Le origini della letteratura afroitaliana e l’esempio afroamericano
da «L’Ospite ingrato», III, 2000
Alessandro Portelli
I. Diventare bianchi
«Non mi vergogno dei miei genitori perché sono stati schiavi», dice il protagonista dell’Uomo invisibile, il grande romanzo di Ralph Ellison (1952); «mi vergogno solo di me stesso per essermene un tempo vergognato».1 Nassera Chohra, nata a Marsiglia da famiglia Saharawi, residente oggi in Italia, descrive così le sue reazioni dopo la traumatica scoperta del significato della sua pelle nera: «Per una settimana mi sono vergognata moltissimo di mia madre e del colore della mia pelle, e solo ora so che non potrò mai vergognarmi abbastanza a lungo per essermi vergognata di lei».2
Non è un caso che questa narratrice franco-afro-italiana descriva le stesse reazioni di negazione e ricostruzione della propria identità, dubbio di sé e scoperta di sé, del personaggio afroamericano di Ralph Ellison. L’esperienza della letteratura afroamericana, infatti, costituisce un’utile guida per accedere alla scrittura della migrazione in Europa dall’Africa, dall’Asia, e dall’America Latina.
Dopo aver scoperto di essere nera — o meglio, dopo aver scoperto che cosa significa essere nera in una società bianca, Nassera Chohra ricorda:
Il nero rendeva “invisibile” il protagonista di Illison; adesso, “riempie” Nassera Chohra come una malattia, ma è anche una via per rendersi visibile. Lo specchio della sua infanzia, infatti, diventa lo schermo cinematografico della sua adolescenza, quando gravita verso il mondo della moda e dello spettacolo:
II. Linee del colore
Nel 1903, il grande saggista e sociologo afroamericano W.E.B. DuBois scriveva che «il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore». Questo confine, aggiungeva, era tracciato attraverso «l’Africa e l’Asia, l’America e le isole dell’oceano».9 Sembrava quindi che l’Europa non vi fosse coinvolta. Ma da quando la diaspora africana ha intensificato il suo movimen¬to verso il nord, al “passaggio atlantico” della tratta degli schiavi si è venuto aggiungendo un “passaggio mediterraneo” al quale pure si applica l’intuizione di DuBois. L’Italia si è a lungo pensata etnicamente omogenea, anche se regio¬nalmente divisa; perciò, l’afflusso di immigrati da fuori dell’Europa ha costi¬tuito uno shock culturale non indifferente. Contro ogni evidenza storica, gli ita¬liani si sono cullati a lungo nella persuasione di essere immuni dal razzismo e dalle sue conseguenze; e peraltro la brevità e brutalità dell’esperienza colonia¬le italiana non ha permesso la formazione di élite culturali italofone nei paesi colonizzati, da cui potesse nascere una letteratura africana in italiano analoga a quella che si è sviluppata in ex colonie inglesi, francesi, portoghesi.
D’altra parte, il Passaggio Mediterraneo è meno sanguinoso e drammatico del Passaggio Atlantico. L’emigrazione non è la stessa cosa della deportazione e la condizione di proletariato sia pure marginale non è la stessa cosa della schiavitù. Una delle differenze più notevoli è che una notevole percentuale degli immigrati è poliglotta e alfabetizzata, per quanto spesso costretta al silenzio.10 Gli immigrati mantengono memoria delle proprie lingue e culture d’origine; restano in contatto coi propri paesi e le proprie famiglie; non hanno bisogno di “rubare” la scrittura come gli schiavi deportati in America. Tuttavia, forse proprio perché le barriere che deve superare sono meno drammatiche, la scrittura degli immigrati ha attratto meno attenzione: i critici letterari l’hanno scartata con affrettati giudizi di scarsa qualità, gli scienziati sociali vi hanno visto solo documenti e testimonianze di esperienza vissuta e non anche prodotti di immaginazione creativa.
Ci sono voluti due secoli prima che Phillis Wheatley, la prima poetessa afroamericana, venisse riconosciuta come un’artista e non come un fenomeno da baraccone. Dovremo aspettare duecento anni prima di accorgerci della differenza nascosta inserita nelle figure e nei processi creativi della letteratura liana degli immigrati?
III. Forme di duplicità
Vorrei cominciare da un testo che ha quasi uno statuto canonico per chi si occupa di queste cose. L’autore è il poeta camerunese Ndjock Ngana, conosciuto in italiano anche col nome di Teodoro.
Vivere una sola vita in una sola città, in un solo paese, in un solo universo, vivere in un solo mondo è prigione. […] Conoscere una sola lingua, un solo lavoro, un solo costume una sola civiltà, conoscere una sola logica è prigione. Avere un solo corpo, |
U niñik ndigi niñ yada, nkoñ wada, loñ yada, mbok yada u niñik ndigi i mbai yada wee u yé i mok. U yik ndigi hop wada U banga ndigi nyu yada |
Come la famosa e controversa poesia in cui Phillis Wheatley ringraziava la divina provvidenza per averla portata dall’Africa all’America, dai paganesimo alla conoscenza delle Grazia,12 anche questa poesia di Teodoro è una rivendi¬cazione di inclusione. Wheatley finiva ricordando ai suoi cristiani lettori che anche «i Negri, neri come Caino, possono affinarsi e far parte del corteo degli angeli» in un aldilà multiculturale; Teodoro, specularmente, avverte i sui lettori che abbiamo tutto da guadagnare dall’inclusione del nero nel nostro mondo materiale. Teodoro, tuttavia, differisce da Wheatley nella misura in cui propo¬ne il sincretismo e l’interiorizzazione della differenza anziché l’assimilazione e l’“affinamento”. A prima vista, la poesia è rivolta agli europei, ai bianchi; ma contiene anche un messaggio anti-essenzialista per i lettori neri: anche loro sbaglierebbero se si rinchiudessero in una “essenza” africana. Per entrambi, la metafora della prigione significa l’esclusione dell’alterità da se stessi.
Mentre Ndjock Ngana vede la molteplicità solo come liberazione, altri testi dell’immigrazione rinviano alle tensioni inconciliate, agli ideali in guerra entro un unico corpo di cui parlava DuBois, e ribadiscono l’aspetto tragico e doloroso della dualità, la penosa lacerazione dell’identità e della coscienza nel passaggio.
Princesa, l’(auto)biografia di Fernanda Farías de Albuquerque, una transessuale brasiliana, è la storia di una persona che ha letteralmente due lingue, due nomi, due corpi. È la storia di come Fernando diventa Fernanda, di un corpo di donna che lotta per emergere da un corpo di uomo, sotto l’effetto degli ormoni e sotto le mani delle bombadeiras brasiliane:
IV. Dualità e scrittura
In questi due testi, come in gran parte della letteratura del Passaggio Mediterraneo, la dualità diventa un principio organizzatore della scrittura. Per prima cosa, le lingue: il libro di Ndiock Ngana, come gran parte dei libri di poesia degli immigrati, è bilingue, con l’originale Basaa a fronte con la versione italiana dello stesso autore. Princesa, a sua volta, introduce il portoghese già nel titolo, e lo mantiene in parole cruciali (bombadeira). In realtà, Princesa ha preso forma attraversando molte lingue: la protagonista è stata incoraggiata a raccontare, in carcere, da un pastore sardo condannato all’ergastolo che le ha insegnato il sardo quando ancora non padroneggiava l’italiano; sulla base degli appunti da lei scritti in questa lingua ibrida, il testo finale è stato poi redatto in italiano standard da Maurizio Jannelli, in carcere per partecipazione a un gruppo armato. É un peccato che, oltre questa versione, non sia stato ancora pubblicato anche il manoscritto originale, con la sua fantastica ibridazione di portoghese vernacolare, sardo, italiano di strada, molto più affine di ogni altro testo finora apparso all’italiano contaminato dell’immigrazione, e molto più segnato dallo sforzo di dare forma a cose ignote:
Un giorno li ho questo per che non fasceva una cirurgia plastica, mi dice lei si fasceva la cirurgia plastica perdeva un occhio che già aveva penetrato il silicone al ochio. Poi eranon tanti soldie. Poi nel anni di 87, si uscide inpicata Diana dentro di una chiesa a San Paolo.15
In altri termini: il periodo di prova per gli scrittori dell’immigrazione non è ancora finito, e il riconoscimento letterario dell’italiano che effettivamente parlano non è ancora compiuto (e quindi la lingua italiana non si avvale ancora pienamente del loro contributo di invenzione e innovazione). Appaiono parole isolate per le quali non esiste un corrispettivo italiano; eventuali espres¬sioni in arabo o in lingue africane vengono spiegate nelle note; si sottolineano casi specifici di varianti dell’italiano nel linguaggio dell’immigrazione (Pap Khouma, per esempio, spiega che i senegalesi chiamano “zii” i poliziotti per¬ché, come gli anziani al suo paese, vogliono controllare la vita della gente).
A volte, la lingua è discussa esplicitamente: come difficoltà da superare, crome maschera protettiva di finta ignoranza o di ironia contro le autorità (Khouma, 84), come deliberata adozione dello stereotipo (Fortunato-Methnani, 58), come modo per acquisire autorità, un “passo avanti” per quelli che diventano interpreti o mediatori (Khouma, 102). Ma l’obiettivo resta la correttezza linguistica: così, l’inizio e la fine di Immigrato di Salah Methnani sono incorniciati dal fallimento iniziale e dal successo finale nel pronunciare correttamente la parola “dieci”.
D’altra parte, il bilinguismo implicito nella storia degli autori o nella formazione dei testi predispone un’altra forma di dualità: quella degli autori. Dietro ogni testo c’è un traduttore, un curatore, un intervistatore, un trascrittore. Questa complessa struttura del ruolo autoriale è una delle analogie più signifi¬cative tra la letteratura “afroitaliana” e quella afroamericana, anche se nei testi del Passaggio Mediterraneo la collaborazione è dichiarata molto più esplicitamente. Spesso, già sulla copertina appaiono due nomi, uno straniero e uno italiano: Maurizio Jannelli e Fernanda Farías de Albuquerque, Mario Fortunato e Salah Methnani. Altre volte, il secondo autore appare solo come curatore: Oreste Pivetta in lo, venditore di elefanti di Pap Khouma, Laura Maritano in Con il vento nei capelli di Salwa Salem, Alessandra Atti di Sarro in Volevo diventare bianca di Nassera Chohra. Persino quando autore e traduttore sono la stessa persona, possiamo trovare due nomi sulla copertina: Ndjock Nana e Teodoro.
Nei primi testi afroamericani, i nomi dei curatori bianchi comparivano soltanto nel materiale paratestuale, con lo scopo di autenticare la narrazione. Tuttavia, il discorso del protagonista nero veniva tenuto formalmente separato da quello dello sponsor bianco, per una finzione di autenticità. Nella scrittura dell’immigrazione contemporanea, invece, l’esplicita dichiarazione della collaborazione avvenuta funziona sia come procedura di autenticazione, sia come costruzione del testo come discorso dialogico. Gli scrittori immigrati, tuttavia, hanno spesso con i loro co-autori le stesse difficoltà dei loro predecessori afroamericani. Così, Nassera Chohra spiega di avere scritto in italiano «perché era la cosa naturale da fare», dato che era in Italia; ma aveva dovuto difendere il suo testo dai tentativi della sua curatrice italiana che voleva ren¬derlo più appetibile modificando la storia e snaturando il punto di vista infan¬tile della narratrice bambina.
Lo sdoppiamento della funzione autoriale comporta anche un’autorità divi, sa, o condivisa. Nel doppio nome sulla copertina, lo scripteur europeo sta alle spalle del narratore immigrato per autorizzare e certificare. Il materiale editoriale e paratestuale insiste sempre sulla trasparenza del linguaggio usato, descritto come «limpido e diretto» nel risvolto di copertina di Immigrato così come era definito «artless» e «unadorned», senza artifici né ornamenti, nella prefazione all’autobiografia di Briton Hammon nel 1760: sembra, insomma, che neri o immigrati non abbiano diritto a una ricerca estetica ma possano solo essere veicoli di trasparenti testimonianze. A volte, anche i titoli sono retti dalla stessa retorica: Immigrato o Io, venditore di elefanti definiscono l’autore in quanto membro di una categoria e fanno della sua storia un caso tipico più che vicenda di un individuo, proprio come l’apposizione “an American negro,” “a American slave” ai nomi degli autori delle autobiografie afroamericane.
L’esempio più clamoroso di questa soppressione del dato individuale e dell’intenzione letteraria è quello di Immigrato, scritto da Salah Methnani con Mario Fortunato come romanzo (sia pure basato sulle sue esperienze), ma accettato per la pubblicazione solo come autobiografia, come se un immigrato non potesse darci altro che la materia non elaborata dell’esperienza e non avesse diritto a rielaborarla immaginativamente. Eppure, molti di questi testi mostrano i segni di un’intenzione letteraria. Ad esempio, quasi tutti usano come tempo della narrazione il presente storico, che rinvia meno alla comunicazione orale che a un progetto di coinvolgimento emozionale del lettore.
Il caso più complesso di autorità duale, divisa e condivisa, è, ancora una volta, Princesa. Anziché limitarsi a mettere in ordine il manoscritto di Fernanda Farías per la pubblicazione, Maurizio Jannelli ne ha fatto il materiale per un suo viaggio dell’immaginazione lontano dal carcere:
V. Scene della scrittura: la prigione e la strada
La prigione è un’altra immagine che troviamo in Princesa e nelle poesie di Ndjock Ngana. Infatti, la prigione è sia un’esperienza diffusa sia una metafora inevitabile in molta scrittura dell’immigrazione. Sul piano dell’esperienza, è una conseguenza inevitabile della condizione marginale, spesso illegale, dei prota-gonisti: «Tutti in galera. Per un’ora, per un giorno, per una settimana. L’umore dello zio è variabile. L’accusa è sempre la stessa: clandestini a bordo» (Khouma, p. 63), oltre che della memoria della repressione per gli esuli politici. Su! piano metaforico, rappresenta la condizione di frustrazione, costrizione, invisibilità dell’emigrato e dell’esule.
Hassan Itab, guerrigliero palestinese responsabile di un attacco terroristico a Roma dopo le stragi di Sabra e Chatila, combina le due prospettive, scrivendo da un carcere italiano dove crede di essere in attesa dell’esecuzione capitale «Chiuso dentro una cella 24 ore su 24. Chiuso nel silenzio. Chiuso nell’attesa che la decisione venisse presa».17 Ribka Sibhatu, esiliata politica dall’Eritrea, parla anche lei del tempo trascorso in carcere aspettando la morte:
Perché il mondo comprendesse,
mentre scavavano la sua fossa,
avvolta nella morte misteriosa,
intrecciò un aghelghel
e lo mandò senza hmbascià.
In un’intensa notte,
me la rapirono con le manette!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ogni giorno è assente,
ma nel buio è onnipresente!
Poiché non vuole separarsi da me
portatemi l’aghelghel della mia Abebà:
forse è lì la risposta,
la chiave delle sue manette,
che ora stringono me.20
nella piccola stanza di sopra
ma è troppo stretta per il mio futuro,
e i miei sogni si sono confusi.
Mi dicono sempre: “Lasciati andare e dimentica”
Ma come posso farlo?
Come posso dimenticarmi
e cacciare quella voce
che non cessa mai di chiamarmi?21
«La strada è dove i bambini neri si fanno un’istruzione», scriveva Rap Brown, leader del Black Power negli anni ’60: non solo un luogo di marginalità, ma anche di virtuosismo e creatività verbale.24 La strada è dove gli immigrati passano gran parte del loro tempo, perché non hanno un altro posto dove sta¬re e, soprattutto, perché è lì che svolgono molti dei mestieri a cui hanno acces¬so – venditori ambulanti (come Pap Khotirna e Salah Methnani), o lavatori di vetri ai semafori, o altro ancora. Fernanda Farías de Albuquerque lavorava in strada come prostituta; il protagonista di Immigrato spaccia droga nelle vie di Firenze. Poiché stanno così tanto in strada, sono molto visibili, sembrano più numerosi, e questo alimenta le paranoie razziste.
Allo stesso tempo, come anche nella letteratura afroamericana, dalla vita sulla strada deriva in questi testi anche un forte elemento picaresco: vagabondaggi e vagabondi, pensioni e case abbandonate, angoli di strade e spiagge, com-missariati, metropolitane, stazioni: «Il treno, che i nordafricani chiamano el fajaa (vuoi dire angoscia, pericolo), è l’ultima alternativa alle pensioni e ai cen¬tri di prima accoglienza» (Immigrato, p. 54). Il treno infine esprime sia la condizione dei senza casa, con l’angoscia e la paura che ne derivano, sia un elemento di mobilità, e quindi una possibilità di libertà. Questi libri sono pieni di treni, aerei, automobili. Ogni sezione dell’autobiografia della palestinese Salwa Salem prende il nome da uno dei paesi in cui ha vissuto: la sua città nativa di Nablus, e poi “Kuwait 1959-1966,” “Vienna 1966-1970,” “Italia 1970-1992”.25 Allo stesso modo, ciascun capitolo del libro di Methnani ha il nome di una città, che ne fa un’altra mappa dell’Italia dal Sud al Nord — da “Mazara del Vallo” a “Milano” — incorniciata da “Tunisi” e “Kairouan,” una partenza e un temporaneo ritorno.
VI. Storie di delusione
La prima autobiografia afroamericana, quella di Briton Hammon, comincia ricordando che, «col permesso del mio padrone, partii da Marshficld, con l’intenzione di fare un viaggio in mare» – che lo porterà tra gli indiani della Florida, nelle carceri di Cuba, nelle strade di Londra.26 Il progetto di “fare un viaggio” si sublima nelle storie di fuga ed evasione delle autobiografie degli schiavi, ma rimane come motivo narrativo nelle storie degli emigranti. Pap Khouma lascia la casa di suo padre, ma «la nostalgia si perde nella felicità di sentirmi indipen¬dente» (p. 20); Salwa Salem realizza lontano dal suo paese il diritto di vivere da donna «col vento nei capelli»; Salah Methnani sogna l’Italia come «un Paese incantato, felice» (p. 10); Ribka Sibhatu dice di essere andata in esilio sia «per salvarmi la vita», sia per «cercare me stessa» – due finalità che convergono in una parola sola, «libertà».
Il Passaggio Atlantico degli schiavi era una deportazione; il Passaggio Mediterraneo degli immigrati è un incerto equilibrio di costrizione e progettualità. Salah Methnani si aspetta di trovare al Nord non solo lavoro ma anche libertà; partendo per il suo viaggio si pone una domanda fondamentale:
Possiamo identificare due tipi di narrazioni, a seconda che il “passaggio” abbia luogo all’inizio o nel mezzo del racconto. Chiamerei le prime “storie di immigrazione”, dedicate interamente alle esperienze del protagonista fuori del suo paese: ne sono un esempio quelle di Khouma e Methnani. Un altro gruppo di testi, invece, dedica molto spazio all’ambiente d’origine dei protagonisti, e si avvicina quindi maggiormente a un classico modello di autobiografia come “storia di una vita” più che come descrizione di una condizione sociale: testi esemplari di questo tipo sono quelli di Nassera Chohra and Salwa Salem.
La maggior parte di questi testi esprime quello che Salwa Salem chiama “delusione occidentale”: arriva a Vienna pensando che avrebbe visto le luci, l’opera, la Filarmonica, ascoltato Mozart o Beethoven, che avrebbe studiato psicologia infantile; ma nello spazio di poche pagine l’impatto con la città è completamente diverso: un luogo buio, quasi deserto, di enormi, cupi palazzi. Qui deve confrontarsi con il razzismo, l’isolamento, la solitudine; trascorre quasi tutto il tempo chiusa nell’appartamento o in lunghe passeggiate solitarie nei parchi, con l’ombrello in mano (pp. 105, 114). L’ombrello è importante perché il tempo atmosferico – la pioggia, la neve, il freddo – è un’altra metafora ricor-rente. L’Italia ama rappresentarsi come il paese del sole, ma questi racconti par¬lano di un paese freddo, piovoso, nebbioso, notturno, ostile. Sbarcando a Roma all’inizio del suo libro, Pap Khouma esce “nel sole”; ma l’ultima pagina si chiu¬de con «Il freddo di qui, al quale non riuscirò mai ad abituarmi» (p. 143). Methnani dice lo stesso quando descrive il clima di Roma come metafora e come aggravante dei rapporti fra le persone: «Comincia a far freddo. La città sta diventando più dura, la gente più intollerante» (p. 65). La traiettoria del disap¬punto occidentale va dalla luce al buio, dal caldo al freddo.
Nel libro di Salah Methnani, la dialettica del disappunto occidentale si articola sull’equilibrio instabile fra l’identità di “emigrante nordafricano” e quella di “ragazzo che vuole vedere il mondo”.
Più che alle autobiografie degli schiavi, il libro di Methnani e Fortunato somiglia a una combinazione fra l’autobiografia di Malcolm X, con le sue storie di degrado e piccola delinquenza, e Fame americana di Richard Wright, in cui l’immigrato dal Sud rurale si scontra col gelo metropolitano di Chicago. Come Fame americana, Immigrato è costruito su una duplice emersione: arri¬vo e scoperta; delusione; nuova emersione e nuova identità. Come Wright, Methnani trova la sua identità emergendo nello spazio della scrittura.
1 Ralph Ellison, Invisible Man, Harmondsworth, Penguin, 1965, p. 17.
2 Nassera Chohra, Volevo diventare bianca, con l’assistenza di Alessandra Atti Di Sarro, Roma, Edizioni e/o, 1993, p. 13. Le citazioni successive sono indicate con i numeri di pagina nel testo.
3 Olaudah Equiano, The Life of Olaudah Equiano, or, Gustavus Vassa, Written by Himself, in Arna Bontemps, ed., Great SIave Narratives, Boston, Beacon 1969, p. 27; trad. it. in Progetto Equiano, Libri parlanti. Scritture afro-atlantiche 1760-1833, Torino, Paravia/Scriptorium, 1999, p. 125.
4 «Panorama», febbraio 1995; «Class», gennaio 1998. Sul nero come simbolo di glamor e di desiderio nella pubblicità e nella cultura di massa, cfr. Robert Orsi, Forte, nera, potente. Il discorso razzista nella cultura di massa italiana, in «I giorni cantati», 1, 1, gennaio-marzo 1987, pp. 27-30; Alessandro Portelli, Faccetta nera is beautiful, ivi., pp. 31-32; id., Su alcune forme e articolazioni del discorso raz¬zista nella cultura di massa in Italia, in «La critica sociologica», 89, primavera 1989, pp. 94-97.
5 Nassera Chohra, seminario Verso una letteratura Afroitaliana?, Festa della Federazione giovanile del Pds, Roma, 9 luglio 1993.
6 Cit. in Nicoletta Diasio, La paura di diventare bianco. Malattia e riformulazione dell’identità in un contesto migratorio: una ricerca della Caritas di Roma, in «AC-Rivista di Antropologia Culturale», 5, 1992, pp. 30-35.
7 Charles Chesnutt, Lonesome Ben, in The Short Fiction of Charles Chesnutt, ed. Sylvia Lyons Render, Washington, D.C., Howard University Press, 1981, p. 113; George S. Schuyler, Black No More [1931], Boston, Northeastern University Press, 1989, p. 148.
8 Pap Khou irta, Io, venditore di elefanti, a cura di Oreste Pivetta, Milano, Garzanti„ 1990, p. 21. Le citazioni successive sono indicate con i numeri di pagina nel testo.
9 W.E.B. DuBois, Of the Dawn of Freedom, in The Souls of Black Folk, in Writings, New York, The Library of America, 1987, p. 372.
10 Quando incontra la sua prima ragazza italiana, il protagonista di Immigrato è talmente sopraffatto che «L’unica cosa clic riesco a dire, anche per fare colpo, è che sono laureato in Lingue e conosco, oltre all’arabo ovviamente, il francese, l’inglese, un po’ di russo e l’italiano»: Mario Fortunato, Salah Methnani, Immigrato, Roma-Napoli, Theoria, 1990, p. 95. Le citazioni successive saranno indicate con i numeri di pagina nel testo.
11 Ndjock Ngana, Prigione, in ÑindôNero, pp. 134-135, Roma, Anterem Edizioni Ricerca, 1994. Il libro è una raccolta di poesia in Basaa e in italiano.
12 Phillis Wheatley, On Being Brought from Africa to America, testo e traduzione italiana in Libri parlanti cit.
13 Fernanda Farías de Albuquerque e Maurizio Jannelli Princesa, Roma, Sensibili alle Foglie, 1994, p. 57. Le citazioni successive saranno indicate con i numeri di pagina nel testo.
14 L’immagine del corpo femminile come ponte attraversato da un confine è evocata in una classica antologia di scrittura di donne americane di colore, This Bridge Cailed My Back. Writings by Radical Women of Color, a cura di Cherríe Moraga e Gloria Anzaldúa, Watertown, Mass., Persephone Press, 1981. Come quasi tutte le autrici incluse in questo libro, anche Fernanda Farías de Albuquerque è mestiza.
15 Estratto dai quaderni di Fernanda Farías de Albuquerque, in La figura di una donna, in «Caffè», 1, pp. 4-5. Ecco come il brano viene trasfigurato in Princesa (anche in base a ulteriori colloqui tra Maurizio e Fernanda): «Diana Fofao ha perso la faccia, ha perso tutto. La nasconde al sole e alla vista dei clienti. I suoi occhi: due biglie lucide affondate, sparite dentro una devastazione al silicone. La sua bocca: un taglio rosso-schifo su un pallone gommapiuma. Diana fofao s’era bombata il viso e non le restava niente. Deformata, repellente […] La materia è entrata dentro l’occhio. Diana fofao è guasta, forma andata a male. Se toglie il silicone è cieca: non vedrà più il mondo che la guarda. Senza operazione le rimane solo un mondo che la schifa. Lava i cessi e fa le pulizie dentro una pensione. Faccia senza luce, entrò in una chiesa e si tirò una corda al collo – fiore di plastica appassito» (p. 58).
16 La figura di una donna cit.
17 Hassan Itab, La tana della iena, Roma, Sensibili alle Foglie, 1991, p. 15.
18 Ribka Sibhatu, intervista con Alessandro Portelli e Maria Antonietta Saracino, Roma, 24.1.1991.
19 H. Bruce Franklin, The Victim as Crirninal and Artist, New York, Oxford University Press, l978, capp. 1, 3.
20 Ribka Sibhatu, La mia Abebà, in Aulò. Canto-poesia dall’Eritrea, Rome, Sinnos, 1993, pp. 70-73. Lo “aghelghel” è un cesto di foglie di palma usato per il pane festivo chiamato “hmbascià”. Nell’intervista citata sopra, Sibhatu ha spiegato il significato dei puntini, e ha definito lo aghelghel come un corrispettivo eritreo dell’urna greca di Keats, una metafora di bellezza oltre la morte.
21 Haim Rady, Il clandestino, in «Caffè», 2, dicembre 1994, p. 1.
22 Life and Times of Frederick Douglass, New York, Collier’s, 1962, p. 203; Richard Wright, Black Boy [American Hunger], in Works, New York, The Library of America, 1991, vol. I. p. 249.
23 Thamer Birawi, Portoghesi, manoscritto fornito dall’autore.
24 H. Rap Brown, Die, Nigger, Die, London, Allison & Busby, 1970, p. 27.
25 Salwa Salem, Con il vento nei capelli. Vita di una donna Palestinese, con l’assistenza di Laura Maritano, Firenze, Giunti, 1993.
26 Briton Hammon, A narrative of the uncommon sufferings, and surprising deliverance of Briton Hammon, a Negro man, etc., Boston, 1760.
27 Gifi Fadi, immigrato siriano anche lui di estrazione intellettuale, racconta di essere rimasto colpito dalla presenza di cultura siriana nel Foro romano, segno di una Roma imperiale già multiculturale e multietnica (int. 31.3.1992).