Alberto Cavaglion,
Decontaminare le memorie
Roberto Barzanti

Alberto Cavaglion, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, Torino, ADD, 2021.

Seguendo un’impostazione garbatamente pedagogica, ma senza un’ombra di impositive prescrizioni, Alberto Cavaglion suggerisce modalità di vedere e di ricordare esente dagli schemi dilaganti. E lo fa con una guida ritmata in succosi saggi, che prendono d’occhio casi esemplari. A che valgono gli istruttivi viaggi che conducono gli studenti a visitare Auschwitz se non si va oltre la percezione di ciò che resta di una macchina mostruosa. Se quel luogo finisce per trasmettere lo stupore di un atroce monumento ed è isolato da un contesto di testimonianze, echi, emozioni avrà la truce inerzia di un eccezionale reperto. Le ferite subite dal paesaggio fisico nel quale sono stati ricavate sedi memorabili del tragico Novecento tramandano i segni di uno strazio che chiede intelligenza sentimentale e passione critica, e sarà così decontaminato da enfatiche e clamorose sovraesposizioni. È utile richiamare alla necessità di una visione storicizzata, che inviti a cogliere i tratti specifici di ogni vicenda e la faccia comprendere non affidandone la memoria ad una museografia il più delle volte costruita con percorsi tendenziosi, su misura per il nuovo potere non interessato ad una schietta onestà storiografica. «Il cammino degli uomini – avverte Cavaglion – è saturo di episodi orrendi, fare di ogni erba un fascio non giova a nessuno, soprattutto non aiuta a capire se un episodio faccia parte di una semplice contingenza, dipenda da una guerra civile, da una crisi economica oppure corrisponda organicamente alla natura di un sistema di potere come è stato realizzato dal Nazionalsocialismo, che della violenza aveva fatto la sua regola».

Le tappe su cui s’intrattiene l’autore incontrano il problema oggi alla ribalta non solo in Italia del rapporto tra memoria e storia. Non gli si può dar torto quando osserva che finora «a prevalere è stata una memoria pubblica poco critica, conflittuale, indirizzata al solo confronto di scempi e delitti compiuti in contesti diversi». Peggio: si è cercato di bilanciare eccidio e eccidio, crudeltà e crudeltà, sottintendendo o favorendo equiparazioni in grado di accontentare tutte le parti sì da superare radicati antagonismi in omaggio ad un’artificiosa memoria condivisa. L’Emilia fa la parte del leone in questa antologia. Tre luoghi della memoria del Novecento aprono la guida: il campo di concentramento di Fossoli presso Carpi, Villa Emma a Nonantola, la modenese torre della Ghirlandina da dove nel 1938 si gettò l’editore Angelo Fortunato Formiggini, disperato per la promulgazione delle leggi razziali. Per intendere il senso che serbano, come cicatrici non rimarginate del tutto, vale più la «memoria obliqua» che una scostante monumentalità sovrammessa alla loro disarmata eloquenza. La mémoire oblique è nozione adottata da Philippe Lejeune e tratta da Georges Perec. È il contrario della memoria rituale: tanto questa ondeggia volubile secondo i venti della politica quanto quella ricava la sua autenticità da confessioni, diari, racconti che registrano impressioni e paesaggi lungo una passeggiata senza scopo, sul filo divagante delle memorie personali. Si riscontri il deposito che sopravvive della terra di Fossoli negli appunti di Leopoldo Gasparotto, antifascista fucilato all’alba del 21 giugno 1944: «Sono sceso nelle trincee, perché le pareti sono in parte crollate, ho immaginato di aver di fronte delle pareti dolomitiche e, mentalmente, ho studiato su di esse immaginarie vie di ascensione, per cammini profondi, per spigoli verticali, creste aeree…». La natura sembra farsi storia, è storia: misura la distanza tra il tempo della libertà e la prigionia del presente. A soccorrerci, quando immaginiamo scenari tragici di annientamento e ne cerchiamo le reliquie in un luogo che pur continua a verdeggiare e a nutrire piante e fiori, ecco «la filosofia del ciononostante». Anche questa curiosa categoria ha una derivazione alta: la coniò Cesare Cases a commento di una frase dell’Aschenbach di Thomas Mann: «Tutto quanto di valido l’umanità ha prodotto, lo ha prodotto “come un ciononostante”, a dispetto delle avversità, piegando queste alla propria volontà, traendo vigore dal dolore e dall’intelligenza della fatica».

Scrutando i paesaggi contaminati di oggi, quando non abbiano subito le sistemazioni a parchi attrezzati per finalità storico-turistiche, vien fatto piuttosto di ripescare pagine memorabili, che insinuano la memoria obliqua che serve a dar loro uno spessore caratterizzante. L’itinerario disegnato da Cavaglion è quanto mai significativo. In un testo di Primo Levi, solenne di una laica religiosità, sta scritto: «Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità passò come un vento per tutti gli uomini». E, a seguire, Italo Calvino, Bernard Berenson, gli squarci cimiteriali di Giorgio Bassani, in un florilegio che rifiuta una sistematica cronologia. Sulla soglia dei «paesaggi contaminati» è doveroso sostare: «Per decontaminare un paesaggio la prima cosa da fare è accantonare la spavalderia di chi pensa di sapere il fatto suo dove nemmeno chi c’è stato è riuscito a rispondere alla domanda estrema: “Perché?”». Così il paesaggio violentato e, ciononostante, vivente chiede l’andamento di un pellegrinaggio spoglio di roboante retorica. E il discorso non riguarda solo il passato remoto: «anche l’acqua del Mediterraneo che ha inghiottito centinaia di migranti non è più pura; luoghi, in Italia come ovunque, che bisognerà contribuire a decontaminare, come se fossero un edificio in amianto o un campo dove mani assassine hanno sepolto rifiuti tossici». Non mancano consigli bibliografici: di Gilles Clément il Manifesto del terzo paesaggio (2005), di Georges Perec La boutique obscure (1973), di Romain Gary Gli aquiloni (2017). Non sono titoli di una colta appendice, ma breviari di un’ecologia immaginativa, marginale, che si espande «là dove le macchine non passano».