Béla Bartók, una lezione di democrazia
Sergio Bologna

Riproponiamo ai nostri lettori, ringraziando l’autore, l’articolo di Sergio Bologna, Béla Bartók, una lezione di democrazia, scritto nel 1996 e pubblicato nel volume Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, Roma, DeriveApprodi, 2007.

Democrazia per noi non è un sistema di governo
è una forma ideale di vita.
(Karl Polanyi, 1918)

I.

L’anno appena trascorso, il 1995, ha segnato il cinquantenario della scomparsa del compositore ungherese Béla Bartók, avvenuta a New York nel 1945. Nei teatri e nelle sale da concerto di tutto il mondo sono state eseguite le sue opere con una frequenza insolita. Artisti che gli sono stati molto vicini, come il pianista György Sándor, autore di un Come suonare il pianoforte (trad. it. BUR 1984), ci hanno fatto ascoltare nuove esecuzioni dei suoi brani e dei suoi concerti per pianoforte e orchestra. Eppure pochissimi lo hanno ricordato anche come uomo di cultura, figura completa e straordinaria di artista, di ricercatore, di educatore, di innovatore, di uomo libero, disposto a spendersi quando intravedeva nuove frontiere per la democrazia, come accadde durante la repubblica ungherese dei consigli, 1918.

Fu una stagione straordinaria quella della cultura ungherese nel primo decennio di questo secolo: György Lukács, Karl Polanyi, Béla Balázs, Béla Bartók. Per quanto diversissimi tra loro e lontani dal punto di vista disciplinare, filosofo l’uno, economista l’altro, poeta e teorico del cinema il terzo, musicista Bartók, non si può dimenticare che almeno i primi tre hanno investito la loro passione e la loro genialità in un progetto di trasformazione della società capitalistica, hanno non solo creduto per tutta la vita che le cose si potevano cambiare, ma hanno creato schemi mentali per poter pensare il mondo in modo diverso, hanno operato affinché la cultura potesse divenire strumento di liberazione nelle mani di chi il potere lo subisce. Bartók fu insegnante di musica e per qualche tempo coinquilino della famiglia del banchiere Lukács, padre del filosofo, fu amico e ammiratore di Balázs e compose due delle sue opere più famose su soggetti ideati da Balázs, Il castello di Barbablù (1911, prima rappresentazione 1918) e Il principe di legno (1914-17, prima rappresentazione 1918). Bartók respirò quell’aria di ribellione e di anticonformismo, visse in quell’atmosfera dove la ricerca e la sperimentazione, la rottura delle regole conservatrici del sapere, l’educazione della classe operaia, l’indagine sociale nelle campagne, costituivano l’universo morale e creativo dei giovani intellettuali che si riunivano a Budapest nel Circolo Galilei, fondato e diretto da Karl Polanyi o nella Società della Domenica di cui furono animatori Lukács e Balázs. Bartók non è assimilabile ad alcuna corrente politico-ideologica. È fervente nazionalista quando esserlo significa semplicemente ribellarsi al dominio asburgico e alla cultura germanica usata verso i popoli dell’Europa centro orientale come instrumentum regni. Esprime in alcune lettere convincimenti atei e materialisti, un’allieva lo apostrofa in una missiva con uno scanzonato kedves anarkista (caro anarchico), più di una volta esprime simpatie per il proletariato (vedi la corrispondenza in Dokumenta bartokiana, 1964-70). In realtà Bartók fu molto di più che socialista o anarchico o irredentista o laico-liberale. Il suo contributo alla trasformazione radicale della cultura musicale è più profondo, la sua azione attiva e consapevole per creare le nuove frontiere di una società dove il popolo sia l’elemento centrale dell’organizzazione civile è più incisiva di quanto possa essere quella di un uomo che si lascia giudicare dalle etichette.

Il suo messaggio in questo senso è chiarissimo, incontrovertibile. Perciò fa un po’ pena leggere come certi critici e biografi cercano di mistificare le sue scelte civili e dunque politiche con attributi del tipo «umanesimo naturalista» e simili. Un Bartók al di sopra delle parti, dei conflitti, della storia, un Bartók immerso nel rimpianto di una natura violata, di una civiltà contadina scomparsa, in una parola, un Bartók conservatore e benpensante, attento a non dar fastidio a nessuno.

L’ottusa volontà di negare che uno dei più grandi musicisti del Novecento sia stato anche un libertario, un uomo che ha combattuto i «poteri forti» sempre e dovunque, è presente in maniera implicita nelle sterili analisi formali di certa musicologia che anatomizza le grammatiche compositive senza chiedersi chi fosse la persona umana che le ha usate, ed è presente in forma esplicita in coloro che, prendendo lo spunto dall’assenza di scelte «ideologiche» in Bartók, lo classificano come un artista al di sopra o al di fuori delle umane, cioè sociali e politiche, divisioni.

II.

C’è chi lo considera uno dei massimi studiosi del folklore del Novecento. Anche simili definizioni mi paiono restrittive e tese in ultima analisi a occultare la portata innovativa della sua opera. Bartók non fu il primo a occuparsi di etnomusicologia né il primo a raccogliere pazientemente, casa per casa, nei più sperduti villaggi, i canti popolari. In Ungheria si erano mossi prima di lui Béla Vikár ma soprattutto quello che sarà suo collega e sodale, Zoltan Kodály. E ancor prima, nella non lontana Moravia, aveva lavorato sul canto popolare con grande perspicacia un altro musicista innovatore, Leoš Janáček (al quale uno studioso italiano, Franco Pulcini, ha dedicato un paio d’anni fa un’importante monografia). Bartók comincia nella tarda primavera del 1904, annotando le canzoni di una ragazza di campagna slovacca che faceva la domestica nella casa dove stava trascorrendo un periodo di vacanza. Da allora inizia un lavoro che proseguirà per diversi anni lasciando un contributo fondamentale all’etnomusicologia. Ma Bartók è stato qualcosa di più che un ricercatore. Fu prima di tutto un’intelligenza istintivamente cosmopolita. Quindi nell’annotare, classificare e analizzare i canti dei diversi ceppi etnici (dagli ungheresi di Romania ai rumeni di Maramures, dai bulgari ai serbocroati, dai nomadi dell’Asia Minore alle tribù del Sahara algerino) Bartók oltre a percorrere e a segnare le linee di demarcazione delle specificità etniche, insegue con interesse forse ancor maggiore le contaminazioni, le osmosi e legge il mondo delle etnie musicali come una grande galassia che si alimenta e si arricchisce a vicenda, mai come un mondo segmentato che si elide a vicenda. La sua filologia etnomusicologica è una grande lezione di convivenza civile.

Nel 1955 Einaudi pubblicò a cura di Diego Carpitella e la prefazione di Kodály, una raccolta degli Scritti sulla musica popolare di Bartók. Vent’anni dopo ci fu la ristampa a opera di Boringhieri. È un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ognuno di noi, perché a suo modo è un testo di educazione politica sul problema del rapporto tra etnie. È a suo modo un libro di storia dei Balcani e dell’Europa centro-orientale. È un libro moderno e attuale come può esserlo, per altri versi, L’anima e le forme (1911) di Lukács.

III.

Leoš Janáček, geniaccio a lungo misconosciuto e incompreso, aveva già lucidamente individuato nella metrica della lingua ceca il nucleo originario dei bruschi cambiamenti di ritmo che stanno alla base della musica popolare e contadina. Bartók attinge dalla musica popolare la ricchezza e la complessità nascosta in quel filone inesauribile rappresentato dalla ritmica e lo fonde nel materiale inventivo delle sue composizioni. Serge Moreux, uno dei primi studiosi e biografi di Bartók, parafrasando il titolo di un celebre trattato di Schönberg parla di «funzioni strutturali del ritmo». E in effetti il ritmo, anzi i ritmi, sono nella scrittura di Bartók quello che nella scrittura di Bach è la condotta delle voci, ossia l’elemento portante ma al tempo stesso il riconoscimento di una tradizione, di una radice, di un «prima» che rappresenta un sistema di valori musicali ma al tempo stesso morali, civili. La ritmica bartokiana è stata uno dei grandi movimenti innovativi della musica contemporanea. Orbene, questo salto in avanti è stato possibile perché Bartók non osserva con compatimento un supposto «livello basso» rappresentato dalla musica popolare, non si pone verso di essa con l’arroganza della casta dominante né con la stucchevole nostalgia per un’«innocenza perduta», ma osserva e studia il mondo popolare e contadino con il rispetto e l’attenzione dovuta ai fenomeni complessi, alle culture profonde, ai saperi sedimentati, come fosse – ha osservato uno dei maestri dell’etnomusicologia italiana, Roberto Leydi – una musica «colta». Ricorda, il suo approccio, quello di Gramsci verso la cultura operaia. Perciò mi sembra giusto definire Bartók un maestro di pensiero democratico.

Sulla sua scia (e su quella di Gramsci) si mossero in Italia, negli anni Sessanta, i ricercatori che stavano attorno a Gianni Bosio. Essi andarono in cerca di canti sociali e di lotta perché avevano la convinzione che i saperi politici del proletariato fossero un universo da scoprire e una lezione da apprendere. Nacquero Il Nuovo Canzoniere Italiano e la collana dei Dischi del Sole.

Studiando la musica contadina, Bartók scopre le dinamiche dell’innovazione. Sarebbe interessante a questo punto fare un confronto con Schönberg, nel cui orizzonte la musica popolare non svolge alcun ruolo, non esiste come fenomeno con spessore culturale. Qualche sprezzante accenno riportato in Stile e idea, raccolta di suoi scritti sul mondo musicale, non ci invoglia a saperne di più. In realtà il discorso dovrebbe investire il ruolo di Theodor Adorno e della sua filosofia della musica moderna, che esercitò una specie di dittatura culturale sulla musicologia contemporanea «di sinistra». Adorno introdusse uno schema totalitario e totalizzante: chi seguiva le tendenze dodecafoniche era «progressista»; chi non le seguiva era «conservatore» o «restauratore», un manicheismo semplicista che ben fu accolto dagli intellettuali dell’epoca staliniana. Adorno, che era comunque un finissimo intenditore e compositore lui medesimo, ha dedicato a Bartók qualche pagina dei saggi contenuti nel volume Dissonanze, che Feltrinelli pubblicò nel 1959, e i suoi giudizi – secondo cui Bartók sarebbe rimasto a metà strada tra progresso e restaurazione – furono in parte ripresi da Lukács nella sua Estetica. In tal modo la sinistra stentò a capire la svolta rivoluzionaria della musica bartokiana, quella svolta contenuta nelle strutture ritmiche e non nel materiale atonale.

IV.

Bartók aderì alla rivoluzione dei consigli guidata dai comunisti e in particolare da Béla Kun, un giornalista che era stato prigioniero di guerra in Russia, dove aveva potuto prender parte alla rivoluzione del 1917. Lukács fu vice commissario del popolo all’istruzione pubblica, Béla Balázs ebbe l’incarico di riorganizzare la vita teatrale, Bartók, Kodály e il compositore e pianista Dohnányi (lo ricorda lo stesso Lukács nell’Autobiografia in forma di dialogo, trad. it. Roma 1983) formarono il Direttorio incaricato di riorganizzare la didattica e le istituzioni musicali. Il grande sogno consiliare ebbe vita brevissima, 133 giorni, stroncato ben presto dalla reazione militare appoggiata e armata dalle potenze occidentali. Si sarebbe aperta così la strada a una dittatura fascista, alleata di Mussolini e di Hilter, durata un quarto di secolo. Bartók aderì alla rivoluzione dei consigli perché aveva simpatie per il comunismo? Nessun documento lo lascia credere. Più credibile è l’ipotesi che Bartók vi abbia aderito perché il movimento dei consigli attrasse il meglio dell’intellighentsia ungherese e perché quel movimento rivoluzionario (si leggano i suoi documenti programmatici) volle essere innanzitutto un movimento di riforma dell’educazione, delle forme e degli istituti della trasmissione dei saperi. Settari e schematici nei propositi di riforma economica e in quelli di riforma istituzionale, gli ispiratori della rivoluzione ungherese dei consigli (democratici radicali, comunisti, socialdemocratici di sinistra, anarchici, consiliari) investirono le loro migliori energie utopiche nella progettazione di una scuola diversa, ebbero un’enorme attenzione sia per i giovani che per l’infanzia. Su questo terreno essi poterono contare sul precedente lavoro di riflessione e sulle lotte del movimento radicale degli insegnanti, che aveva assunto una notevole diffusione. Anche questa è una grande lezione di democrazia. Siamo abituati a pensare i rivoluzionari come strateghi cinici e spregiudicati. Il movimento che diede vita al breve sogno consiliare in Ungheria non aveva uomini di questo stampo, ma era ricco di persone che avevano individuato chiaramente le nuove frontiere della democrazia e progettavano di liberare dalla soggezione mentale le nuove generazioni. Perdettero, ma la sproporzione di forze era tale che difficilmente avrebbero potuto reggere l’urto di tutto il mondo occidentale e balcanico. Lukács, Balász, Polanyi furono costretti all’esilio, Kodály riguadagnò a fatica il posto di insegnante che aveva perduto in seguito all’epurazione succeduta alla vittoria di Horthy, Bartók, meno esposto degli altri, non subì conseguenze gravi e poté continuare a vivere in Ungheria fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, da «esiliato in patria». Ma non rinnegò mai quella esperienza, era troppo orgoglioso, inflessibile, coerente, onesto, per farlo. Portò avanti con tenacia il suo sforzo di rinnovamento della didattica musicale, anche se non ebbe la possibilità di vederlo tradotto in termini concreti. E qui fu veramente grande.

Aveva composto prima della Grande Guerra deliziose opere per bambini, le raccolte per pianoforte Dieci pezzi facili (1908) e Per i bambini (1908-09); negli anni Trenta portò a termine la realizzazione di un intero sistema didattico, basato su 153 brevi pezzi per pianoforte di progressiva difficoltà suddivisi in sei volumi: il Mikrokosmos. Qualcuno ha definito quest’opera «il clavicembalo ben temperato del nostro tempo». Certo solo un uomo capace di un amore e di un rispetto incommensurabili per i giovani, per l’infanzia, poteva concepire un’opera simile. Agli inizi degli anni Ottanta la rivista «Musica e realtà» si fece promotrice dell’ultimo grande convegno su Bartók che sia stato organizzato in Italia. Si tenne a Ravenna e fu dedicato alla didattica musicale. Nel rileggerne gli Atti, tra le tante cose belle c’è una straordinaria, commovente relazione di un’insegnante, Klara Kókas, che, sotto la spinta di Kodály, aveva finito per aprire in Ungheria una scuola per bambini abbandonati, dove applicava con successo i nuovi metodi d’insegnamento, dopo essere stata qualche anno a far lo stesso mestiere in mezzo alle comunità nere di Boston e della Georgia. I paesi ex-socialisti dell’Europa orientale e l’Ungheria in particolare sono stati all’avanguardia del movimento per una nuova didattica musicale; anche il loro repertorio di musiche d’insieme per bambini e per dilettanti è tra i più vasti del mondo. Senza la rivoluzione dei consigli, senza Bartók e Kodály, questi orizzonti non si sarebbero mai schiusi. Questa è democrazia, non come sistema di governo ma come forma ideale di vita, per riprendere il motto di Polanyi, riportato in epigrafe.

V.

Bartók attese il 1940 per emigrare: più che la dittatura a quest’uomo inflessibile e mite faceva orrore la guerra. Lasciava un’Europa che stava stritolando i valori morali e culturali in cui aveva creduto, un’Europa che solo negli ultimi anni e molto più all’estero che in patria lo aveva finalmente riconosciuto come un compositore di alto livello, dopo averlo applaudito ovunque come pianista ed esaltato come folklorista. I riconoscimenti ottenuti dal pubblico e dalla critica come esecutore, spesso in coppia con la moglie Ditta Pásztory, sembravano voler compensare il disconoscimento della sua grandezza come compositore. Esemplare, da questo punto di vista, il resoconto di un concerto che Bartók tenne a Trieste nel marzo del 1925. Ne è autore Vito Levi, critico, musicologo, studioso di Richard Strauss e compositore di scuola straussiana, che fu mio insegnante di Storia della Musica all’Università di Trieste: «la prima parte del programma rivelò un pianista semplicemente meraviglioso. Il suono puro, la pedalizzazione estremamente sobria, il vigore ritmico, conferivano alle sue esecuzioni un’asciuttezza rivelatrice di una straordinaria energia interiore. Massima impressione della serata lo Scherzo e il finale della Sonata beethoveniana (la n. 21 in mi bemolle maggiore); lo Scherzo per l’espressione demonica acquistata dallo staccato, il finale per la focosità ritmica che nei tratti salienti divenne una specie di tarantella ebbra di vita. Atmosfera di entusiasmo alla chiusa della esecuzione. Bartók deve attendere a lungo prima di poter attaccare la Sonata di Scarlatti; e per qualche istante fissa nella folla gli occhi che sembrano nerissimi sotto i capelli precocemente imbianchiti. Poi, alla seconda parte del programma, riservato a musiche del Maestro, si diffonde per la sala un senso di gelo sempre più penoso. Il pubblico mondano del Circolo Artistico era ancora immaturo alla comprensione dell’arte bartokiana» (in La vita musicale a Trieste, Milano 1968).

Eppure a Trieste, città di alta tradizione musicale e di antica consuetudine con la musica centro-europea (il Quartetto Triestino ha in repertorio Schönberg prima del 1914), lo stile bartokiano avrebbe dovuto essere meglio compreso che altrove. Ma il problema non era solo di stile, di gusto, era un problema di classe. Max Weber, nei suoi saggi di sociologia della musica (1904-1912), di recente ristudiati e rimessi in circolo da Christoph Braun, aveva già indagato i rapporti tra classi sociali e modo di fare e ascoltare musica, arrivando a leggere con questi parametri la storia degli strumenti a tastiera (il pianoforte come simbolo della «domesticità» borghese). E i musicologi tedeschi degli anni Venti e Trenta, sulla scorta delle indagini sui gruppi sociali di Theodor Geiger (il primo a parlare dei lavoratori autonomi come «proletaroidi»), avevano disegnato addirittura delle «tavole» dei modi d’ascolto delle classi sociali. Bartók aveva attinto a un patrimonio musicale popolare profondamente estraneo alla borghesia conservatrice e benpensante dei concerti. A Vito Levi successe nell’insegnamento di Storia della Musica presso l’Università di Trieste Piero Derossi, specialista della musica dei popoli slavi e dei Balcani (vedi le voci da lui redatte per il Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti della UTET), instancabile animatore del «Centro Universitario Musicale» di Trieste, figura unica e indimenticabile, amico di grandi musicisti e interpreti (Severino Gazzelloni fu uno di questi). Per due anni gli fui accanto come collaboratore e poi ne rimasi amico fino alla morte, avvenuta qualche anno fa; debbo a lui buona parte della mia cultura musicale e il primo approccio con Bartók, a metà degli anni Cinquanta.

A introdurre il compositore ungherese in Italia ci aveva pensato nel 1924 quel grande personaggio che fu Alfredo Casella, che lo invitò (a nome di un’istituzione fascista) a tenere quattro concerti (Milano, Roma, Napoli, Palermo), ma la musicologia italiana recepì il messaggio artistico e civile di Bartók solo nel secondo dopoguerra. Fu soprattutto Luigi Pestalozza, nell’ambito di una ricerca volta ad approfondire i legami tra musica e processo di formazione del movimento operaio e socialista, a imporre la figura di Bartók nel comune sentire della sinistra. Ma dagli inizi degli anni Ottanta, con il riemergere dei formalismi, del gusto per il frivolo, per l’erudizione sterile e saccente, la figura di Bartók si è di nuovo oscurata.

È dunque una piacevole sorpresa scoprire che una piccola casa editrice di Sannicandro Garganico in Puglia ha pubblicato nel settembre scorso una documentata monografia su Bartók (Antonio Castronuovo, Bartók, Gioiosa Editrice, 1995). Tre quarti del libro sono dedicati a un accurato e utilissimo repertorio delle opere di Bartók, dove per ciascuna si ricostruiscono la genesi, le varie fasi di realizzazione, le prime esecuzioni, i rifacimenti. Le prime cento pagine sono dedicate invece alla vita e allo stile del compositore. Diciamo che il Bartók che ne esce è piuttosto diverso dal Bartók che ho cercato di evocare in queste poche righe. I punti di vista sono molto differenti.

VI.

Un musicista così innovatore, un linguaggio musicale così fortemente strutturato sul ritmo, una tecnica pianistica così diversa dalla ricerca timbrica del post-romanticismo non potevano non esercitare una forte influenza sul mondo del jazz. Se oggi si possono trovare ancora in circolazione pianisti classici che la musica di Bartók conoscono superficialmente, mi sembra difficile immaginare un pianista jazz che non si sia nutrito di Bartók.

Egli innanzitutto accentuò le caratteristiche percussive dello strumento. La tecnica pianistica ha subito nel nostro secolo forti trasformazioni. Curiosamente, mentre Taylor e Gilbreth studiano i fattori motori nel lavoro industriale, Ferruccio Busoni sviluppa la tecnica della «libera caduta» o del «peso» lungo l’articolazione del braccio per ottenere sonorità più ricche e maggiore elasticità del polso. Il saggio di Casella Il pianoforte (1937) fa bene il punto dello stato dell’arte nella tecnica pianistica alla fine degli anni Trenta. Arturo Benedetti Michelangeli fu il sommo esponente di questa scuola. Se il Bartók pianista appartiene per formazione al ceppo lisztiano (István Thomán il suo insegnante all’Accademia di Musica di Budapest era stato allievo del grande Liszt), l’evoluzione della sua sintassi compositiva lo porta a configurare anche una tecnica diversa per lo strumento da lui prediletto. L’accentuazione della vocazione percussiva del pianoforte rispetto a quella melodico-timbrica va di pari passo con la scoperta delle funzioni strutturali del ritmo. Il coronamento di questo cammino è il capolavoro del 1937, la Sonata per due pianoforti e percussioni, composta su commissione di Paul Sacher, direttore dell’Orchestra da camera di Basilea, opera che Bartók stesso volle eseguire alla prima in duo con la moglie.

Sbarcato negli Usa come tanti intellettuali europei prima di lui, fuggiti dalle dittature fasciste, Bartók trova ascolto e interesse presso i musicisti del jazz. Benny Goodman gli commissiona un’opera (i Contrasti per clarinetto, violino e pianoforte). Da quel momento egli diverrà un riferimento obbligato per i musicisti jazz (si vedano, tra l’altro, le osservazioni di Keith Jarrett nell’ultimo libro intervista uscito in italiano). Malgrado ciò, egli non mostrerà interesse particolare né per il sound né per la tecnica jazzistica. Come pianista, se ascoltiamo le sue registrazioni in commercio, che riempiono ormai tre cd completi, sembra restare ancorato alla tradizione mitteleuropea. Come dice Vito Levi, il suo pianismo è asciutto ma non arido. Con questo stile vanno eseguiti anche i suoi pezzi. Se egli ha saputo dare molto al jazz senza a sua volta praticarlo o inglobarlo, significa che Bartók, come tutti i grandissimi, ha saputo andare al di là di se stesso e dei suoi confini storicamente determinati. Se la sua musica continuerà a essere eseguita nei luoghi d’ascolto della «classica», il suo spirito, per così dire, aleggia ovunque si fa buona musica jazz. Anche questo mi sembra un segno della sua vocazione democratica, della sua tendenza innata a fare musica per fruitori di nuovo genere, per un pubblico diverso, seguendo in tal modo il processo storico proprio del suo tempo, fine Ottocento-metà Novecento, quando con la nascita e lo sviluppo del movimento operaio si allargano le frontiere della democrazia e della partecipazione civile, della cultura. Nasce un nuovo pubblico, si arricchisce il terreno della fruizione, nascono nuovi esecutori. Si pensi alle corali operaie, forma specifica di fare musica dell’operaio-massa, che fioriscono proprio nelle metropoli industriali (Torino, Lipsia, Budapest). La classe lavoratrice, orgogliosa del suo associazionismo, forte del suo agire collettivamente, scopre la sinfonia corale mentre i compositori sono affascinati dal rumore, dall’ecosistema del lavoro industriale e della metropoli. Già Massimo Mila nel suo illuminante saggio su Bartók apparso su «Chigiana» (1965) aveva sottolineato come Bartók sembri attratto irresistibilmente dal fenomeno del rumore. È, secondo Mila, un prodotto del grande amore di Bartók per la natura (i «rumori della notte»). Ma il rumore è essenzialmente un artefatto umano, il risultato di un’organizzazione socio-economica, di forme storicamente determinate della produzione. Bartók indaga il rumore senza ricorrere agli stilemi della musica «programmatica», il rumore del bastone che picchia sul suolo a segnare il ritmo di danze rumene, il rumore dell’incanto notturno e il rumore che disintegra le facoltà percettive e suscita angoscia, senso di dissociazione, perdita dell’equilibrio, Bartók indaga i rumori ancestrali e i rumori della modernità. Il mistero e il dramma del rumore: se Mila ha ben messo in luce la sublime capacità di Bartók in certi tempi lenti di percorrere il mistero, si potrebbe indagare weberianamente il modo in cui Bartók attraversa il fenomeno del rumore come fase di passaggio da un’antropologia dell’ascolto a un’altra. Dovremmo soffermarci allora non sui tempi lenti ma sui ritmi ossessivi, martellanti, sulla «brutale violenza» (Boulez) di certi passaggi «meccanici», sui tempi le cui pulsazioni non sembrano alludere a più nulla di umano ma appartenere all’universo del macchinario industriale. Se Bartók ci consegna un messaggio di democrazia è di una democrazia moderna, piena di conflitti, di esasperazioni, una democrazia da conquistare con coraggio civile.

Gli anni della guerra, dopo le vette raggiunte negli anni Trenta, sembrano aver impresso un ripensamento all’arte innovatrice di Bartók. Il suo stile sembra ripiegare su moduli tradizionali, è oberato di commissioni, non riesce a soddisfare tutte le richieste dei «clienti» del nuovo mercato americano. La sua leucemia verso la fine del conflitto si aggrava, riesce comunque a comporre opere di un certo respiro, come il Concerto per pianoforte n. 3 dedicato alla moglie che, ahimè, logorata dalle incertezze e dalle fatiche dell’esilio, ormai è preda di crisi nervose e mentali. I suoi occhi riescono ancora a vedere i giorni della pace ma anche gli orrori delle prime esplosioni nucleari. La malattia si aggrava nell’estate del 1945 e muore al West Side Hospital di New York il 26 settembre 1945. Dal 1988 i suoi resti riposano nel cimitero di Budapest.

[gennaio 1996]