Le voci di un’enciclopedia, specialmente se è generalista e si rivolge al grande pubblico, devono avere comprensibilità e sintesi estreme, evitando l’abuso di un lessico specialistico e fungendo da strumento didattico. La regola del genere impone informazioni misurate e oggettive. A questi principi si uniformò l’impresa dell’
Enciclopedia Europea Garzanti uscita in dodici volumi dal 1976 al 1981. Estensori delle voci prescelte furono non di rado specialisti che si sforzarono di rispettare gli indirizzi stabiliti adottando un linguaggio non accademicamente atteggiato, né chiuso in una insistita settorialità. Raccogliere il lemmario riconducibile ad un autore può sfociare in una campionatura dotata di una certa organicità e assemblata non solo per affinità tematiche. Un’operazione di questo tipo traspare da un aureo libricino, compatto e serrato in brevi saggi o schede da leggere con piacere oltre che da consultare alla bisogna. È il caso del volumetto di Sebastiano Timpanaro
Leopardi e altre voci, curato da Luca Baranelli e Massimo Raffaeli (Macerata, Giometti&Antonello, 2023). Attribuirlo a Timpanaro (1923-2000) come se fosse da lui costruito è arbitrario, ma la provocazione, grazie ai rimandi interni e all’unitarietà stilistica, ha un timbro eccezionale: riporta a un confronto che giusto nel periodo in cui le voci furono compilate ebbe punte di sommo interesse e invita a ritrovare – assaporare – un dibattito destinato ad avere seguiti consistenti. Racchiude diciannove voci, diciassette delle quali dedicate a personalità di spicco più due panoramiche disciplinari su problemi connessi:
Filologia classica e
Critica testuale. Raffaeli nella prefazione scrive che Timpanaro attesta un incontro tra filologia e pensiero filosofico che delinea un’«assoluta originalità, e anzi unicità, alla sua figura di intellettuale». Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo nella sua Pisa nei primi anni Sessanta e di seguirlo nelle focose battaglie politiche della sinistra socialista guidata da Lelio Basso rammenta la passione di un continuo insegnamento. Fulcro ne era Leopardi: quando uscì la voce
Leopardi aveva già pubblicato la ricerca sulla filologia del grande recanatese (1955) e, nel 1965,
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano: pagine che scombinavano depositate periodizzazioni, contestavano pregiudizi anticlassistici di marca desanctisiana, l’ascendenza idealistica dell’ideologia prevalente nel Pci e dintorni. Rigore scientifico e militantismo stavano accanto nella sua polemica serbando la loro reciproca autonomia. Vien voglia ora di centellinare il ritratto del materialista Giacomo per come emergeva da una prosa scarna e pacata. Era la prima volta che in un repertorio enciclopedico Leopardi era definito «poeta, scrittore e pensatore italiano». La sua inquieta speculazione acquisiva pari dignità rispetto all’opera poetica nel clima di un secolo dimentico degli avanzamenti dell’Illuminismo. L’educazione che gli era ammannita era segnata da «una religiosità razionalistica e reazionaria insieme»: duplicità che avrebbe avuto echi non superficiali negli anni della maturità. Il riferimento era a Leibniz contro il quale Leopardi opporrà non tanto una visione pessimistica, secondo l’impropria e abusata dizione, quanto un’apertura perlopiù ignorata, rifiutandosi di ammettere che «l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?» (1826). Passo decisivo dello
Zibaldone, carte da analizzare nella loro diacronicità fino all’approdo ad un mai smentito materialismo. Oggi questa esaltazione può apparire troppo severa e unilaterale, ma immetteva in un’ermeneutica standardizzata un incontrovertibile e fondamentale elemento. Occorreva non debordare da finalità descrittive, ma spesso dall’autore prorompono spesso giudizi di valore partecipi e sorprendenti, come quando classifica
Alla sua donna (1823) «una delle più alte liriche leopardiane» e ne rinviene l’ispirazione in un «platonismo della fantasia», sottraendo il canto ad un platonismo ideologico ed evocando le qualità «del più grande scrittore tra i filosofi di ogni tempo». Non fa velo «il carattere duramente antiegualitario» dello Stato da lui disegnato. E si mediti sulle righe elaborate per
Cicerone, criticato per essere l’icona di un centrismo eterno ma lodato per «la sua prosa euritmica, sintatticamente complessa eppure articolata con cristallina chiarezza». Timpanaro sembra dichiarare la sua predilezione nemica dei garbugli baroccheggianti. Sono fitti gli appunti a margine suggeriti dalla minuscola enciclopedia fatta di voci e testimonianze lontane nei secoli e contemporaneamente poste in una sequenza necessaria. Da Pietro Giordani, frenetico organizzatore di cultura a Niccolò Tommaseo, qui immune dagli strali che si attenderebbero, da Benedetto Croce «fermo e dignitoso» nel suo distaccato antifascismo al tedesco Karl Lachmann, «modello astratto di riferimento ineludibile», da Ulrich von Wilamovitz-Moellendorff, di cui, nonostante i limiti politici, rimane fuori discussione «la sua eccezionale intelligenza di interprete» a Concetto Marchesi, «autentico scrittore» attratto dalle psicologie dei singoli protagonisti e, infine, a Giorgio Pasquali, indimenticato e stravagante maestro, teso a scrutare la lingua quale «strumento per legare i problemi più disparati alla realtà concreta della vita quotidiana», dunque filologo e storico insieme. E Sebastiano ne fu allievo fedele, ne seguì i metodi fino all’ultimo. Nei seminari tenuti ogni anno alla Normale dal filologo tedesco Eduard Fraenkel era consueta la partecipazione di Timpanaro, che però ascoltava in silenzio e non apriva bocca se non per laconici pareri che avevano l’autorevolezza di una sentenza conclusiva. Sebastiano aveva difficoltà a parlare in pubblico. Era costretto a mettere su carta i suoi punti di vista. Scrivere significava per lui «svolgere un ragionamento – ha osservato Romano Luperini – che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze, senza esibizioni, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali: seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni». Finito il seminario ufficiale, prendeva forma un altro seminario. Fioccavano battute e ripensamenti. Da quella specie di marxismo-leopardismo che Timpanaro si attribuì quasi per scherzo scaturivano a raffica aspre verità in una platonica «fusione – secondo Luigi Blasucci – di ironia e fantasia».
Su Timpanaro è uscita una monografia davvero completa, edita dal Centro di documentazione Pistoia editrice (2023): Luca Bufarale ha ripercorso i numerosi campi in ci cui si articolò l’«inquietudine della ricerca» del grande «filosofo non professionale» come era solito definirsi: Sebastiano Timpanaro. L’inquietudine della ricerca, prefazione di Mario Bencivenni, postfazione di Romano Luperini. Nella premessa è sottolineato il ruolo principe assegnato alla filologia e la dura presa di posizione contro le «sciocchezze» e «gli imbrogli del postmoderno (1991). Egli rimase sempre coerentemente ancorato ad una formazione che univa filologia e materialismo, ravvivando un’eredità ottocentesca e illuminando personalità non adeguatamente studiate, a partire dal suo Pietro Giordani. La sua militanza politica era la proiezione di un impegno che lo vide sempre attivo, fino all’ultimo. Rifiutava con sdegno la «vocazione all’isolamento» che negli ultimi anni gli veniva rimproverata: «è stata – ribatteva – la chiusura di ogni seria prospettiva comunista ed egualitaria a collocarmi, mio malgrado, fra gli “isolati”, e, benché vecchio, non considero il mio isolamento come definitivo, qualora quella prospettiva si riaprisse». Parole dalle quali emana una fierezza mai abbandonata di “socialista antimoderato”. Pagine centrali sono dedicate ai saggi su Leopardi, autore per eccellenza della sua indagine. Quando si profilarono interpretazioni che collocavano il pensatore-poeta recanatese sulla scia della Scuola di Francoforte o lo assimilavano ad una linea neo-gramsciana, Sebastiano non si stancava di ribadire le basi materialistiche di una concezione del mondo che, pur riflettendo temi dell’età romantica, restava caratterizzata da una prospettiva ben lontana da esiti spiritualistici o da un euforico progressismo liberale. La drasticità con cui polemizzava con il post-strutturalismo o con il cosiddetto “pensiero debole” parve a taluni troppo chiusa e severa. Ciò non toglie che la sua lezione sia stata per tanti giovani e continui ad essere nel suo nucleo etico un’esperienza indimenticata, e ne faccia un maestro di quelli che il tempo non cancella. Il saggio molto dettagliato di Bufarale è prezioso proprio perché presenta la personalità eccezionale, unica, di Timpanaro in tutti i suoi risvolti, fino alla crisi della quale aveva percepito radici e sintomi. Può sorprendere la speranza di lui, socialista libertario, di una ripresa del movimento comunista internazionale, ma non la certezza che anche i capitalisti sarebbero stati «inutilmente vincitori» e avrebbero condiviso l’implacabile disfacimento di una «morte ecologica».