Ai lettori italiani
Fredric Jameson

In occasione dell’uscita di Fredric Jameson (Roma, Futura, 2022), un nuovo lavoro di Marco Gatto sull’opera e il pensiero del teorico americano, pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, l’introduzione a firma dello stesso Jameson. Si tratta di un testo indirizzato ai lettori italiani – un piccolo bilancio della traiettoria intellettuale di uno dei pensatori più influenti del nostro tempo. Nei prossimi giorni la nostra rivista dedicherà uno spazio a più voci al recente volume su Walter Benjamin pubblicato dal teorico americano.

Sono grato per questa panoramica della mia opera, non solo perché mi costringe ad affrontare problemi che un autore dovrebbe essere soltanto felice di esplorare, ma anche per l’intelligenza e l’intuito con cui Marco Gatto l’ha concettualizzata; allo stesso modo fui riconoscente, molti anni fa, del fatto che uno dei primissimi viaggi all’estero dei miei libri consistesse nella loro traduzione italiana, di cui una beneficiò della prefazione addirittura di Franco Fortini! Non ripudio nessuna delle mie riflessioni più lontane nel tempo sull’arte e la politica, ma questa fedeltà, non per forza una virtù, senza dubbio rende ancora più arduo il compito di trovare il filo rosso che unisce queste stesse riflessioni. Uno dei miei allievi più brillanti ha suggerito che lo “slittamento” (slippage) sia una delle mie principali categorie di pensiero; e credo che essa sia particolarmente adeguata, sicuramente più di tanti sinonimi che di solito propongo. In un mondo di ideologie multiple, con i loro altrettanto multipli linguaggi, gli slittamenti che permettono di afferrarne le relazioni non dovrebbero spingere all’allestimento di universali ancora più precisi, ma piuttosto dovrebbero accendere la nostra attenzione sulle situazioni concrete – storiche, politiche e perfino estetico-formali – alle quali queste proposizioni teoretiche rispondono. Ed è certo che, particolarmente a sinistra, queste situazioni si sono modificate a partire dagli anni Cinquanta, quando iniziai a scrivere, come irregolare è stato lo sviluppo dei contesti nazionali su cui la mia opera ha spesso riflettuto.

Le frequenti accuse di eclettismo, del resto, furono nella maggior parte dei casi dirette al mio legame sia con la teoria francese sia con l’idealismo tedesco (da Hegel alla Scuola di Francoforte): nei miei giudizi, variamente ideologici, questo legame avrebbe esplicitato un’incompatibilità di fondo fra queste tradizioni, destinata a restare irrisolta sia sul piano filosofico che su quello politico. E sono d’accordo nel dire che oggi qualsivoglia formula teoretica esiga la sua attribuzione storica, la sua assegnazione a uno specifico periodo o a uno specifico conflitto, e l’identificazione ideologica dei suoi sostenitori. Le nostre terminologie sono contrassegnate dalla storia, non possiamo più invocare candidamente significati che siano eterni; qualunque ambiguità tattica, col senno di poi, ha bisogno d’essere smascherata e preservata come tale.

Tuttavia, non ritengo che i concetti approntati in una situazione storica non possano essere “rifunzionalizzati” (Brecht) o ricostruiti criticamente per usarli in un altro contesto. Di certo i rivoluzionari e persino utopici anni Sessanta, con le loro rivolte e le loro guerre di liberazione nazionale, sono lontani dai nostri nuovi, globalizzati, transnazionali e post-sovietici anni Venti. Ma dietro le situazioni, le categorie – vale a dire, le contraddizioni – permangono, dal momento che esse coincidono con quelle proprie di un unico lungo stadio del capitalismo. Credo sia compito della critica e della teoria rilevare la contraddizione come tale, ovunque possa essere trovata, e di mostrarla alla luce del giorno: perché è con la contraddizione che il cambiamento si mette in moto. Allo stesso tempo, vorrei suggerire, forse in modo più scandaloso, che le categorie più profonde della cultura siano le medesime della politica, per quanto le loro manifestazioni di superficie possano sembrare distinte e apparire irrelate le contraddizioni. Il problema del Partito continua a condurre la sua esistenza sotterranea all’interno dei problemi formali dell’opera d’arte contemporanea; i dilemmi della narrazione trovano un’inaspettata risonanza nell’ambito del lavoro politico e della struttura economica. Come potrebbe essere altrimenti in un sistema-mondo (o in una totalità) sempre più unificato e de-differenziato? Nel frattempo, il critico della cultura e l’economista radicale, in un mondo della vita nuovamente ricondotto all’empiria, condividono il destino della disoccupazione, che di certo non opera distinzioni tra base e sovrastruttura.

In ogni caso, vorrei ribadire la pregnanza dei tre livelli di intelligibilità che ho proposto ne L’inconscio politico molto tempo fa: il testo, e la sua costruzione, la lotta ideologica e la struttura sistemica della totalità sono, ciascuna di loro, equamente rilevanti, sia a livello teoretico che politico (e secondo la situazione di riferimento). La mia stessa opera indubbiamente spazia dall’uno all’altro livello in modalità idiosincratiche; ma spero che ciò serva non tanto a elaborare soluzioni specifiche quanto a produrre nuovi problemi, che nel tempo presente immagino possano chiamare in causa le categorie postmoderne e le lotte di classe post-nazionali. Come monadi in un mercato globale politicamente disunito, i vecchi stati-nazione e le loro culture, alla stregua di individui coinvolti in una folla impazzita per il panico, paiono non più in grado di concepire un socialismo globale, successivo alla lotta di classe, che possa da solo riorganizzare l’immigrazione, controllare il disastro ecologico e prevenire il fascismo. La nostra scommessa è che gli intellettuali, con le loro questioni d’ordine teoretico, possano giocare un ruolo, per quanto piccolo, nella costruzione di questo nuovo sistema-mondo, a patto di provare a immaginarlo: quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile.