Le origini della letteratura afroitaliana e l’esempio afroamericano
da «L’Ospite ingrato», III, 2000
Alessandro Portelli

Prosegue oggi la proposta di una selezione di testi pubblicati nelle prime annate dell’«Ospite ingrato» in sola versione cartacea. Riproponiamo qui il saggio di Alessandro Portelli, Le origini della letteratura afroitaliana e l’esempio afroamericano, dal numero III, 2000 (pp. 67-86).

I. Diventare bianchi

«Non mi vergogno dei miei genitori perché sono stati schiavi», dice il protagonista dell’Uomo invisibile, il grande romanzo di Ralph Ellison (1952); «mi vergogno solo di me stesso per essermene un tempo vergognato».1 Nassera Chohra, nata a Marsiglia da famiglia Saharawi, residente oggi in Italia, descrive così le sue reazioni dopo la traumatica scoperta del significato della sua pelle nera: «Per una settimana mi sono vergognata moltissimo di mia madre e del colore della mia pelle, e solo ora so che non potrò mai vergognarmi abbastanza a lungo per essermi vergognata di lei».2

Non è un caso che questa narratrice franco-afro-italiana descriva le stesse reazioni di negazione e ricostruzione della propria identità, dubbio di sé e scoperta di sé, del personaggio afroamericano di Ralph Ellison. L’esperienza della letteratura afroamericana, infatti, costituisce un’utile guida per accedere alla scrittura della migrazione in Europa dall’Africa, dall’Asia, e dall’America Latina.

Dopo aver scoperto di essere nera — o meglio, dopo aver scoperto che cosa significa essere nera in una società bianca, Nassera Chohra ricorda:

Corsi in casa come una furia alla ricerca di uno specchio. Ne trovai uno in fondo a un cassetto: era piccolo, con un graffio proprio nel mezzo. Non importa — pensai — per quel che mi serve è perfetto. Mi osservai a lungo, toccavo la guancia con l’indice della mano destra per vedere se, per una qualche magia, si riuscisse a far sparire un po’ di quel colore che mi riempiva tutta. (p. 11)

Anche questo passo ci riporta alle origini della scrittura africana in Europa. Olaudah Equiano, nato in Benin a metà del 1700 e deportato come schiavo in Inghilterra e nei Caraibi, scrive nella sua autobiografia pubblicata a Londra nel 1789:

Avevo notato spesso che quando [la madre di una bambina inglese] le lavava il viso questo sembrava molto roseo, ma quando lavava il mio non succedeva. Perciò io stesso provai più volte se non riuscissi, lavandolo, a rendere il mio viso dello stesso colore della mia piccola compagna di giochi Mary, ma fu tutto inutile, e allora cominciai a sentirmi mortificato della differenza fra i nostri incarnati.3

Le differenze, tuttavia, sono importanti quanto le somiglianze. Al tempo di Equiano, il colore nero era uno stigma, il segno di Caino o il marchio di Cam; due secoli dopo, il nero è diventato più ambiguo. Sebbene il razzismo non sia certo meno pervasivo di allora, tuttavia la cultura di massa ci offre anche immagini del nero come ambiguamente desiderabile: copertine di riviste con bellissime immagini femminili nere, proclamano “l’attrazione dell’altro colore” e spiegano “perché gli uomini preferiscono il nero”; ed esistono gruppi di musica pop con nomi come Vorrei la Pelle Nera o Neri per Caso.4

Il nero rendeva “invisibile” il protagonista di Illison; adesso, “riempie” Nassera Chohra come una malattia, ma è anche una via per rendersi visibile. Lo specchio della sua infanzia, infatti, diventa lo schermo cinematografico della sua adolescenza, quando gravita verso il mondo della moda e dello spettacolo:

Come tutte le ragazze, sognavo di fare l’attrice, cercavo disperatamente di essere un’attrice, ho fatto tutti i provini, e non ero mai giusta. Di nuovo, il problema del colore – era troppo scuro o troppo chiaro, non avevo mai il colore giusto.5

Mai il colore giusto: una buona metafora di un’identità indefinita, in transizione. In questa rete di ambiguità, di contro al desiderio nero di diventare bianchi e al desiderio bianco di avere la pelle nera, troviamo l’incubo nero di diventare bianchi, come segno di perdita di presenza, potenza, significato. Una giovane immigrante somala, per esempio, dice che da quando è in Italia sente che la pelle le si schiarisce, e ha paura di stare diventando bianca.6 Anche questo incubo non è senza precedenti nella letteratura dei neri d’America. In Lonesome Ben, un racconto di fine ‘800 di Charles Chesnutt, uno schiavo fugge lasciandosi indietro la famiglia e gli amici, e a mano a mano comincia rendersi conto che sta perdendo il colore. D’altra parte, molte storie di neri dalla pelle chiara che “passano” per bianchi sono dominate dal senso di stare scomparendo (vanishing).7 Anche l’immersione nella società europea può venire associata a un senso di perdita: il senegalese Pap Khouma, per esempio, scrive nella sua autobiografia pubblicata in Italia che suo padre era un guaritore, discendente da generazioni di guaritori, ma «i suoi poteri diminuirono dopo un viaggio in Europa, a Parigi. Chissà che cosa gli sarà successo a Parigi. Ha perso i poteri, al contrario dei suoi fratelli che guaritori lo sono ancora».8

II. Linee del colore

Nel 1903, il grande saggista e sociologo afroamericano W.E.B. DuBois scriveva che «il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore». Questo confine, aggiungeva, era tracciato attraverso «l’Africa e l’Asia, l’America e le isole dell’oceano».9 Sembrava quindi che l’Europa non vi fosse coinvolta. Ma da quando la diaspora africana ha intensificato il suo movimen¬to verso il nord, al “passaggio atlantico” della tratta degli schiavi si è venuto aggiungendo un “passaggio mediterraneo” al quale pure si applica l’intuizione di DuBois. L’Italia si è a lungo pensata etnicamente omogenea, anche se regio¬nalmente divisa; perciò, l’afflusso di immigrati da fuori dell’Europa ha costi¬tuito uno shock culturale non indifferente. Contro ogni evidenza storica, gli ita¬liani si sono cullati a lungo nella persuasione di essere immuni dal razzismo e dalle sue conseguenze; e peraltro la brevità e brutalità dell’esperienza colonia¬le italiana non ha permesso la formazione di élite culturali italofone nei paesi colonizzati, da cui potesse nascere una letteratura africana in italiano analoga a quella che si è sviluppata in ex colonie inglesi, francesi, portoghesi.

D’altra parte, il Passaggio Mediterraneo è meno sanguinoso e drammatico del Passaggio Atlantico. L’emigrazione non è la stessa cosa della deportazione e la condizione di proletariato sia pure marginale non è la stessa cosa della schiavitù. Una delle differenze più notevoli è che una notevole percentuale degli immigrati è poliglotta e alfabetizzata, per quanto spesso costretta al silenzio.10 Gli immigrati mantengono memoria delle proprie lingue e culture d’origine; restano in contatto coi propri paesi e le proprie famiglie; non hanno bisogno di “rubare” la scrittura come gli schiavi deportati in America. Tuttavia, forse proprio perché le barriere che deve superare sono meno drammatiche, la scrittura degli immigrati ha attratto meno attenzione: i critici letterari l’hanno scartata con affrettati giudizi di scarsa qualità, gli scienziati sociali vi hanno visto solo documenti e testimonianze di esperienza vissuta e non anche prodotti di immaginazione creativa.

Ci sono voluti due secoli prima che Phillis Wheatley, la prima poetessa afroamericana, venisse riconosciuta come un’artista e non come un fenomeno da baraccone. Dovremo aspettare duecento anni prima di accorgerci della differenza nascosta inserita nelle figure e nei processi creativi della letteratura liana degli immigrati?

III. Forme di duplicità

Vorrei cominciare da un testo che ha quasi uno statuto canonico per chi si occupa di queste cose. L’autore è il poeta camerunese Ndjock Ngana, conosciuto in italiano anche col nome di Teodoro.

Vivere una sola vita
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo
è prigione.
[…]
Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume
una sola civiltà,
conoscere una sola logica
è prigione.

Avere un solo corpo,
un solo pensiero
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere
è prigione.

U niñik ndigi niñ yada,
nkoñ wada,
loñ yada,
mbok yada
u niñik ndigi i mbai yada
wee u yé i mok.

U yik ndigi hop wada
bôlô yada
ngobok yada
ntén ni wada
u honlak ndigi ka yada
wee u yé i mok.

U banga ndigi nyu yada
mahoñol mada
i yada
iu hiada
u banga ndigi libak jada
wee u yé mok.11

Questa poesia ha molti punti di contatto con un altro famoso passo dello stesso saggio di DuBois, in cui parla dell’afroamericano come di una persona«nata con un velo, e dotata di una seconda vista in questo mondo americano»:

È una strana sensazione, questa doppia coscienza, questo senso di guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri, di misurare la propria anima col metro di un mondo che ti guarda con divertito disprezzo e compassione. Uno sente sempre questa dualità [two-ness], un americano, un negro; due anime, due pensieri, due tensioni inconciliate; due ideali in guerra dentro un solo corpo scuro, che solo per la sua ostinata forza non ne viene lacerato.

Il brano di DuBois è esso stesso doppio: da un lato, la dualità dona ai neri una “seconda vista,” ma dall’altro li lacera, li fa a pezzi. Ndjock Ngana, poeta dal doppio nome, nel suo libro bilingue dal doppio titolo sulla cui copertina appaiono due maschere (una bianca e una nera), sembra tendere più verso la prima delle due alternative: la dualità come saggezza, seconda vista.

Come la famosa e controversa poesia in cui Phillis Wheatley ringraziava la divina provvidenza per averla portata dall’Africa all’America, dai paganesimo alla conoscenza delle Grazia,12 anche questa poesia di Teodoro è una rivendi¬cazione di inclusione. Wheatley finiva ricordando ai suoi cristiani lettori che anche «i Negri, neri come Caino, possono affinarsi e far parte del corteo degli angeli» in un aldilà multiculturale; Teodoro, specularmente, avverte i sui lettori che abbiamo tutto da guadagnare dall’inclusione del nero nel nostro mondo materiale. Teodoro, tuttavia, differisce da Wheatley nella misura in cui propo¬ne il sincretismo e l’interiorizzazione della differenza anziché l’assimilazione e l’“affinamento”. A prima vista, la poesia è rivolta agli europei, ai bianchi; ma contiene anche un messaggio anti-essenzialista per i lettori neri: anche loro sbaglierebbero se si rinchiudessero in una “essenza” africana. Per entrambi, la metafora della prigione significa l’esclusione dell’alterità da se stessi.

Mentre Ndjock Ngana vede la molteplicità solo come liberazione, altri testi dell’immigrazione rinviano alle tensioni inconciliate, agli ideali in guerra entro un unico corpo di cui parlava DuBois, e ribadiscono l’aspetto tragico e doloroso della dualità, la penosa lacerazione dell’identità e della coscienza nel passaggio.

Princesa, l’(auto)biografia di Fernanda Farías de Albuquerque, una transessuale brasiliana, è la storia di una persona che ha letteralmente due lingue, due nomi, due corpi. È la storia di come Fernando diventa Fernanda, di un corpo di donna che lotta per emergere da un corpo di uomo, sotto l’effetto degli ormoni e sotto le mani delle bombadeiras brasiliane:

Anaciclin, sempre quattro pasticche al giorno. Fermando si consuma lentamente. Il pene rimpicciolisce, i testicoli si ritirano, i fianchi si allargano. Fernanda cresce. Pezzo dopo pezzo, gesto su gesto, io dal cielo scendo in terra, un diavolo – uno specchio. Il mio viaggio.13

Transatlantica, travestita, transessuale – traduzione, trascrizione: un margine, un ponte, un oltre.14 La storia di Fernanda è quella di un corpo che viene letteralmente lacerato e ricomposto in una molteplicità di passaggi, di un’ansia inconciliabile di essere e del dolore che costa diventare. Nata in Brasile, Fernanda lavora sulle strade notturne di molte città prima di rovesciare il pas¬saggio atlantico e arrivare dall’America in Europa, prima in Spagna e poi in Italia. Qui, finisce in carcere – progetto di donna rinchiusa in un carcere maschi¬le come il suo corpo femminile chiuso in un corpo di uomo.

Sui marciapiedi della grande metropoli, Severina la bombadeira espone i suoi capo-lavori. Corpi bombati, levigati, siringati al silicone. Sfarfallio mai visto di numeri e Fantasie. Mille modelli al desiderio mi confondono d’incanto, di paura. […] Ebbi un’esitazione: “Ho paura, Severina”. “Come paura? Se vuoi diventare una donna prima c’è il dolore…” (pp. 58-9)

Essere una donna significa passare per il dolore, e il racconto è intessuto di sofferenza fisica: aggressioni, stupri, brutalità poliziesca, eroina, AIDS, carcere. Ma forse il momento più drammatico è la combinazione del piano fisico e del piano simbolico nella scena iniziale dello specialissimo “passaggio” di Fernanda. È una scena paradossalmente simile a tante scene di parto e di abor¬to in letteratura – anzi, una combinazione delle due:

Novembre millenovecentottantacinque, Severina, nella sua casa, mi bomba i fianchi con iniezioni di silicone liquido. Senza anestesia.

Leggere una accanto all’altra la storia della vita di Fernanda e la poesia di Teodoro ci permette di cogliere qualcosa di più della esplicita differenza tra multiculturalismo come speranza e come sofferenza. La figura del corpo molteplice, come esperienza o come metafora, è un commento essenziale all’idea¬le postmoderno del soggetto molteplice e frammentato. In molta teoria post-moderna, la crisi del soggetto unitario è salutata come un evento liberatorio, l’aprirsi di una possibilità antiautoritaria. A parte il suo tono un poco roman¬ticamente esortatorio, la poesia di Teodoro rappresenta anch’essa l’uscita dalla “prigione” dell’identità e della logica logocentrica. D’altra parte, per chi ha subito l’esperienza del colonialismo, del razzismo, dello sfruttamento di clas¬se e del sessismo, la frammentazione ha voluto dire il più delle volte anche vio¬lenza e dolore, ed è questo il caso di Fernanda. La sua lotta non consiste nel negare e distruggere il soggetto, ma nel costruirsi come tale, manipolando il proprio corpo perché corrisponda all’identità che si è scelta. Come il cyborg, postmoderna metafora di sessualità e identità trans-genere, Fernanda crea se stessa per mezzo di impianti e silicone. Ma il risultato non è la realtà virtuale di una sessualità immaginata, bensì un’approfondita esplorazione del dolore.

IV. Dualità e scrittura

In questi due testi, come in gran parte della letteratura del Passaggio Mediterraneo, la dualità diventa un principio organizzatore della scrittura. Per prima cosa, le lingue: il libro di Ndiock Ngana, come gran parte dei libri di poesia degli immigrati, è bilingue, con l’originale Basaa a fronte con la versione italiana dello stesso autore. Princesa, a sua volta, introduce il portoghese già nel titolo, e lo mantiene in parole cruciali (bombadeira). In realtà, Princesa ha preso forma attraversando molte lingue: la protagonista è stata incoraggiata a raccontare, in carcere, da un pastore sardo condannato all’ergastolo che le ha insegnato il sardo quando ancora non padroneggiava l’italiano; sulla base degli appunti da lei scritti in questa lingua ibrida, il testo finale è stato poi redatto in italiano standard da Maurizio Jannelli, in carcere per partecipazione a un gruppo armato. É un peccato che, oltre questa versione, non sia stato ancora pubblicato anche il manoscritto originale, con la sua fantastica ibridazione di portoghese vernacolare, sardo, italiano di strada, molto più affine di ogni altro testo finora apparso all’italiano contaminato dell’immigrazione, e molto più segnato dallo sforzo di dare forma a cose ignote:

Diana si chiamava il transse con 35 anni di età un corpo perffetto, fatto di silicone, ma haveva il vizio deformatto, il suo vizio spaventava qualsiasi persona, imagina hei cliente. Lei tchera una grande dificolta per lavorare perché qualsiasi uomo quando vedeva il suo vizio scapava. Di giorno non usciva mai, che moriva di vergogna, il vizio sembrava due palone, il collo era come un congomenllo. Devito il defformato del vizio, hanno messo il suo nome; Diana, Fofao, Fofao voi dire una cosa piena grossa, come un palone […]

Un giorno li ho questo per che non fasceva una cirurgia plastica, mi dice lei si fasceva la cirurgia plastica perdeva un occhio che già aveva penetrato il silicone al ochio. Poi eranon tanti soldie. Poi nel anni di 87, si uscide inpicata Diana dentro di una chiesa a San Paolo.15

Come la prima letteratura afroamericana, tuttavia, anche la scrittura dell’immigrazione in Italia cerca inizialmente la lingua standard. Quando Ribka Sibhatu, una giovane scrittrice eritrea, mi chiese di leggere il suo manoscritto, trovai alcu ne piccole imperfezioni linguistiche, e le suggerii di lasciarle, se non altro come traccia del lavoro compiuto per esprimersi in una lingua straniera. Lei scelse tut¬tavia di correggerle dicendo che il libro era destinato a bambini africani che vivo¬no in Italia, che avevano bisogno di imparare la lingua correttamente.

In altri termini: il periodo di prova per gli scrittori dell’immigrazione non è ancora finito, e il riconoscimento letterario dell’italiano che effettivamente parlano non è ancora compiuto (e quindi la lingua italiana non si avvale ancora pienamente del loro contributo di invenzione e innovazione). Appaiono parole isolate per le quali non esiste un corrispettivo italiano; eventuali espres¬sioni in arabo o in lingue africane vengono spiegate nelle note; si sottolineano casi specifici di varianti dell’italiano nel linguaggio dell’immigrazione (Pap Khouma, per esempio, spiega che i senegalesi chiamano “zii” i poliziotti per¬ché, come gli anziani al suo paese, vogliono controllare la vita della gente).

A volte, la lingua è discussa esplicitamente: come difficoltà da superare, crome maschera protettiva di finta ignoranza o di ironia contro le autorità (Khouma, 84), come deliberata adozione dello stereotipo (Fortunato-Methnani, 58), come modo per acquisire autorità, un “passo avanti” per quelli che diventano interpreti o mediatori (Khouma, 102). Ma l’obiettivo resta la correttezza linguistica: così, l’inizio e la fine di Immigrato di Salah Methnani sono incorniciati dal fallimento iniziale e dal successo finale nel pronunciare correttamente la parola “dieci”.

D’altra parte, il bilinguismo implicito nella storia degli autori o nella formazione dei testi predispone un’altra forma di dualità: quella degli autori. Dietro ogni testo c’è un traduttore, un curatore, un intervistatore, un trascrittore. Questa complessa struttura del ruolo autoriale è una delle analogie più signifi¬cative tra la letteratura “afroitaliana” e quella afroamericana, anche se nei testi del Passaggio Mediterraneo la collaborazione è dichiarata molto più esplicitamente. Spesso, già sulla copertina appaiono due nomi, uno straniero e uno italiano: Maurizio Jannelli e Fernanda Farías de Albuquerque, Mario Fortunato e Salah Methnani. Altre volte, il secondo autore appare solo come curatore: Oreste Pivetta in lo, venditore di elefanti di Pap Khouma, Laura Maritano in Con il vento nei capelli di Salwa Salem, Alessandra Atti di Sarro in Volevo diventare bianca di Nassera Chohra. Persino quando autore e traduttore sono la stessa persona, possiamo trovare due nomi sulla copertina: Ndjock Nana e Teodoro.

Nei primi testi afroamericani, i nomi dei curatori bianchi comparivano soltanto nel materiale paratestuale, con lo scopo di autenticare la narrazione. Tuttavia, il discorso del protagonista nero veniva tenuto formalmente separato da quello dello sponsor bianco, per una finzione di autenticità. Nella scrittura dell’immigrazione contemporanea, invece, l’esplicita dichiarazione della collaborazione avvenuta funziona sia come procedura di autenticazione, sia come costruzione del testo come discorso dialogico. Gli scrittori immigrati, tuttavia, hanno spesso con i loro co-autori le stesse difficoltà dei loro predecessori afroamericani. Così, Nassera Chohra spiega di avere scritto in italiano «perché era la cosa naturale da fare», dato che era in Italia; ma aveva dovuto difendere il suo testo dai tentativi della sua curatrice italiana che voleva ren¬derlo più appetibile modificando la storia e snaturando il punto di vista infan¬tile della narratrice bambina.

Lo sdoppiamento della funzione autoriale comporta anche un’autorità divi, sa, o condivisa. Nel doppio nome sulla copertina, lo scripteur europeo sta alle spalle del narratore immigrato per autorizzare e certificare. Il materiale editoriale e paratestuale insiste sempre sulla trasparenza del linguaggio usato, descritto come «limpido e diretto» nel risvolto di copertina di Immigrato così come era definito «artless» e «unadorned», senza artifici né ornamenti, nella prefazione all’autobiografia di Briton Hammon nel 1760: sembra, insomma, che neri o immigrati non abbiano diritto a una ricerca estetica ma possano solo essere veicoli di trasparenti testimonianze. A volte, anche i titoli sono retti dalla stessa retorica: Immigrato o Io, venditore di elefanti definiscono l’autore in quanto membro di una categoria e fanno della sua storia un caso tipico più che vicenda di un individuo, proprio come l’apposizione “an American negro,” “a American slave” ai nomi degli autori delle autobiografie afroamericane.

L’esempio più clamoroso di questa soppressione del dato individuale e dell’intenzione letteraria è quello di Immigrato, scritto da Salah Methnani con Mario Fortunato come romanzo (sia pure basato sulle sue esperienze), ma accettato per la pubblicazione solo come autobiografia, come se un immigrato non potesse darci altro che la materia non elaborata dell’esperienza e non avesse diritto a rielaborarla immaginativamente. Eppure, molti di questi testi mostrano i segni di un’intenzione letteraria. Ad esempio, quasi tutti usano come tempo della narrazione il presente storico, che rinvia meno alla comunicazione orale che a un progetto di coinvolgimento emozionale del lettore.

Il caso più complesso di autorità duale, divisa e condivisa, è, ancora una volta, Princesa. Anziché limitarsi a mettere in ordine il manoscritto di Fernanda Farías per la pubblicazione, Maurizio Jannelli ne ha fatto il materiale per un suo viaggio dell’immaginazione lontano dal carcere:

Raccolta la storia per me è iniziato il sogno. Sono entrato dentro una sorta di allucinazione personale […] Insomma, brevemente, è accaduto questo: dentro la mia celletta sono cominciati a entrare prima i diavoli. Il diavolo, io non capivo la sua importanza. Era presente pervasivamente in ogni pagina scritta da Fernanda […] Più difficile è stato l’altro viaggio, quello nel corpo. Scrivere un’autobiografia in due implica un cortocircuito. Uno dei due deve vestire i panni dell’altro. Ed io mi sono trovato un po’ a interpretare e entrare nei panni del transessuale. E devo dire che questa è stata l’esperienza più ricca, che mi ha letteralmente scaraventato dentro le ragioni dell’Altro.16

In altre parole, come spiega Jannelli, “Fernanda” è una cosa e “Princesa” un’altra – una è la protagonista di un’autobiografia, l’altra il personaggio di un libro. L’autobiografia di Fernanda e l’immaginazione di Maurizio sono inestricabilmente intrecciate nello stesso libro. È difficile decidere se Jannelli ha usato le parole di Fernanda Farias come materiale bruto dandogli forma a modo suo come la bombadeira aveva fatto col suo corpo (peraltro, su richiesta di lei), o se invece è stato lui ad estrarre il senso profondo della storia di lei, come il corpo femminile che emerge da quello maschile. A Fernanda non sembrava che l’operazione dispiacesse, e lasciava che fosse Maurizio a parlare nelle appari¬zioni in pubblico, quando erano tutti e due in libertà provvisoria e lei lavora¬va come segretaria nella cooperativa editoriale di detenuti che aveva pubblica¬to il libro. Né lei, né i media, né quegli intellettuali (tra cui anch’io) che avevano dato risalto al libro e alla sua storia si erano resi conto di quanto profonda fos¬se la frammentazione. Tutti ragionavano come se Fernanda fosse Princesa, quando era ancora, e soprattutto, Fernanda. Quando non ha più retto, è scom¬parsa. La ritrovarono che lavorava in strada, la riportarono in carcere; di lì, tornò in Brasile dove morì suicida.

V. Scene della scrittura: la prigione e la strada

La prigione è un’altra immagine che troviamo in Princesa e nelle poesie di Ndjock Ngana. Infatti, la prigione è sia un’esperienza diffusa sia una metafora inevitabile in molta scrittura dell’immigrazione. Sul piano dell’esperienza, è una conseguenza inevitabile della condizione marginale, spesso illegale, dei prota-gonisti: «Tutti in galera. Per un’ora, per un giorno, per una settimana. L’umore dello zio è variabile. L’accusa è sempre la stessa: clandestini a bordo» (Khouma, p. 63), oltre che della memoria della repressione per gli esuli politici. Su! piano metaforico, rappresenta la condizione di frustrazione, costrizione, invisibilità dell’emigrato e dell’esule.

Hassan Itab, guerrigliero palestinese responsabile di un attacco terroristico a Roma dopo le stragi di Sabra e Chatila, combina le due prospettive, scrivendo da un carcere italiano dove crede di essere in attesa dell’esecuzione capitale «Chiuso dentro una cella 24 ore su 24. Chiuso nel silenzio. Chiuso nell’attesa che la decisione venisse presa».17 Ribka Sibhatu, esiliata politica dall’Eritrea, parla anche lei del tempo trascorso in carcere aspettando la morte:

Per esempio, siccome è senza processo, ogni sera, ogni volta che sentivamo quei piedi che arrivavano alla casa, ci sembrava, che venivano a portare – siccome non c’era processo, non si sapeva come andavano le cose; quindi, dieci mesi, ogni giorno la vita è a rischio in tensione, perché, portano uno per uno. Allora, appena sentiamo le manette, e i piedi che fanno [marca il suono dei passi], tocca a me. E la sera non è che abbiamo paura per la nostra vicina, solo per noi; è l’indomani che piangiamo, che si piange per la ragazza presa.18

In The Victim as Criminal and Artist, H. Bruce Franklin identifica il carcere (e quella sua variante che è la piantagione schiavista) come una fonte essenziale di narrazioni afroamericane, dagli spiritual ai canti di lavoro alle autobiografie.19 Al di là del dato empirico della condizione di illibertà dei narratori, Franklin sottolinea il ruolo simbolico del carcere come scena della scrittura, e quindi della scrittura come atto di resistenza: il prigioniero crea nel linguaggio uno spazio di libertà che è fisicamente negato dallo spazio in cui scrive. Questo vale anche per molta scrittura dell’immigrazione: Fernanda Farías de Albuquerque, per esem¬pio, spiega che la sua storia non è stata solo un’alternativa al suicidio ma anche un modo di negare il carcere. Scritto in prigione, il libro finisce con il ricordo di una compagna che ci è morta, e con il rifiuto di parlarne:

Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e forbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e dispera¬te. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro infer¬no dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare (p. 103).

Ribka Sibhatu a sua volta parla di una compagna che è morta in prigione in Africa, e anche lei connette la prigione con il silenzio. I puntini che spezzano la sua poesia, spiega, sono sia un segno del silenzio che segue la morte, sia la traccia delle pallottole che l’hanno uccisa:

[…]
Perché il mondo comprendesse,
mentre scavavano la sua fossa,
avvolta nella morte misteriosa,
intrecciò un aghelghel
e lo mandò senza hmbascià.
In un’intensa notte,
me la rapirono con le manette!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ogni giorno è assente,
ma nel buio è onnipresente!

Poiché non vuole separarsi da me
portatemi l’aghelghel della mia Abebà:
forse è lì la risposta,
la chiave delle sue manette,
che ora stringono me.20

Le catene di silenzio di Abebà si stringono attorno ai polsi di Ribka Sibhatu; Hassan Itab à sua volta è «rinchiuso nel silenzio»; e Fernanda non può parlare del tempo trascorso in carcere. Il carcere, insomma, è anche uno stato d’animo, una sfera di silenzio che deve essere rovesciata per diventare la scena della scrit¬tura. Anche questo è un processo familiare nella letteratura afroamericana: «La mia cella divenne la mia cappella», scrive John Marrant nella sua autobiografia (1785); e in un testo ormai classico, Incidents in the Life of a Slave Girl, la schia¬va fuggiasca Harriet Jacobs racconta dei sette anni in cui visse nascosta, ran¬nicchiata in una soffitta per sfuggire al padrone che la cercava. Una piccola e stretta stanza in cima a una scala diventa il luogo della memoria e della scrittu¬ra per Haim Rady, poeta marocchino immigrato, illegalmente, in Sicilia. La poesia si intitola Clandestino:

Adesso io abito
nella piccola stanza di sopra
ma è troppo stretta per il mio futuro,
e i miei sogni si sono confusi.
Mi dicono sempre: “Lasciati andare e dimentica”
Ma come posso farlo?
Come posso dimenticarmi
e cacciare quella voce
che non cessa mai di chiamarmi?21

Se il carcere designa l’invisibilità sociale e il silenzio obbligato, un altro spa¬zio costituisce nella scrittura afroamericana e in quella afroitaliana il correlati¬vo immaginario dello spaesamento e della marginalità da un lato, ma anche di un’ambigua visibilità e mobilità: la strada. Nelle strade di New York, lo schia¬vo fuggiasco Frederick Douglass prova un senso di «solitudine e insicurezza»; Richard Wright, immigrato a Chicago, è «depresso e sgomento» davanti alle «piatte nere distese di Chicago»,22 Salah Methnani scrive della vita di strada degli immigrati a Roma:

La mattina ci si ritrova, per la prima colazione, al Centro [di accoglienza] di piazza Bologna, poi a Colle Oppio per il pranzo, una doccia nel pomeriggio in via Marsala, e così via […] La sera, poi, si riuniscono tutti davanti al grande schermo della stazione Termini. A poco a poco, ho imparato a riconoscere i luoghi di appuntamen¬to, secondo le etnie e le provenienze. Roma ha una mappa alternativa a quella che trovi allegata alle Pagine Gialle […] un’autentica topografia di secondo livello, questa, una sorta di circuito underground alla luce del sole… (p. 57)

Le due metafore principali qui sono la mappa alternativa e il rovesciamen¬to dello spazio. Methnani insiste sulla figura della mappa, ironico “arabesco” per questo arabo migrante:

Compro una mappa della città e di metto a studiarla. Strano: distesa sulla carta, Torino sembra più incomprensibile. Le linee delle strade, invece di dipanarsi in una possibile lettura, si aggrovigliano, si contorcono fino a comporre una ragnatela, un arabesco che non ha né capo né coda. Getto la mappa in un cestino dei rifiuti. (p. 102)

E un poeta palestinese, Thamer Birawi, articola il rovesciamento dello spazio parlando di una Roma notturna dove le tombe si aprono e i morti girano con le mani sulla testa, senza scarpe, senza denti, senza documenti.23

«La strada è dove i bambini neri si fanno un’istruzione», scriveva Rap Brown, leader del Black Power negli anni ’60: non solo un luogo di marginalità, ma anche di virtuosismo e creatività verbale.24 La strada è dove gli immigrati passano gran parte del loro tempo, perché non hanno un altro posto dove sta¬re e, soprattutto, perché è lì che svolgono molti dei mestieri a cui hanno acces¬so – venditori ambulanti (come Pap Khotirna e Salah Methnani), o lavatori di vetri ai semafori, o altro ancora. Fernanda Farías de Albuquerque lavorava in strada come prostituta; il protagonista di Immigrato spaccia droga nelle vie di Firenze. Poiché stanno così tanto in strada, sono molto visibili, sembrano più numerosi, e questo alimenta le paranoie razziste.

Allo stesso tempo, come anche nella letteratura afroamericana, dalla vita sulla strada deriva in questi testi anche un forte elemento picaresco: vagabondaggi e vagabondi, pensioni e case abbandonate, angoli di strade e spiagge, com-missariati, metropolitane, stazioni: «Il treno, che i nordafricani chiamano el fajaa (vuoi dire angoscia, pericolo), è l’ultima alternativa alle pensioni e ai cen¬tri di prima accoglienza» (Immigrato, p. 54). Il treno infine esprime sia la condizione dei senza casa, con l’angoscia e la paura che ne derivano, sia un elemento di mobilità, e quindi una possibilità di libertà. Questi libri sono pieni di treni, aerei, automobili. Ogni sezione dell’autobiografia della palestinese Salwa Salem prende il nome da uno dei paesi in cui ha vissuto: la sua città nativa di Nablus, e poi “Kuwait 1959-1966,” “Vienna 1966-1970,” “Italia 1970-1992”.25 Allo stesso modo, ciascun capitolo del libro di Methnani ha il nome di una città, che ne fa un’altra mappa dell’Italia dal Sud al Nord — da “Mazara del Vallo” a “Milano” — incorniciata da “Tunisi” e “Kairouan,” una partenza e un temporaneo ritorno.

VI. Storie di delusione

La prima autobiografia afroamericana, quella di Briton Hammon, comincia ricordando che, «col permesso del mio padrone, partii da Marshficld, con l’intenzione di fare un viaggio in mare» – che lo porterà tra gli indiani della Florida, nelle carceri di Cuba, nelle strade di Londra.26 Il progetto di “fare un viaggio” si sublima nelle storie di fuga ed evasione delle autobiografie degli schiavi, ma rimane come motivo narrativo nelle storie degli emigranti. Pap Khouma lascia la casa di suo padre, ma «la nostalgia si perde nella felicità di sentirmi indipen¬dente» (p. 20); Salwa Salem realizza lontano dal suo paese il diritto di vivere da donna «col vento nei capelli»; Salah Methnani sogna l’Italia come «un Paese incantato, felice» (p. 10); Ribka Sibhatu dice di essere andata in esilio sia «per salvarmi la vita», sia per «cercare me stessa» – due finalità che convergono in una parola sola, «libertà».

Il Passaggio Atlantico degli schiavi era una deportazione; il Passaggio Mediterraneo degli immigrati è un incerto equilibrio di costrizione e progettualità. Salah Methnani si aspetta di trovare al Nord non solo lavoro ma anche libertà; partendo per il suo viaggio si pone una domanda fondamentale:

Sto partendo come un emigrante nordafricano o come un qualsiasi ragazzo che vuo¬le conoscere il mondo? (p. 14)

Come le autobiografie afroamericane dei fuggiaschi e dei migranti che dal Sud schiavista e razzista si spostano verso un gelido Nord, anche questi testi possono essere definiti “racconti di emersione”: la direzione del movimento è la stessa, da Sud a Nord, dal caldo al freddo, da un ambiente spesso descritto come soffocante o “limitante” (Salem, p. 157) agli spazi aperti delle metropo-li. Ecco come Pap Khouma descrive il suo sbarco a Roma:

Comunque io scendo col piede giusto, come prescritto dall’indovino. E infatti mi lasciano passare con facilità. Andiamo avanti, fino al cartello della dogana. Sbirciano le nostre cose, i documenti, le borse. E basta. Siamo davvero entrati. Questa ormai è l’Italia. Sono fuori dell’aeroporto, sulla strada, all’aperto e al sole. (p. 26)

Tuttavia, mentre nella classica autobiografia afroamericana l’emersione al Nord è quasi sempre la fine della storia, nei racconti degli immigrati è quasi sempre solo l’inizio di una nuova immersione. I loro racconti infatti non insistono tanto su ciò da cui l’emigrante è uscito, quanto su quello che scoprono nel paese d’arrivo. Le storie hanno inizi forti, con nette separazioni e vivide speranze – e finali incerti, non conclusi, indecisi.

Possiamo identificare due tipi di narrazioni, a seconda che il “passaggio” abbia luogo all’inizio o nel mezzo del racconto. Chiamerei le prime “storie di immigrazione”, dedicate interamente alle esperienze del protagonista fuori del suo paese: ne sono un esempio quelle di Khouma e Methnani. Un altro gruppo di testi, invece, dedica molto spazio all’ambiente d’origine dei protagonisti, e si avvicina quindi maggiormente a un classico modello di autobiografia come “storia di una vita” più che come descrizione di una condizione sociale: testi esemplari di questo tipo sono quelli di Nassera Chohra and Salwa Salem.

La maggior parte di questi testi esprime quello che Salwa Salem chiama “delusione occidentale”: arriva a Vienna pensando che avrebbe visto le luci, l’opera, la Filarmonica, ascoltato Mozart o Beethoven, che avrebbe studiato psicologia infantile; ma nello spazio di poche pagine l’impatto con la città è completamente diverso: un luogo buio, quasi deserto, di enormi, cupi palazzi. Qui deve confrontarsi con il razzismo, l’isolamento, la solitudine; trascorre quasi tutto il tempo chiusa nell’appartamento o in lunghe passeggiate solitarie nei parchi, con l’ombrello in mano (pp. 105, 114). L’ombrello è importante perché il tempo atmosferico – la pioggia, la neve, il freddo – è un’altra metafora ricor-rente. L’Italia ama rappresentarsi come il paese del sole, ma questi racconti par¬lano di un paese freddo, piovoso, nebbioso, notturno, ostile. Sbarcando a Roma all’inizio del suo libro, Pap Khouma esce “nel sole”; ma l’ultima pagina si chiu¬de con «Il freddo di qui, al quale non riuscirò mai ad abituarmi» (p. 143). Methnani dice lo stesso quando descrive il clima di Roma come metafora e come aggravante dei rapporti fra le persone: «Comincia a far freddo. La città sta diventando più dura, la gente più intollerante» (p. 65). La traiettoria del disap¬punto occidentale va dalla luce al buio, dal caldo al freddo.

Nel libro di Salah Methnani, la dialettica del disappunto occidentale si articola sull’equilibrio instabile fra l’identità di “emigrante nordafricano” e quella di “ragazzo che vuole vedere il mondo”.

Ora invece, senza un lavoro sia pure minimo, e con i soldi che diminuiscono pericolosamente, mi sento di colpo restituito a una realtà che non riesco, che non voglio accettare. Sono costretto a non vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato all’estero. Non sono già più un ragazzo elle vuole viaggiare e conoscere. No: di colpo, mi scopro a essere in tutto e per tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa, clandestino. (pp. 25-26)

Ha tanto sentito parlare di Roma e dei suoi monumenti che si sente come a casa sua quando ci arriva: «Potrei andare a visitare la Cappella Sistina e i musei Vaticani. Potrei andare a spasso per i Fori Imperiali. Ricordo di avere studiato la storia di Roma antica e di essermene appassionato, tanti anni fa. Non voglio più essere dominato dall’immagine del clandestino cui sono negati piaceri e desideri» (p. 52).27 Ma subito dopo continua: «Poi, come tutti gli altri immigrati della capitale, me ne vado a zonzo nei pressi della stazione Termini». Nella nebbiosa Torino, va al Museo Egizio, ma «anche lì mi sento un intruso. La mia maschera si sfalda già nella prima sala del museo» (p. 102). La storia di emersione si trasforma in storia di delusione, e la spirale discendente culmina in un incontro omosessuale e una breve esperienza come drogato e spacciatore nelle strade di Firenze: «Mi muovo con l’andatura tipica dei tossici: a piccoli passi, nervosi e saltellanti. Anch’io sono un tossico, adesso. Un tossico clandestino. Finalmente, ho un’identità» (p. 80).

Più che alle autobiografie degli schiavi, il libro di Methnani e Fortunato somiglia a una combinazione fra l’autobiografia di Malcolm X, con le sue storie di degrado e piccola delinquenza, e Fame americana di Richard Wright, in cui l’immigrato dal Sud rurale si scontra col gelo metropolitano di Chicago. Come Fame americana, Immigrato è costruito su una duplice emersione: arri¬vo e scoperta; delusione; nuova emersione e nuova identità. Come Wright, Methnani trova la sua identità emergendo nello spazio della scrittura.

Negli ultimi giorni, ho cominciato a tenere una specie di diario in cui appunto gli avvenimenti più banali, i particolari più insignificanti. È un’esperienza nuova, per me. Mi dico che, almeno, in questo modo il tempo, le persone, i gesti non passeranno del tutto inutilmente. Fra qualche mese, potrò aprire il mio quaderno, e a una pagina potrò domandare: “Ti ricordi quella volta che…” Oppure: “Come si chiamava quella ragazza di Mazara?” Il quaderno, in silenzio, risponderà: indicherà i nomi e i profili e infine i corpi. La solitudine, così m’illudo, sarà qua e là attraversata da una presenza, da un’ombra lontana. Per un attimo, sarò io stesso il mio compagno di viaggio. (p. 52)

Il tema della scrittura, su cui Immigrato ritorna più di una volta, indica la cosciente intenzione letteraria del libro. Da questo punto di vista, le pagine più elaborate sono gli ultimi due capitoli. Il protagonista sta tornando a Roma dal Nord, con la speranza di un lavoro. Il capitolo finisce, e lo ritroviamo invece a casa di suo padre a Kairouan. Adesso ha un lavoro e dei soldi, ed è tornato in vacanza, con regali, per raccontare la sua storia al padre da cui si è allontanato fin dall’infanzia. Come Douglass non ci racconta come ha fatto a fuggire dalla schia¬vitù, anche Methnani non racconta come si è tirato fuori dalle strade: entrambi elidono i meccanismi della liberazione, e si concentrano sulle sue conseguenze. Come Douglass termina il suo racconto con il ritrovamento della voce e l’inizio dell’impegno di lotta contro la schiavitù, Methnani conclude con la conquista della scrittura, la padronanza della lingua, e un nuovo inizio come scrittore:

L’autobus imboccò la grande strada per El Fahs e Tunisi. Cercai nella valigia, allunga¬ta sotto il sedile avanti a me, il quaderno giallo. Scrissi poche parole. C’era anche una pagina poi il quaderno non aveva altri fogli bianchi. Sulla pagina, in diagonale, scrissi in italiano la parola “ciao”. Pensai che il viaggio cominciava adesso. (pp. 129-130)

Note

1 Ralph Ellison, Invisible Man, Harmondsworth, Penguin, 1965, p. 17.

2 Nassera Chohra, Volevo diventare bianca, con l’assistenza di Alessandra Atti Di Sarro, Roma, Edizioni e/o, 1993, p. 13. Le citazioni successive sono indicate con i numeri di pagina nel testo.

3 Olaudah Equiano, The Life of Olaudah Equiano, or, Gustavus Vassa, Written by Himself, in Arna Bontemps, ed., Great SIave Narratives, Boston, Beacon 1969, p. 27; trad. it. in Progetto Equiano, Libri parlanti. Scritture afro-atlantiche 1760-1833, Torino, Paravia/Scriptorium, 1999, p. 125.

4 «Panorama», febbraio 1995; «Class», gennaio 1998. Sul nero come simbolo di glamor e di desiderio nella pubblicità e nella cultura di massa, cfr. Robert Orsi, Forte, nera, potente. Il discorso razzista nella cultura di massa italiana, in «I giorni cantati», 1, 1, gennaio-marzo 1987, pp. 27-30; Alessandro Portelli, Faccetta nera is beautiful, ivi., pp. 31-32; id., Su alcune forme e articolazioni del discorso raz¬zista nella cultura di massa in Italia, in «La critica sociologica», 89, primavera 1989, pp. 94-97.

5 Nassera Chohra, seminario Verso una letteratura Afroitaliana?, Festa della Federazione giovanile del Pds, Roma, 9 luglio 1993.

6 Cit. in Nicoletta Diasio, La paura di diventare bianco. Malattia e riformulazione dell’identità in un contesto migratorio: una ricerca della Caritas di Roma, in «AC-Rivista di Antropologia Culturale», 5, 1992, pp. 30-35.

7 Charles Chesnutt, Lonesome Ben, in The Short Fiction of Charles Chesnutt, ed. Sylvia Lyons Render, Washington, D.C., Howard University Press, 1981, p. 113; George S. Schuyler, Black No More [1931], Boston, Northeastern University Press, 1989, p. 148.

8 Pap Khou irta, Io, venditore di elefanti, a cura di Oreste Pivetta, Milano, Garzanti„ 1990, p. 21. Le citazioni successive sono indicate con i numeri di pagina nel testo.

9 W.E.B. DuBois, Of the Dawn of Freedom, in The Souls of Black Folk, in Writings, New York, The Library of America, 1987, p. 372.

10 Quando incontra la sua prima ragazza italiana, il protagonista di Immigrato è talmente sopraffatto che «L’unica cosa clic riesco a dire, anche per fare colpo, è che sono laureato in Lingue e conosco, oltre all’arabo ovviamente, il francese, l’inglese, un po’ di russo e l’italiano»: Mario Fortunato, Salah Methnani, Immigrato, Roma-Napoli, Theoria, 1990, p. 95. Le citazioni successive saranno indicate con i numeri di pagina nel testo.

11 Ndjock Ngana, Prigione, in ÑindôNero, pp. 134-135, Roma, Anterem Edizioni Ricerca, 1994. Il libro è una raccolta di poesia in Basaa e in italiano.

12 Phillis Wheatley, On Being Brought from Africa to America, testo e traduzione italiana in Libri parlanti cit.

13 Fernanda Farías de Albuquerque e Maurizio Jannelli Princesa, Roma, Sensibili alle Foglie, 1994, p. 57. Le citazioni successive saranno indicate con i numeri di pagina nel testo.

14 L’immagine del corpo femminile come ponte attraversato da un confine è evocata in una classica antologia di scrittura di donne americane di colore, This Bridge Cailed My Back. Writings by Radical Women of Color, a cura di Cherríe Moraga e Gloria Anzaldúa, Watertown, Mass., Persephone Press, 1981. Come quasi tutte le autrici incluse in questo libro, anche Fernanda Farías de Albuquerque è mestiza.

15 Estratto dai quaderni di Fernanda Farías de Albuquerque, in La figura di una donna, in «Caffè», 1, pp. 4-5. Ecco come il brano viene trasfigurato in Princesa (anche in base a ulteriori colloqui tra Maurizio e Fernanda): «Diana Fofao ha perso la faccia, ha perso tutto. La nasconde al sole e alla vista dei clienti. I suoi occhi: due biglie lucide affondate, sparite dentro una devastazione al silicone. La sua bocca: un taglio rosso-schifo su un pallone gommapiuma. Diana fofao s’era bombata il viso e non le restava niente. Deformata, repellente […] La materia è entrata dentro l’occhio. Diana fofao è guasta, forma andata a male. Se toglie il silicone è cieca: non vedrà più il mondo che la guarda. Senza operazione le rimane solo un mondo che la schifa. Lava i cessi e fa le pulizie dentro una pensione. Faccia senza luce, entrò in una chiesa e si tirò una corda al collo – fiore di plastica appassito» (p. 58).

16 La figura di una donna cit.

17 Hassan Itab, La tana della iena, Roma, Sensibili alle Foglie, 1991, p. 15.

18 Ribka Sibhatu, intervista con Alessandro Portelli e Maria Antonietta Saracino, Roma, 24.1.1991.

19 H. Bruce Franklin, The Victim as Crirninal and Artist, New York, Oxford University Press, l978, capp. 1, 3.

20 Ribka Sibhatu, La mia Abebà, in Aulò. Canto-poesia dall’Eritrea, Rome, Sinnos, 1993, pp. 70-73. Lo “aghelghel” è un cesto di foglie di palma usato per il pane festivo chiamato “hmbascià”. Nell’intervista citata sopra, Sibhatu ha spiegato il significato dei puntini, e ha definito lo aghelghel come un corrispettivo eritreo dell’urna greca di Keats, una metafora di bellezza oltre la morte.

21 Haim Rady, Il clandestino, in «Caffè», 2, dicembre 1994, p. 1.

22 Life and Times of Frederick Douglass, New York, Collier’s, 1962, p. 203; Richard Wright, Black Boy [American Hunger], in Works, New York, The Library of America, 1991, vol. I. p. 249.

23 Thamer Birawi, Portoghesi, manoscritto fornito dall’autore.

24 H. Rap Brown, Die, Nigger, Die, London, Allison & Busby, 1970, p. 27.

25 Salwa Salem, Con il vento nei capelli. Vita di una donna Palestinese, con l’assistenza di Laura Maritano, Firenze, Giunti, 1993.

26 Briton Hammon, A narrative of the uncommon sufferings, and surprising deliverance of Briton Hammon, a Negro man, etc., Boston, 1760.

27 Gifi Fadi, immigrato siriano anche lui di estrazione intellettuale, racconta di essere rimasto colpito dalla presenza di cultura siriana nel Foro romano, segno di una Roma imperiale già multiculturale e multietnica (int. 31.3.1992).