Andrea Inglese,
La vita adulta
Luca Lenzini

Andrea Inglese, La vita adulta, Milano, Salani/Ponte alle Grazie, 2021.

«Mi sento precipitato in una strana infanzia» (p. 358): nell’Epilogo di La vita adulta, l’ultimo romanzo di Andrea Inglese, scrive così Tommaso, critico d’arte free lance, a Nina, artista-performer in perenne ricerca di sé e centro d’irradiazione delle dinamiche – di coppia, di gruppo, di ceto e generazione – che si sviluppano in un universo popoloso di personaggi sull’asse Milano Berlino New York, nel biennio 2013-15 e quindi nella contemporaneità più prossima. Dopo Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie, 2016) e numerose altre prove in versi e in prosa,1 Inglese si conferma autore capace di cogliere il clima epocale senza cedere a compromessi con le mode o le esigenze del “mercato”: ma di questo più avanti, visto che il mercato è appunto il mare o l’acquario (globalizzato, e non senza barracuda di vario cabotaggio) in cui nuotano i pesci di La vita adulta. Torniamo, allora, al significativo scambio tra Tommaso e Nina dell’Epilogo: qui l’artista, a sua volta approdata – forse provvisoriamente, data l’inquieta fisionomia del personaggio – con l’insegnamento, a una forma di non belligeranza diretta con il mondo circostante, osserva: «pensavo che insegnare fosse un lavoro orribile, e che, soprattutto, fosse l’ultimo tipo di lavoro che una come me avrebbe potuto fare. Invece mi piace, e mi ha addolcita» (p. 353, corsivo del testo).

Sono questi dialoghi conclusivi il suggello autoriflessivo di un “romanzo di formazione”, la cui parabola è già iscritta, a chiare lettere, nel titolo del libro? La domanda è non solo inevitabile, ma sollecitata dalle parole dei due personaggi, che delineano gli approdi esistenziali dei due, Nina e Tommaso, all’altezza dei cinquant’anni. Di seguito alla frase citata all’inizio, Tommaso aggiunge:

La gente che mi circonda – gente della mia età – parla della vita e del mondo in modo sempre più perentorio e impaziente, come si trattasse di una vecchia faccenda risaputa. A me sembra di dover riscoprire tutto, ma non più dentro una foschia di aspettative e paure. Ogni evento viene tremendamente e anche allegramente in primo piano, nitido e tagliente. Vivo a cortissimo raggio. Se ci sono dei minuti buoni, li prendo. Ho abbandonato ogni tipo di preveggenza, di calcolo, di credenza nelle leggi della natura e del vivere sociale. (pp. 358-359)

Per quanto decisamente diversi, gli itinerari dei due personaggi, che condividono l’ambiente artistico e ne subiscono le leggi (non scritte, ma implacabili), sembrano dunque dischiudere, al momento in cui cala il sipario, un orizzonte pacificato o almeno di tregua rispetto alla compiuta iniquità (direbbe Lukács) del mondo: si affaccia in loro una diversione interiore non esibita e un orizzonte circoscritto, comunque una zona di rispetto e di apertura all’altro, quale consente uno sguardo libero da condizionamenti ricevuti come eredità irriflessa. Che di questa eredità faccia parte, per l’appunto, la stessa arte, o almeno una sua idea superlativamente “moderna” e all’ordine del giorno, con tutte le annesse ciarle autolegittimanti e la relativa «risacca delle opinioni» (p. 356), è quanto si può intendere dall’insieme delle peripezie del coro dei personaggi (Danova, Bravermann, Ulrike, Modiglia…), sicché l’oltrepassamento accennato nel finale del romanzo evoca esiti non previsti dal canovaccio glamour, di obbligata e trasgressiva oltranza, che ha la sua patria nei media e la sede in gallerie e riviste à la page e fiere di internazionale rinomanza. Alla fine, non abbiamo a che fare, per dirla con il trito gergo aziendale dei nostri giorni, con una success story da portare a esempio e una “carriera” da monetizzare, con i soliti winners o losers: un moto di straniamento (e di attenzione) presiede, invece, alla seconda «infanzia» (e all’addolcimento) di cui sopra; e non si tratterà di un “precipitare” nella regressione, a ben vedere, bensì di un processo di lento e carsico rischiaramento, una soglia senza epifanie che non siano quelle dei contorni nitidi e taglienti del reale. La forma epistolare dell’Epilogo, con la sua aria settecentesca e quel tanto di didascalico che comporta, lascia un margine d’incompiutezza alla sceneggiatura precaria di un presente sì attimale, ma non per questo indice di negazione di futuro o di un vissuto – direbbero Gilmour & Waters – finalmente “confortably numb”.

Non varrebbe però la pena indugiare su questi passaggi e temi di “genere”, che di La vita adulta rappresentano il palinsesto più in vista (le epigrafi da Atwood e Gombrowicz lo ribadiscono),2 se l’éducation di Nina e Tommaso non arrivasse all’appuntamento finale (ma non definitivo) attraversando, con fare rabdomantico e uno spartito mosso e altrettanto brioso, spumeggiante (donde un piacere della lettura che si fa ricordare), una folta massa di ideologemi e “luoghi comuni” che s’incarnano in figure e situazioni concrete, sagome psichiche e posture mentali, pensieri in movimento e comportamenti fossilizzati sul nascere: attraversamento di cui la titolazione dei capitoli fornisce l’ironico contrappunto-repertorio, come di una quest donchisciottesca o fuga per flash e frammenti (L’amore è un’immagine che hai nella testa, Hai mai imboccato un’artista emergente?, L’apparizione del papà moderno, L’improvvisa complicazione delle esistenze, Perché, assieme alla popolazione mondiale, aumentano pure gli stronzi?, Almeno su Facebook bisogna essere felici…). Siamo così condotti, con mano sicura e un timing calibrato, nello zoo postmoderno e nei suoi retrobottega, dove proprio quel che l’arte dovrebbe combattere, il dominio dell’apparenza, riesce a sottrarre ogni spazio alla ricerca dell’autentico, anzi a bandire con scontata e superiore arroganza, come un croupier che distribuisca solo carte false, ogni velleitaria pretesa di verità, incanti e disincanti compresi; di qui la necessaria distanza tra chi racconta e il suo materiale, un diaframma ironico diffuso e dissolto nella grana del testo. Tuttavia il peso specifico del corpus immanente di frattaglie ideologiche e stereotipi culturali che sta dietro alle nervose silhouettes dei personaggi possiede una sua ipertesa vitalità, alimenta un funambolismo mimetico sempre sull’orlo della parodia, senza mai ricadervi per intero; la lingua ne è permeata e il libro se ne avvantaggia felicemente dando vita, di capitolo in capitolo, a una Vanity Fair del nostro tempo, in cui è possibile ravvisare qualche affinità con il ritratto dell’Inghilterra thatcheriana fornito a suo tempo dal talentuoso Alan Hollinghurst di The Line of Beauty3 (che pure al vecchio Thackeray deve qualcosa, non solo all’Hogarth a cui si ispirava quel titolo).

Nella Vita adulta, alla padronanza del contesto e delle parole d’ordine del momento, ovvero del discorso dominante, quale può avere un provetto e scanzonato saggista, si accompagna la penetrazione nello spessore esistenziale soggettivo e la capacità di rappresentarne dettagli e ambivalenze, lasciando che i passaggi storici di svolta – Genova 2001, nel nostro caso, per esempio, o Ground Zero – restino sullo sfondo delle biografie che si sviluppano nel passare degli anni (così anche, ricordate?, per Waterloo e Becky Sharp). Al brillante e mobile caleidoscopio delle vite individuali corrisponde il tempo unico, appiattito, fatale e ferale come un algoritmo, dell’era neoliberista, il cui ritmo è scandito dal «cervellone sociale, anonimo ma furbo, anonimo ma scellerato», come lo sente (e sperimenta) Nina nell’Autoritratto in pezzi (p. 101): la protesta contro la macchina o macina che cannibalizza arte e vita, giovinezza e maturità, legge e anarchia (diceva Gombrowicz; e si dovrebbe forse aggiungere persino Eros e Thanatos) lascia affiorare in controluce, senza nominarlo, il continente fantasma di una rimozione enorme, l’altra faccia della fiera onnimercificante, uno spettro che s’infiltra anche nei momenti più intimi e nella sfera opaca e irrequieta dell’interiorità (si veda l’intenso passaggio onirico Il volo delle oche). È in questo scenario a più livelli (individuale/collettivo, conscio/inconscio, storico/ideologico) che l’eco dialogica del mondo conferisce alla pagina un fascino originale e pervasivo, facendo del libro di Inglese un romanzo tout court, senza bisogno di ulteriori etichette (quali produce una critica ormai convintasi di non poter esser altro che un mero ingranaggio dell’industria culturale). Sappia il lettore, pertanto, che al vivere «a cortissimo raggio» di Tommaso corrisponde un’apertura di campo amplissima da parte dell’autore, la vita non essendo affatto «una vecchia faccenda risaputa», come ripetono gli adepti del Così è; e che tutto, ormai o finalmente, è davvero da riscoprire.

Note

1 Ricordo tra i titoli recenti Ollivud, Costa di Rovigo, Prufrock Spa, 2018, e La civiltà idiota, Livorno, Valigie Rosse, 2018.

2 «Pensavamo di fuggire dal mondo degli adulti e ora siamo noi gli adulti; questo è il fatto, e nessuno di noi vuole accettarlo, comunque non interamente» (Margaret Atwood); «Ci vorranno grandi invenzioni, botte da orbi inferte a mani nude contro la corazza della Forma, astuzia fuori dal comune, estrema onesta mentale, infinita acutezza d’ingegno, perché l’uomo abbandoni la sua rigidezza e impari a conciliare in sé forma e mancanza di forma, legge e anarchia, maturità e immaturità: la santa immaturità» (Witold Gombrowicz). Tra le due citazioni, una da Virginie Despentes (King Kong Théorie).

3 A. Hollinghurst, The Line of Beauty, Basingstoke, Macmillan, 2004; La linea della bellezza, trad. it. di G. Granato, Milano, Mondadori, 2006.