e Abbracci la Verità, è sottoposto a un Giudizio Universale».56

Tutto questo si manifesta nella variante della metastoria, che pone sul piatto della bilancia «il sangue dei martiri» e «ottiene soddisfazione», ben diversamente che nella testimonianza di Ocalony (Superstite) di Tadeusz Różewicz: «Widziałem / Furgony porąbanych ludzi / Którzy nie zostaną zbawieni» («Ho visto / Furgoni di uomini fatti a pezzi / Che non saranno redenti»).57

È chiaro che la struttura del Povero cristiano guarda il ghetto accoglie la lezione eliotiana di una poesia palinsesto che recepisce e stratifica miti, testi e immagini provenienti dalle più varie culture, comunicando con il lettore, non direttamente, ma attraverso degli objective correlatives: «invece di dire ciò che sente o pensa, mostra […] insiemi di oggetti associati a determinate esperienze».58 Questo procedimento è presente anche nel Povero cristiano guarda il ghetto.

Dal baratro della Varsavia occupata Miłosz propone una poesia che salva i sommersi e accusa i testimoni, ma che – conformemente al proponimento elaborato nel 1944 insieme a Adolf Rudnicki – respinge ogni tentazione di nichilismo e ogni «spirito assolutamente negativo».59

Note

1 Cz. Miłosz, Słowo wstępne do tłum. Apokalipsy, in Ewangelia według Marka – Apokalipsa, Editions du dialogue, Paris 1984, p. 8.

2 Si veda la lunga intervista rilasciata a Renata Gostyńska e da lei pubblicata all’estero nei primi anni Ottanta con lo pseudonimo di Ewa Czarnecka: Podróżny świata, Rozmowy z Czesławem Miłoszem, Bicentennal Publishing Corporation, New York 1983, p. 64.

3 Ivi, p. 61.

4 Cz. Miłosz, O milczeniu, «Ateneum», 1938, ristampato in Id., Przygody młodego umysłu. Publicystyka i proza 1931-1939, Znak, Kraków 2003, pp. 199-207.

5 Cz. Miłosz, Poesie, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1983, p. 35. L’originale si trova in Id., Wiersze wszystkie, Kraków, Znak 2011, p. 206.

6 Ivi, pp. 32-33. L’originale si trova in Cz. Miłosz, Wiersze wszystkie, cit., pp. 192-194.

7 Si veda come in filastrocca nei Canti di Adrian Zieliński venga di nuovo trattato il motivo del Luna park di fronte al Ghetto di Varsavia: «Na placyku brzęczy karuzela, / Na ulicy ktoś do kogoś strzela» [«Sulla piazza la giostra ronza / Spari per strada di qualcuno a chissà chi»], in Wiersze wszystkie, cit., p. 216.

8 W. H. Auden, Musée des Beaux Arts, in Collected Poems, ed. E. Mendelson, Random House, New York 1976, p. 179.

9 Cz. Miłosz, Poesie, cit., p. 37. L’originale si trova in Wiersze wszystkie,cit., pp. 211-212.

10 E. Czarnecka, Podróżny świata, Rozmowy z Czesławem Miłoszem, cit., p. 63. Miłosz si riferisce probabilmente al poeta e narratore Tadeusz Borowski, detenuto politico ad Auschwitz e poi sostenitore accanito del regime stalinista in Polonia, cui aveva dedicato un capitolo assai polemico del suo Zniezwolony umysł [La mente prigioniera, Adelphi, Milano 1999, pp. 141-166).

11 Ivi.

13 N. Gross, Dzieje jednego wiersza, in Poeci i Szoa. Obraz zagłady Żydów w poezji polskiej, Offmax, Sosnowiec 1993, pp. 84 e 94.

13 Va ricordato che nelle sue letture di poesia negli Stati Uniti, in cui ha vissuto per decenni, Miłosz ha scelto di non leggere i propri testi sulla Shoah: «Nie czytam tych wierszy na wieczorach autorskich w Ameryce z powodu powszechnej opinii, że Polacy są wszyscy antysemitami. Czytanie tych wierszy jest w pewnym sensie samograjem». [«Non leggo quelle poesie alle serate di poesie in America a causa dell’opinione diffusa che tutti i polacchi siano antisemiti. Leggerle sarebbe in un certo senso cercare un consenso del pubblico con mezzi facili».] Lo ricorda nel dialogo a quattro con M. Edelman e altri due intellettuali fondamentali per il dibattito sull’antisemitismo in Polonia (Cz. Miłosz, M. Edelman, J. Błoński, J. Turowicz, Ludzkość, która zostaje, in «Tygodnik Powszechny», 01-05-2005.

14 Cz. Miłosz, Wiersze wszystkie, cit., p. 216.

15 Salmo 21, 15-18: «sicut aqua effusus sum et dispersa sunt universa ossa mea factum est cor meum tamquam cera liquescens in medio ventris mei / […] et in limum mortis deduxisti me […] / dinumeraverunt omnia ossa mea ipsi» (grassetto di G.T.), Wikisource.

16 Salmo 140, 7, «Sicut crassitudo terrae erupta est super terram dissipata sunt ossa nostra secus infernum» (grassetto di G.T.), Wikisource.

17 Sermo 33 A, 3, Si enim in ista vita ideo nihil diu, quia est aliquid extremum, non ad istam vitam desiderandam: «[…] Videt hoc christianus pauper, ignobilis, in gemitibus cotidiano labore suspirans, et dicit forte apud semet ipsum: Quid mihi prodest, quia christianus sum factus? Numquid ideo melior sum quam ille qui non est, quam ille qui in Christum non credit, quam ille qui Deum meum blasphemat? […] Attendebat enim forte christianus pauper, humilis, in pagano forte divite ac potenti, attendebat florem faeni, et eligebat eum fortasse patronum habere magis quam Deum. […] Transeant aliquot anni. Moveatur fluvius, sicut fieri solet, per diversa transcurrens aliqua sepulcra mortuorum. Discerne ossa divitis ab ossibus pauperis».

18 A. Sandauer, O sytuacji pisarza polskiego pochodzenia żydowskiego w XX wieku, Czytelnik, Warszawa 1982, pp. 44-45.

19 Viene in mente ancora la lucida analisi del sistema concentrazionario come gigantesca e macabra catena di montaggio del già citato Tadeusz Borowsk, in particolare il racconto Da noi, ad Auschwitz in Da questa parte per il gas, a cura di Giovanna Tomassucci, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2009, pp. 47-95. Sul motivo della forza distruttrice e rigeneratrice della natura, tanto presente nel pensiero di Miłosz, si veda invece l’interessante capitolo di A. Fiut, Natura devorans, natura devorata, in Moment wieczny: poezja Czesława Miłosza, Open, Warszawa 1993, in particolare alle pp. 61-67.

20 Cz. Miłosz, Wiersze wszystkie, cit., p. 425. Nel corso della stesura di questo testo il Trattato poetico è apparso in italiano nella traduzione di V. Rossella (Adelphi, Milano 2012).

21 E. Czarnecka, Podróżny świata, cit., p 66.

22 Ivi, p. 64.

23 Cz. Miłosz, Wiersze wszystkie, cit., p. 569.

24 E. Czarnecka, Podróżny świata, cit., p. 65. Cfr. le osservazioni dell’autore su Campo de Fiori nel già citato dibattito di Miłosz, Edelman, Błoński e J. Turowicz, Ludzkość, która zostaje, cit.: «Ten wiersz został wydarty jak i niektore inne wiersze pochodzące z moralnego oburzenia, gniewu, został wydarty ze mnie przez zbieg okoliczności» [«Quella poesia mi è stata strappata da dentro come altre che nascevano da un’indignazione morale, mi è stata strappata da dentro da una concatenazione di circostanze»].

25 N. Gross, Dzieje jednego wiersza, cit., p. 94.

26 E. Czarnecka, Podróżny świata, cit., pp. 64-65.

27 W. Blake, Complete Writings with Variant Readings, Geoffrey Keynes, London Oxford Un. Press, New York-Toronto 1969, p. 127.

28 Cz. Miłosz, Ziemia Ulro, Institut Literacki, Paryż 1985, p. 130 (La terra di Ulro, Adelphi Milano 2001, p. 197).

29 Cfr. S. Foster Damon, Morris Eaves, A Blake Dictionary: The Ideas and Symbols of William Blake, Un. Press New England, Hannover NH, 1988, p. 283.

30 J. Błoński, Biedni Polacy patrzą na getto, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1994, pp. 16-17.

31 Cz. Miłosz, Piesek przydróżny, Kraków, Znak 1997, p. 306.

32 Id., Il cagnolino lungo la strada, a cura di Andrea Ceccarelli, Adelphi, Milano 2002, p. 350.

33 Id., Po ziemi naszej [Lungo la nostra terra, 1961] dalla raccolta Król Popiel [Re Popiel, 1962], in Wiersze wszystkie, cit., p. 509.

34 Cfr. Id., Gucio zaczarowany [Gustavino incantato, 1962]: «Nosiłem pióra, jedwab, żaboty i zbroje, / Suknie kobiece, zlizywałem róż. / […] / Stukałem w drzwi zamknięte sal bobra i kreta./ Niemożliwe żeby tyle głosów nie zapisanych/Między tubą pasty do zębów i zardzewiałą żyletką» [«Ho indossato piume, sete, jabots e armature / Abiti di donna, ho leccato belletti / […] / Bussato alla porta chiusa delle sale di castori e talpe. /Incredibile quante voci non scritte /ci siano tra un tubetto di dentifricio e una lametta arrugginita»]. Ivi, p. 521: la traduzione in italiano di entrambi i frammenti poetici è mia.

35 Cfr. i classici per l’infanzia The House of Ardens (1908) di Edith Nesbit e The Wind in the Willows (1908) di Kenneth Grahame.

36 L’edizione da me consultata è Z. Urbanowska, Gucio zaczarowany, Wydawnictwo Officyna, Łódź 2010, pp. 42-44.

37 «I niewątpliwie, niewątpliwie T. S. Eliot znaczył dla mnie bardzo wiele» [«E senz’alcun dubbio T. S. Eliot ha significato molto per me»] ha dichiarato Miłosz a Brodskij, Rozmowa z Czesławem Miłoszem, «Zeszyty literackie», 3 [75] 2001, p. 59. Parte dell’intervista è apparsa in italiano su «La Repubblica», 4 12 2011, pp. 52-53). La fortuna di Eliot in Polonia risale agli anni Trenta con le prime traduzioni fatte da un caro amico di Miłosz, Józef Czechowicz, e i due saggi di Wacław Borowy T. S. Eliot jako krytyk literacki i teoretyk tradycji (1934-1935) e Wędrówka nowego Parsyfala. Poezje T. S. Eliota (1936), in W. Borowy, Studia i szkice literackie, ed. Z. Stefanowska e A. Paluchowski, v. 1, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1983, pp. 499-550. Sulle traduzioni di Eliot in polacco vedi J. Dudek, Główne wątki polskiej recepcji T.S. Eliota: od W. Borowego i Cz. Miłosza do Z. Herberta i T. Różewicza, in Granice wyobraźni,granice słowa. Studia z literatury porównawczej XX wieku, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2008, pp. 242-269, disponibile anche in web; di una certa utilità può essere anche la bibliografia stilata da J. Gronau, Wędrówki po bibliografii angielskiego (amerykańskiego) autora, Thomasa Stearnsa Eliota (Thomas Stearns Eliot) 1888 – 1965, nakład autora, Kraków 2007, pp. 129-142.

38 Cz. Miłosz, Pensieri su Eliot, in T. S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, Feltrinelli, Milano 1995, p. 11.

39 Josif Brodski, Rozmowa z Czesławem Miłoszem, cit.

40 Cz. Miłosz, Rodzinna Europa, Czytelnik, Warszawa 1998, p. 296.

41 Ho preferito una mia traduzione a quella esistente (La mia Europa, Adelphi, Milano 1985, pp. 285-286) che ne travisa il senso proprio nella parte finale.

42 Cz. Miłosz, Wprowadzenie w Amerykanów [Introduzione agli Americani, 1948], in Kontynenty, Znak, Kraków 1999, pp. 97-104.

43 T. S. Eliot, The Waste Land, in La terra desolata, a cura di A. Serpieri, Rizzoli, Milano 2006, pp. 110 e 118.

44 J. E. Miller, T. S. Eliot’s Personal Waste Land: Exorcism of the Demons, Penn State Press, University Park, Philadelphia 1977, pp. 91-92.

45 «The rats are underneath the piles / The Jew is underneath the lot». Ho consultato l’edizione bilingue T. S. Eliot, Poesie, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1961, p. 214.

46 Anche Jerusalem, l’ultimo poema visionario di Blake, è articolato del resto in tre parti rivolte a Cristiani, Ebrei e Deisti.

47 T. S. Eliot, The Waste Land, cit., p. 132.

48 N. Tiwari, Imagery and Symbolism in T. S. Eliot’s Poetry, Atlantic Pub., New Dehli 2001, p. 137.

49 «Facta est super me manus Domini et eduxit me in spiritu Domini et dimisit me in medio campi qui erat plenus ossibus et circumduxit me per ea in gyro erant autem multa valde super faciem campi siccaque vehementer et dixit ad me fili hominis putasne vivent ossa ista et dixi Domine Deus tu nosti et dixit ad me vaticinare de ossibus istis et dices eis ossa arida audite verbum Domini haec dicit Dominus Deus ossibus his ecce ego intromittam in vos spiritum et vivetis et dabo super vos nervos et succrescere faciam super vos carnes et superextendam in vobis cutem et dabo vobis spiritum et vivetis et scietis quia ego Dominus et prophetavi sicut praeceperat mihi factus est autem sonitus prophetante me et ecce commotio et accesserunt ossa ad ossa unumquodque ad iuncturam suam et vidi et ecce super ea nervi et carnes ascenderunt et extenta est in eis cutis desuper et spiritum non habebant et dixit ad me vaticinare ad spiritum va-ticinare fili hominis et dices ad spiritum haec dicit Dominus Deus a quattuor ventis veni spiritus et insufla super inter-fectos istos et revivescant et prophetavi sicut praeceperat mihi et ingressus est in ea spiritus et vixerunt steteruntque super pedes suos exercitus grandis nimis valde et dixit ad me fili hominis ossa haec universa domus Israhel est ipsi dicunt aruerunt ossa nostra et periit spes nostra et abscisi sumus propterea vaticinare et dices ad eos haec dicit Dominus Deus ecce ego aperiam tumulos vestros et educam vos de sepulchris vestris populus meus et inducam vos in terram Is-rahel et scietis quia ego Dominus cum aperuero sepulchra vestra et eduxero vos de tumulis vestris populus meuset ded-ero spiritum meum in vobis et vixeritis et requiescere vos faciam super humum vestram et scietis quia ego Dominus locutus sum et feci ait Dominus Deus», Wikisource.

50 W. Blake, Jerusalem, in Complete Writings, cit., p. 679 (plate 49).

51 S. Foster Damon, Morris Eaves, A Blake Dictionary, cit., p. 57; cfr. K. Hutchings, Imagining Nature: Blake’s Environmental Poetics, Mc Gill Queem’s Un. Press, Montréal-Ithaca 2002, pp. 198-199.

52 Cfr. la voce Bee nel sito The Medieval Bestiary

53 Liber Iudicum: «Inruit autem spiritus Domini in Samson et dilaceravit leonem quasi hedum in frusta concerperet nihil omnino habens in manu et hoc patri et matri noluit indicare […] et post aliquot dies revertens ut acciperet eam declinavit ut videret cadaver leonis et ecce examen apium in ore leonis erat ac favus mellis», Wikisource; Georgicae: «Hic vero subitum ac dictu mirabile monstrum / adspiciunt, liquefacta boum per viscera toto stridere apes utero et ruptis effervere costis, / immensasque trahi nubes, iamque arbore summa/confluere et lentis uvam demittere ramis», Wikisource.

54 «Oto żydowska dzielnica jest tylko kupą rumowisk plądrowana przez szabrowników, których […] przyrównuje poeta do […] mrówek i pszczół: człowiek niewiele się tu różni od owada» [«E il quartiere ebraico è solo un mucchio di rovine saccheggiato dagli sciacalli che il poeta paragona a formiche e api: l’uomo non è così diverso da un insetto»]. A. Sandauer, O sytuacji pisarza polskiego pochodzenia żydowskiego, cit., p. 44.

55 Cfr. Canti di Adrian Zieliński, in Cz. Miłosz, Wiersze wszystkie, cit., p. 217.

56 Cz. Miłosz, La terra di Ulro, cit., pp. 217-218, l’originale polacco si trova in Ziemia Ulro, cit., p. 144.

57 T. Różewicz, Ocalony, cito dalla bella edizione biligue Le parole sgomente: poesie 1947-2004, traduzione e cura di S. De Fanti, Metauro, Pesaro 2007, pp. 52-53.

58 Cz. Miłosz, Pensieri su Eliot, cit., p. 9.

59 A. Rudnicki, Piękna sztuka pisania (1945), p. 627, cit. in J. Sawicka, Adolf Rudnicki kronikarz «murów», «Kronika Warszawy», 2 (90), 1993.