Caduta libera? Valutazione, ricerca e disuguaglianze nell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica
Una riflessione a partire dal libro di Antonio Bisaccia, Burocrazzismo e arte
Alessandro Cadoni

«Gli insegnanti italiani sono bravissimi anche se sono tra i meno pagati d’Europa. Dunque perché pagarli di più? I giovani brillanti fanno la fila per insegnare senza remunerazione all’Università. Allora, perché spendere per dei risultati che si possono anche ottenere gratis?». Queste due affermazioni, se ci si pensa, equivalgono a due paradossi; il problema è che le domande susseguenti, anziché porre un interrogativo, inverano il paradosso in una cinica realtà dei fatti, ormai così consolidata che pare ovvio costatarne una strenua perseveranza: quella della scarsità di investimenti – e, nervo ben più dolente, di visione progettuale – nell’intero settore della formazione pubblica italiana.
I nodi d’una siffatta crisi sono ampiamente dibattuti e squadernati, in uno spettro che va, giusto per rimanere all’ambito aperto dal passo riportato all’inizio, dal trattamento economico dei docenti della formazione primaria e secondaria alla pervicace precarizzazione nella terziaria, laddove peraltro l’accesso ai ruoli non di rado passa per le forche caudine dello sfruttamento di giovani ricercatori.
Ma se sappiamo tutto, o quasi, sulla ricerca scientifica italiana, tra le meno incentivate dai finanziamenti pubblici in tutta Europa, o delle conseguenze funeste delle diverse riforme scolastiche, dai tagli della riforma Gelmini ai vacui tecnicismi della 107 (vulgo “la Buona scuola”), ai più sarà molto meno chiaro, se non addirittura sconosciuto, ciò che gira attorno a un altro settore dell’alta formazione, il cosiddetto comparto Afam. A questi argomenti è dedicato il volume di Antonio Bisaccia, Burocrazzismo e arte. Cronaca di un’equiparazione cosmetica nell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, recentemente uscito per i tipi di Castelvecchi, quantomai utile per porre fine alla suddetta ignoranza, o a questa sorta, chiamiamolo così, di inconsapevole oblio. A partire dalle sollecitazioni suscitate da questa lettura, propongo nelle pagine che seguono alcune riflessioni sullo stato delle istituzioni dell’alta formazione nel campo delle arti e, più in generale, sulla ricerca nel campo della creatività artistica.1
II. Doxa e luoghi comuni
Ho parlato, poc’anzi, di oblio: a chi veramente interessa, in effetti, ciò che si fa nei laboratori delle Accademie di Belle Arti o dentro le aule di Conservatorio, o in quelle di un’Accademia di arte drammatica? Per dire poi della scarsa consapevolezza comunemente diffusa, mi è capitato di sentirmi chiedere – insegno a contratto, da diversi anni, in una di queste istituzioni – se a frequentare questi corsi fossero giovani senza voglia di continuare gli studi universitari. Il mio interlocutore, che per inciso era anche un alto funzionario pubblico di un settore culturale, forse non sapeva che, dal 1999, una legge2 equipara artisti o musicisti diplomati ai laureati dell’Università; non lo sapeva, o forse non lo ricordava. Ma del resto, nonostante tale legge, pare non ricordarsene neppure il Legislatore stesso: come, con chiarezza e doviziosa analisi di codici e cavilli, dimostra il libro di Bisaccia.
In fondo, che importanza hanno queste istituzioni, dal momento che l’Italia, semplicemente nel suo Patrimonio, sembra già avere tutto? Non bastano Pompei o Venezia, o l’inesauribile filza di quadri lasciata in eredità dal Rinascimento? E non sono scritte in italiano, in omaggio a quella stessa tradizione cortense che ha inventato il teatro musicale, persino le più belle opere di Mozart? Queste, grosso modo, alcune delle domande da cui provocatoriamente parte Bisaccia, con l’obiettivo di demolire quei luoghi comuni che inquinano l’opinione pubblica, ben chiaro in mente, col Platone della Repubblica, che gnosis e doxa «abitano sfere di un approccio al mondo completamente differente» (Brz, p. 26). Si parta perciò dalla conoscenza, per la quale l’autore è mediatore indubbiamente informato, da docente di lungo corso nelle Accademie di Belle Arti e attualmente direttore di quella di Sassari, oltre che presidente della Conferenza nazionale dei direttori delle Accademie di Belle Arti. L’esercizio di queste funzioni non è però svolto soltanto in sede di politica istituzionale, se è vero che la pubblicazione di Burocrazzismo e arte suggella un percorso di stampo militante, già visibile ad esempio in una lunga serie di articoli apparsi nella sezione scuola del «Sole 24Ore», nei quali si trattava con precisione chirurgica e chiarezza divulgativa lo stato dell’arte dell’Afam, tra anamnesi delle criticità e proposte di risanamento.
Ma torniamo alla questione dei luoghi comuni. Il primo, inveterato e spesso fatto retoricamente passare come indiscutibile, è quello dei tagli o, peggio ancora, della spesa zero: «Per motivi non ancora completamente chiariti dagli studiosi più accreditati – si legge, non senza quell’ironia che rende la disamina critica più efficace –, i settori della cultura e dell’educazione […] sembrano prestarsi particolarmente alle “riforme a spesa zero”» (Brz, p. 107). Di contro si propone una visione economica limpida, che ottempera a una concezione etica del dono, attraverso la quale competenze e saperi vengono scambiati secondo un sistema di equità e naturalezza. In questo modo si giunge alla condanna piena della retorica iperliberista del taglio di spesa, già peraltro avversata da ogni forma di keynesismo. Eppure, laddove non si può che costatare con amarezza il trionfo di questa retorica, è necessario rinvangare questioni così vecchie, ma ancora così attuali che, anche solo a parlarne, ci si sente come strozzati da un magone. Poiché in tale discorso – rituale trito – si fa sempre dell’istruzione
III. Afam e Università: «l’equiparazione cosmetica»
A emergere pienamente da queste considerazioni è la mutilazione comune a tutto il settore dell’istruzione. Al di là di questo dato di fatto, lungi da tentazioni vittimistiche o dal voler intentare una guerra tra poveri (tra poveri e un po’ meno poveri, per la verità), è però necessario porre l’accento sul grave squilibrio esistente nell’alta formazione italiana. Questa, detta sbrigativamente, è la tesi di fondo da cui parte Bisaccia, e il tema carsico che scorre lungo tutti i quindici capitoli del suo libro: la paventata – e lungamente reclamata – equiparazione tra l’Università e i Conservatori e le Accademie statali pare di fatto essere rimasta sulla carta. Lo nota anche un osservatore d’eccezione che a questo volume ha consegnato alcune considerazioni in forma di prefazione, Tomaso Montanari, il quale afferma di condividere moltissime delle istanze che Bisaccia, a nome di tutto il settore, avanza: «la parità di retribuzione con i docenti universitari, la partecipazione ai progetti di ricerca nazionali […] e in generale tutto ciò che porti ad una vera parità con l’università» (Brz, pp. 7-8). Parità che sarebbe stata sancita dalla già citata legge di riforma, la 508/99. Ma si tratta, rileva Bisaccia, d’un equiparazione cosmetica, superficiale, incapace di nascondere una serie di inique differenze. I motivi sono tanti e di vario ordine, ascrivibili alla sordità o alla lenta ricezione delle istanze di cambiamento da parte della politica, e soprattutto all’inerzia delle routine burocratiche, cieco ostacolo per il processo di tale cambiamento: da qui nasce il neologismo del titolo, burocrazzismo.
Burocrazia, è detto da subito è una parola capace di accendere «i nostri sensi più reconditi e […] di generare tossine di anticivismo» (Brz, p. 19). Eppure, spinto dal dovere di adempiere al suo doppio ruolo di rappresentante delle istituzioni e insieme di critico del sistema che le genera, l’autore non ha alcuna remora a ingaggiare con essa un corpo a corpo, commentando uno per uno cavilli, articoli, commi, norme e decreti affastellatisi nel corso degli anni. Il nodo critico è esposto con chiarezza:
IV. La lunga distanza
A proposito di tempo che scorre, capitolo dopo capitolo, tema dopo tema, l’argomentazione di Bisaccia assomiglia un po’ a un diario, scritto dall’interno di un’istituzione che, senza una necessaria e ormai improcrastinabile attenzione, rischia di sprofondare; un diario, peraltro, compilato lungo tutto il 2020, anno in cui, al pari d’ogni altro settore didattico o di ricerca, le Afam hanno dovuto fare i conti con tutto ciò che la pandemia ha comportato. A tale tema sono dedicate numerose pagine, tra le più interessanti del libro, vissute dall’interno, giorno per giorno, e restituite con una vis battagliera e al contempo propositiva. Si pone da principio un dato fondamentale: se è vero che distanza fisica – ma sarebbe meglio dire assenza, aule vuote –, didattica a distanza, eccesso di dati fluttuanti e faticose giornate spese di fronte a un monitor sono ferite tuttora aperte per tutti, lo è anche che a soffrirne di più è forse proprio l’esperienza quotidiana della formazione artistica. Fermiamoci un momento sul dato del distanziamento – definito anti-sociale, nel rigetto di edulcoranti ambiguità lessicali e burocratizzanti – col quale ha dovuto fare i conti chiunque abbia una qualsiasi frequentazione col mondo delle scuole, raccogliendo magari esperienze e idee, sempre però incorse in frustrazioni inevitabili, e inevitabilmente raddoppiate nella didattica della pratica creativa o esecutiva. Sarà forse ovvio, ma non fa male ricordare che «non si può né suonare, né disegnare o dipingere o scolpire senza l’uso del corpo – e senza una persona accanto che indica l’appropriato uso del corpo […]. Nonostante gli sforzi immani fatti, l’Afam è particolarmente danneggiata dalla didattica a distanza» (Brz, p. 104). Non aiutano di sicuro i calcoli, a volte astrusi, che preordinano metri quadri necessari a ogni alunno, ridisegnano planimetrie vòlte a immaginare spazi per fronteggiare l’emergenza pandemica, dimentiche magari di muri divisori e portanti. Né tantomeno aiutano se si conta che le linee guida ufficiali tendono sempre a guardare a situazioni, finanche laboratoriali, che non tengono conto di quanto appena detto, cioè delle esigenze dei corpi nella pratica creativa. Nuovi danni si accumulano allora al vecchio oblio, se pure è vero – problema noto, peraltro, al mondo della formazione primaria e secondaria – che in accademie e conservatori già esisteva una crisi degli spazi indispensabili per attività coreutiche e drammatiche o per laboratori di scultura o musica d’insieme.
Per chiudere il discorso, ritengo doverosa una puntualizzazione: al contrario, senz’altro avranno aiutato e aiuteranno i fondi pubblici distribuiti in qualità di contributi alla digitalizzazione; ma deve allo stesso modo aiutare – meglio sarebbe dire: mostrare la strada – la pratica dialettica di insegnamento-apprendimento tipica delle Afam. Di fronte alle sirene d’una didattica che, con la scusa del modello blended, rischia di rimanere un po’ troppo affezionata alla distanza anche al di là dell’eccezionalità pandemica, i corpi creanti degli studenti di conservatori e accademie ricordino l’insostituibilità della presenza.
V. Totalitarismo soft: valutazione, merito, controllo
Se anche il problema degli spazi fosse risolto, ne rimarrebbe un altro, forse il più grande di tutti, quello del reclutamento dei docenti, per i quali non è mai partito un serio progetto per il ricambio né per le nuove assunzioni. L’organico Afam è infatti fermo da troppi anni – «colpevolmente bloccato da un quarto di secolo» –, le cattedre sono affidate a personale in gran parte precario, legato a rinnovi annuali o pluriennali, ma senza certezze a lungo termine, per non parlare dei contrattisti pagati per un determinato numero di ore di docenza: un vero e proprio esercito senza alcun potere contrattuale, inserito «dentro una macchina da caporalato di alto profilo intellettuale» (Brz, p. 12). A rincarare la dose, poi, il fatto che la recente legge sul reclutamento, datata 2019, faccia acqua da tutte le parti. Per porre rimedio Bisaccia auspica la creazione di un’abilitazione artistica nazionale – altro discrimine tra Università e Afam – che eviti però quelle storture proprie dell’abilitazione scientifica nazionale, piegata alla retorica iper-classificatoria, spesso velata di ipocrisia, del merito.
A questo proposito mi torna in mente un libro di Nicola Da Neckir dal titolo emblematico Contro la meritocrazia,3 nel quale tempestivamente erano inquadrate certe aberrazioni dell’allora appena varata Riforma Gelmini. In quel volume, e in questo di Bisaccia, sono riprese le tesi classiche di Michael Young, attraverso le quali si fa il punto sui “rovesci” della meritocrazia, equivalenza burocratizzata d’un principio di qualità, artistico o scientifico che sia, a cui è opportunamente opposto il concetto di meritorietà, intesa come un incrocio di oggettività e sensibilità, in grado di valicare i limiti di quel totalitarismo soft derivato da una società che, con la scusa della costruzione delle opinioni (della valutazione appunto) e della loro somma in funzione del miglioramento d’un qualsiasi servizio, rafforza la sua tendenza a diventare sempre più un panopticon fluido, quieto ma onnipresente, come l’inquietante colombre di Dino Buzzati: «anche se tutte queste valutazioni – si legge – fossero assolutamente “oneste” non cambierebbe niente nell’essenziale: essere eternamente sotto gli sguardi degli altri, trovarsi inseriti in una classificazione sempre cangiante, ricevere “punti” per ogni nostra azione è una forma di “seducente” totalitarismo soft dalle grandi braccia avvolgenti» (Brz, p. 118). Ecco, se l’orizzonte che da simili parole si prospetta non è proprio il sistema di credito sociale che invale in Cina, poco ci manca; seguendo uno spunto di Valeria Pinto, penso a Caduta libera, il primo episodio della terza serie di Black Mirror, protagonista una donna letteralmente sommersa nel tentativo di accrescere la propria popolarità all’interno di un social network onnipresente, pervasivo, aggiornato di attimo in attimo: semplicemente puntando il cellulare verso chi è nelle vicinanze appare una sorta di ologramma che si sovrappone ai volti attraverso un chip – così si intuisce – installato negli occhi delle persone; il tutto è incentrato su una valutazione del profilo personale immediatamente visibile a chiunque, e da chiunque si incroci quotidianamente influenzata attraverso una specie di immediato like: e in grado, tale valutazione, di determinare l’accesso e la fruibilità dei migliori servizi a chi più si avvicina alle agognate cinque stelle.
Dall’incrocio tra realtà e cupe distopie audiovisive pare esali l’odore vago, acre, di quel totalitarsimo soft di cui poco sopra s’è detto, di quel controllo esercitato sugli individui liberi attraverso la loro stessa libertà (di controllare, di valutare, di ricercare).
Ma le strade perverse della valutazione sono solo un aspetto di tale totalitarismo, che è poi la veste sobria delle società neoliberali. Tutto nasce, come ancora Pinto mostra nel suo fondamentale Valutare e punire, in anni remoti, quasi mezzo secolo fa. E proprio in quel decennio, gli anni Settanta, Cesare Cases affrontava simili questioni, attraverso alcuni formidabili racconti satirici. In uno, intitolato Due gatti accademici, con fantasia kafkiana immaginava un portentoso cervello elettronico capace di assimilare in un istante migliaia di pagine di nozioni teorico-critiche e di letteratura primaria, restituendo subito dopo saggi critici inattaccabili e pronti all’usp. Il ricercatore che avesse fatto uso di tale macchina era destinato a superare col massimo dei voti i rigidi steccati di valutazione per accedere ai più alti ruoli universitari. Peccato che adoperare questo calcolatore – chiamato Acadèmo – fosse molto costoso: ma che c’è di male se «la carriera [universitaria] era stata affidata a un criterio […] sicuro e obbiettivo [come …] il censo»?4
Sempre Cases, in un altro scritto epocale intitolato Il poeta e la figlia del macellaio, aveva parlato di logotecnocrazia, neologismo icastico, eloquente. La linea, al momento, pare non tanto diversa: quella di un sistema appoggiato a codici – intesi insieme come leggi e come sistemi di comunicazione – burocratizzanti, vacui ma pervasivi: dove alla sostanza, alle azioni, ai rapporti complessi propri di ogni dialettica educativa e formativa si vorrebbe sostituire un processo linguistico infarcito di tecnicismi, tristemente ecolalico, concluso nella propria vacuità. A tal proposito ben calza un passo tratto dalla prefazione di Montanari, rapida quanto significativa. Da docente universitario radicalmente critico dell’Università attuale, Montanari, con Bisaccia, reclama equità per le scuole Afam: sarebbe però un disastro se esse confluissero tout court dentro l’Università (come peraltro accade in altri sistemi europei). Per quale ragione, proviamo qui a ipotizzarlo, appoggiandoci a quanto scrive Valeria Pinto sul processo di eradicazione della figura e delle funzioni di insegnanti o ricercatori: «Affinché esso si realizzi in modo effettivo e irreversibile è necessario che lo si faccia muovere dall’interno, che a portarlo a compimento siano proprio le figure più riuscite e riconosciute, quelle professionalmente più responsabili: bisogna, in altri termini, che siano gli accademici di professione a de-professionalizzare l’accademia, a de-universalizzare l’universitas».5 Si potrebbe altrimenti dire che l’università è l’alfiere eletto – e finanziato – di un silenzioso processo neoliberale e tecnocratico, nel quale la valutazione e l’apprendimento – il famigerato saper fare: pardon, skills – che prevarica sull’insegnamento sono le azioni mirate al perfezionamento di una società nella quale la svalutazione delle idee, tramutate in imprese (la dittatura della startup!), e il controllo soft sono pratiche precise di governamentalità.
VI. Ricercar, für ewig
Chiudiamo sulle pagine centrali di Burocrazzismo e arte, quelle che forse più dovrebbero darci da riflettere, dedicate a un tema cruciale, quello su cui si apre la vera discriminazione tra Università e Afam. La legge del 1999 avrebbe dovuto provvedere all’equiparazione anche nel campo della ricerca, e poco importa – giusto per fare un esempio – se risultano istituiti i Dottorati nel campo dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, dato che non esistono fondi sufficienti, né tantomeno dedicati a un loro finanziamento. Ancora una volta, al danno si aggiunge la beffa. Su tutto, poi, continua a aleggiare quel famigerato luogo comune, di cui è ostaggio un’ipotetica doxa collettiva. Quando Bisaccia si interroga sul concetto di utile, così centrale, nella formazione, non si sogna di negare gli scopi precisi nello studio del diritto o della medicina, né le acquisizioni della ricerca scientifica in quei campi; si potrebbe aggiungere che persino una disciplina percorsa di tensione assoluta come la matematica piega le sue regole al campo dell’economia o a quello, mettiamo, dell’ingegneria civile. Ma siccome le risorse sono poche, pare scontato che debbano essere in gran parte destinate alle scienze dure, in minore a quelle umane o umanistiche: mentre l’arte dovrebbe reggersi da sé, soltanto degli utili che riesce a produrre (sacrificata, stavolta, la libertà di ricerca e di espressione); e d’altronde, come pure nota Montanari, in un paese come l’Italia, inquinato dalla retorica di una bellezza preesistente e eteroproclamata come salvifica, così ricco di testimonianze del passato genio artistico, a cosa serve investire, nunc, nel fare arte? Riaffiora perciò la famigerata domanda sulla ricerca in campo artistico, senza che neppure ci si domandi cosa effettivamente essa sia: cui prodest? Se lo Stato ci investe dei denari, quale «vantaggio ne viene al contribuente?» (Brz, p. 103) Si potrebbe chiudere il discorso rovesciando quest’ultimo luogo comune, così usurato, così incredibilmente resistente. La ricerca di base, slegata dal diktat angoscioso di un profitto immediato, è l’unica in grado di generare idee, o rivoluzionare quelle esistenti: questo vale per ogni campo, persino quello negletto della produzione culturale. Non sarà necessario scomodare le grandi manifestazioni di mecenatismo del passato per capire quale sia la provenienza della mole spirituale e materiale del patrimonio culturale: e quello italiano, sofferente d’incuria o abbandono, alla meglio dato per scontato, è, nonostante ciò, la prova evidente dell’imbecillità di un altro vecchio luogo comune, quello secondo il quale con la cultura non si mangia.
Affinché, magari in un futuro neanche troppo lontano, il nutrimento non venga meno è necessario capire come la creatività artistica – dire ricerca è esattamente la stessa cosa – debba essere, almeno nel campo della formazione, disinteressata; non è detto che ciò che ha un legame patente con l’immediato sia destinato a durare. Di contro c’è la potenza dell’inutile, di ciò che sul momento appare inservibile: eppure, capace di formare lo spirito. Con Gramsci, für ewig.
1 A. Bisaccia, Burocrazzismo e arte. Cronaca di un’equiparazione cosmetica nell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, Roma, Castelvecchi, 2020, p. 31; d’ora in avanti: Brz.
2 Legge 21 dicembre 1999, n. 508.
3 N. Da Neckir, Contro la meritocrazia : per un’Università delle capacità, dei talenti, delle differenze, delle relazioni, della cura (e dei meriti), Molfetta, La meridiana, 2011.
4 C. Cases, Il boom di Roscellino. Satire e polemiche, Torino, Einaudi, 1990, p. 185. Nello stesso volume è raccolto lo scritto Il poeta e la figlia del macellaio, citato subito dopo.
5 V. Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Napoli, Cronopio, 2019, p. 25.