Volponi,
il paradosso apocalittico
Gabriele Fichera

Il rapporto tra Volponi e il concetto di apocalisse è molto complesso. Vorrei cominciare ad inquadrarlo adoperando una serie di affermazioni la cui forma, apparentemente assiomatica, è volutamente smentita da un contenuto di tipo paradossale.

Il primo pseudo-assioma è così formulato: Volponi è sì, scrittore di apocalissi, ma non è uno scrittore apocalittico. Non è cioè banalmente pessimista, e non fa recriminazioni né piagnistei, non è mentalmente manicheo, non è passatista, e non è neanche ottusamente progressista. Volponi era uno scrittore, se così si può dire, naturalmente dialettico, ed istintivamente complesso. L’apocalisse, in un certo senso, per Volponi non esiste.

E non esiste per un primo semplicissimo, ancorché paradossale, motivo: perché in realtà essa è già avvenuta. E poiché è già avvenuta si tratta in sostanza di farne, pascalianamente, un buon uso. Può sussistere dunque per Volponi, cominciamo a tenerlo a mente, un versante positivo dell’apocalisse.

Ma ancora l’apocalisse per Volponi non esiste in un altro senso: essa infatti non è veramente “apocalittica”. Cioè: non è una vera fine, ma piuttosto una trasformazione, benché profonda. E soprattutto, qualora fosse una fine, essa non sarebbe ineluttabile, non sarebbe inevitabile. Forse è diventata inevitabile dopo, ma c’è stato un tempo precedente in cui non lo era. Per Volponi in realtà un’alternativa allo sfacelo si dà sempre; ma esperirla fino in fondo è doloroso, comporta sacrificio, e anche un certo “eroismo”. Quello ad esempio, tanto caro allo scrittore da assumerlo come nomen omen, della volpe che, caduta in trappola, si taglia la zampa pur di scappare e mettersi in salvo. A proposito di questo tipo di eroismo, più tardi, parlerò di un raccontino volponiano intitolato Talete.

L’ultimo punto di questa serie di pseudo-assiomi dice che l’apocalisse per Volponi, qualora esistesse, non sarebbe raccontabile. Su questa ultima affermazione tornerò alla fine dell’intervento.

Provo ad analizzare queste frasi e ad approfondirle. Parto dal secondo punto, da porre intanto ad un livello generale di tipo filosofico. In Volponi l’apocalisse non è apocalittica, cioè non è una vera fine. Volponi possedeva una struttura di pensiero profondamente materialista. Per lui l’universo era pura trasformazione di materia. Quello della fine del tempo, o più correttamente, dei Tempi, era un concetto ancora viziato dal solito antropocentrismo. La materia invece si dissolve e si ricompone continuamente; composita solvantur, direbbe Fortini. Più che traumi improvvisi ed evidenti, ciò che si verifica è una lunga e lenta serie di trapassi, cambiamenti di stato, attraversamenti di soglie che concrescono l’una sull’altra, addensamenti di materia, e poi rarefazioni, collassi, scissioni. Per Volponi il mutamento è un passaggio di soglia, un salire e/o scendere continuo di livello; e veramente come in Benjamin la soglia non è un semplice confine puntuale, ma una zona. Cito dai Passages di Benjamin: «La schwelle (soglia) è una zona. La parola schwellen (gonfiarsi) racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento».1 La realtà si trasforma dunque, e non è affatto detto che la fine di un mondo non possa preludere ad un nuovo e migliore ordine delle cose. Ad esempio la rappresentazione del problema della mutazione antropologica in Volponi, a differenza che in Pasolini, che invece era un vero apocalittico, è sfumata; la mutazione può essere anche positiva. Dopo vedremo meglio a quali condizioni si dà questo valore positivo della catastrofe. Intanto va detto che in Volponi il movimento apocalittico assume una forma simbolica precisa: quella della dilatazione. Sussistono però due diverse qualità di tale dilatazione, ci sono cioè due diversi modi in cui la trasformazione apocalittica riesce ad attraversare, liquidamente, certe soglie, e quindi a straripare, a dilagare e ad allargare i suoi confini. La prima dilatazione è negativa; essa è estensiva e strumentale, fagocitante e aggressiva, alienante e impositiva, si rivolge verso l’esterno per dominarlo; l’altra è invece positiva, è volta all’interno dell’uomo, è intensiva e liberante, è analitica e produce salvifiche metamorfosi. La prima, per intenderci meglio, è quella della bomba atomica, con la sua stupida logica da «reazione a catena», col suo automatismo omicida e non intelligente. A questa dilatazione apocalittica Aspri, lo strampalato protagonista del romanzo Corporale, contrappone, ambiguamente, una progressiva e programmata trasformazione di sé e dell’ambiente che lo circonda – e qui abbiamo il metodico delirio del progetto di un rifugio anti-atomico che sia una sorta di novella arca di Noè. Dice Aspri: «Io sono pronto a mutare: voi no. E così vi fregherà la bomba che avete prefabbricato: la quale esplodendo metterà in atto regole e reazioni diverse da quelle della vostra bella continuità».2 Ma qual è questa logica della bomba? Ascoltiamo ancora Aspri: «La logica della bomba è la reazione a catena […] quando esplode prende tutto e ogni cosa diventa bomba: anche la tua testa, anche la tua pancia, che ti è stata tolta, è diventata una bomba».3 Dunque la bomba è già esplosa, già solo per il fatto di essere stata costruita. Aspri dimostra dunque di comprendere a fondo l’estrema pervasività della logica distruttiva bombesca. Una logica che penetra nei corpi e nelle menti degli uomini prima ancora che la bomba materialmente esploda. «La bomba H esploderà per il semplice principio che è stata costruita».4 Si può affermare dunque che la sua deflagrante devastazione morale e psicologica quasi prescinde dalla nocività fisica. Una società che produce questo strumento di morte e distruzione è dunque una società in cui qualcosa di apocalittico è già avvenuto. La bomba non è solo il prodotto di una civiltà degradata, ma ne è essa stessa produttrice. Parafrasando il Volponi di Natura e animale, un saggio di cui tra poco parlerò meglio, potremmo dire che noi siamo fatti a misura della bomba non meno di quanto siamo fatti a misura dell’arancia. Per Volponi infatti, vichianamente, «noi siamo quello che possiamo fare».5

Il prodotto principale dell’ordigno nucleare, che dilaga nel tessuto sociale e lo lacera, è la paura. Terrorizzare gli uomini per ridurli in stato di servitù è il reale compito per cui la bomba è stata creata. Dirà Aspri: «Ti aiuterò a non avere paura […] questo sarebbe il vero compito dell’insegnante».6

Cosa è successo dunque a questo mondo che è già preda di un’apocalisse, è che è già sconvolto da una mutazione profonda?

È successa una cosa molto semplice: che il modo di produzione capitalista basato sull’accumulazione di enormi profitti in pochissime mani, e su uno sfruttamento del lavoro umano e delle risorse naturali sempre più massiccio e indiscriminato, ha trionfato, ha vinto la sua battaglia e finalmente si è imposto come unico e totalizzante modello economico e culturale.

Esiste in Volponi dunque un’apocalisse storicamente determinata, quella capitalista, cioè prodotta dal capitalismo. Tutto il mondo è stato ormai messo a valore, è stato ingabbiato nelle ferree leggi dei processi di valorizzazione. Tutto viene fatto e concepito al fine esclusivo della produzione di profitto.

Questo tema dell’apocalisse capitalista è centrale, oltre che nei romanzi maggiori come Corporale e Le mosche del capitale, in tantissimi altri scritti volponiani; e ad esempio in un saggio di straordinaria intensità come Natura e animale del 1982. Il tema centrale di questo lavoro, in cui saggismo e narrazione, ragionamento e accensione fantastica si intersecano in modo perfetto, è la gravissima perdita dei nessi che intercorrono tra uomo, natura e animale. Leggo alcuni passi da questo scritto, partendo dalle prime pagine: «La natura e l’animale sono in realtà molto lontani dal nostro mondo, spezzati, e in parte dimenticati, indagati, usati, condizionati, strumentalizzati, allevati, tirati fuori dalla loro realtà, dalla loro condizione originaria, unitaria».7 E poco dopo: «La natura appare ormai come la tastiera di una simulazione, i suoi elementi, le sue stagioni ridotti essenzialmente ad essere i tasti, i commutatori, gli imputs di questo piano di simulazione».8 E tutto ciò cosa comporta? «Tutto è ridotto a strumento, mezzo, risorsa, energia, o punto d’appoggio per un vorticoso percorso che va sempre più verso il fuori, un fuori».9 Qui sono da sottolineare almeno due elementi principali: il concetto di asservimento della natura ai meccanismi alienati e alienanti della ragione strumentale, che costringe ogni elemento di vita libera dentro i recinti della valorizzazione capitalista; e poi l’accenno alla direzione verso cui tende questa operazione, il «fuori», anzi un imprecisato fuori, cioè un mondo di cui non possiamo conoscere in anticipo e con esattezza i contorni, ma del quale, viste le premesse, immaginiamo alcune connotazioni, tra l’inumanità più feroce e la sostanziale mancanza di libertà. È poi da notare che si ha proprio in questa idea del «fuori» un esempio lampante di quella dilatazione verso l’esterno, aggressiva e inglobante, che avevamo poco fa individuato come una fra le principali forme dell’apocalisse in Volponi. A cosa tende questo movimento estensivo della logica del valore e del profitto? Di nuovo alla «fioritura» della bomba atomica. E dice proprio «fioritura» Volponi, riprendendo così uno spunto a lui molto caro che era stato della Morante: «La natura artificiale […] benissimo organizzata … ben colorata, tesa, però alla fine tutta mossa verso, sì, una nuova grande fioritura che mi pare essere quella appunto, dell’immenso superiore, velenoso fungo che si sprigiona dall’esplosione delle bombe atomiche e nucleari».10

In Volponi, come si è detto all’inizio, l’apocalisse, anche se già avvenuta, non è propriamente apocalittica, nel senso che c’è sempre per l’uomo un’alternativa da custodire e da esperire; c’è sempre qualcosa o qualcuno che, nonostante tutto, testardamente resiste.

Sempre in Natura e animale: «La perdita è grave» dice Volponi, ma poi improvvisamente aggiunge: «La natura poetica persiste».11 La natura e l’animale che appartengono al «fuori» sono appunto irrimediabilmente perduti, ma rinascono dentro l’uomo, nella sua interiorità, nella sua corporalità. Essi sono: «assunti, introitati, spinti giù, sedimentati, assorbiti dalle interiora, dalla mucosa dell’anima dell’uomo».12 L’uomo dispone dentro di sé di un animale «introiettato», «con tutti i suoi istinti, la sua voracità, il lampeggiare dei suoi occhi, il fremere del suo muso, l’umore delle sue glandole, il morbido delle sue pelli: la saliva, il gusto, l’odore, il calore, le piume, i singulti, gli assalti, gli amori, le stagioni, gli agguati».13 Mi sono dilungato nella citazione del brano per far apprezzare un elemento cruciale dello stile di Volponi: l’uso reiterato della enumerazione più o meno caotica. Qui, ad esempio, si mescolano in modo secondo me non casuale parole dal senso concreto e dal senso più astratto, ma tutte collegabili tra di loro, in virtù di un comune campo semantico. Bisogna fare attenzione a questi movimenti della scrittura, perché Volponi usa proprio queste armi da poeta, cioè le enumerazioni e anche le metafore, per cercare il suo animale «introiettato», e insieme al suo quello di noi tutti. C’è un nesso forte dunque fra associazione poetica, natura e animale. «L’animale esiste in tante associazioni e immagini».14 E per farsi meglio comprendere usa di nuovo la figura poetica dell’accumulazione: «l’associazione lo vede come sangue, scatto, bocca aperta, anelante, pelliccia, calore, piuma, volo, vento, cattura, manovra, entratura, dentro, spinta, sesso, e anche dolce corpo conquistabile, assumibile».15 Come si vede qui l’enumerazione non è semplicemente un accumulo di parole, ma piuttosto un piccolo racconto scorciato, una narrazione latente, pronta a solidificarsi in un’immagine, in uno scatto fantastico. La natura e i poeti dunque, formano un binomio indissolubile. I poeti che infatti sono: «coloro che per loro natura e anche motivazione e proposito, guardano all’interno di sé e più degli altri, possono ancora essere detti “custodi degli animali” e un poco animali essi stessi»16 – ed è interessante ricordare come in modo simile la pensasse anche un altro poeta e filosofo del romanticismo tedesco del calibro di Schiller, per il quale i poeti sono «ovunque, e per definizione, conservatori della natura». Quindi concludendo si può affermare che la natura rinasce all’interno dell’uomo, facendosi spazio nella sua interiorità, e così lo trasforma, dando vita ad un’apocalisse positiva; essa costituisce il: «patrimonio nuovo dell’essere umano».17 Adesso bisogna solo: «riconoscere la natura e anche gli animali come vita e vitalità propria e non soltanto come paesaggio o brano di bellezza stereotipate e consumate».18 Per compiere questo riconoscimento Volponi lavora molto sulla lingua italiana.

C’è dunque un cruciale equivalente formale di questa ansiosa ricerca dell’animale «introiettato» e della sua libertà insopprimibile. Si devono notare a questo proposito due elementi preponderanti della scrittura volponiana; essi sono differenti, ma allo stesso tempo appaiono come invischiati l’uno nell’altro, dunque solidali: c’è un potente scatto immaginativo, un continuo scarto metaforico nella rappresentazione della realtà; e poi, accanto, l’accumulazione ansiosa dell’enumerazione caotica. A proposito di questo ultimo aggettivo va notato che Elsa Morante aveva sottolineato come la rappresentazione del Caos fosse la cifra principale del romanzo Corporale. E aveva ipotizzato che, come in un antico racconto mitologico, anche nella scrittura di Volponi ci fossero come dei buchi che facevano guarire quel Caos. Si può forse apporre una chiosa a questo spunto, dicendo che l’enumerazione e la metafora sono i buchi poetici che guariscono la scrittura volponiana, mettendola in collegamento col mondo affine della natura e dell’animale. Le fessure formali che Volponi incide sulla carne della sua prosa; i fori salvifici che rendono la sua scrittura incandescente e porosa al tempo stesso, nascono dalla coordinazione di enumerazione e metafora. Si può dunque considerare l’enumerazione uno strumento stilistico e conoscitivo di tipo “apocalittico”, che Volponi adopera quasi per mettere alla prova la tenuta della nostra lingua, saggiandone la consistenza sintattica e la coerenza semantica. Come se Volponi provocasse a bella posta, dentro il periodo, dei piccoli smottamenti linguistici; magari per abituarci all’idea di un successivo e più tumultuoso crollo. L’enumerazione sembra essere quella forza che insieme scatena ed organizza forze linguistiche distruttive, scagliandole contro la sintassi della norma, e che poco dopo raccoglie i detriti provocati dalla sua stessa esplosione, mettendosi con pazienza a rovistare fra i calcinacci delle parole, per poi allinearli sui nastri della frase. La metafora volponiana invece squarcia nell’illuminazione di un attimo la materia accumulata. Se l’enumerazione è la pala che scava un labirinto di cunicoli verbali, la metafora è il foro che all’improvviso illumina tale labirinto. Tutt’e due, enumerazione e metafora, collaborano ad una poetica messa in dubbio dell’esistente come blocco di senso compatto, granitico, e inscalfibile.

All’apocalisse dunque si può e si deve resistere, a maggior ragione quando tutto sembra perduto. Volponi è uno scrittore dialettico; e ha sempre un’ultima carta da giocare; nutre fino alla fine un’indocile speranza. E però: si può e si deve resistere, ma non si può pensare di non pagare dazio per questa resistenza; la barbarie lascia comunque dei segni indelebili, e non tutte le ferite si possono occultare. Come si diceva all’inizio: le vere apocalissi non sono raccontabili.

Vorrei portare come testimonianza di tutto ciò un raccontino volponiano del 1987 intitolato Talete. Il protagonista è l’antico filosofo-scienziato greco, l’uomo saggio amato dal popolo per aver, in un certo senso, inventato le previsioni meteorologiche, e così salvato i raccolti dei contadini del suo villaggio.

Questo Talete però si trova a vivere adesso in una fase storica infausta. Volponi descrive ciò che gli accade intorno; e sono scene da fine del mondo. Eserciti che si scontrano in guerre sanguinosissime, dando vita a conflitti efferati. Gente che muore di fame agli angoli delle strade. E poi: una nuova disgustosa barbarie si impadronisce dei cuori degli uomini, trasformandoli in belve che senza ritegno si scannano a vicenda. Gli uomini cadono nell’abiezione del cannibalismo. Un cannibalismo ben lontano da quello ritualizzato da alcuni popoli, perché feroce e crudele; esso infatti rivolge la sua violenza verso le proprie vittime addirittura mentre esse sono ancora in vita. C’è un passo del racconto in cui si dice: «Tutti avevano perduto anche la più piccola remora contro il cannibalismo. Mangiavano il compagno caduto al loro fianco, ancora nell’atto di invocarli, con l’avidità e il gusto di capre fra bietole».19 Ecco lo squarcio della metafora a cristallizzare, ed anche a frenare, in un’immagine l’onda crescente del disgusto. Talete però è filosofo e poeta. Nonostante tutto decide di resistere e dunque rifiuta il cannibalismo. Ma come orchestra il suo rifiuto? Con calma e certosina dedizione il filosofo comincia a staccare dal suo corpo prima un orecchio, poi l’altro, poi un pezzetto di guancia, poi uno zigomo, e così via. Dunque si nutre di queste sue parti. Le mangia. Un gesto estremo e paradossale con cui rifiuta di portare la violenza sugli altri e cerca, simbolicamente, di ritrovare e conservare qualcosa di intimo, la propria sostanza umana, potremmo dire il proprio «animale introiettato». Ecco dunque che Talete risponde all’apocalisse “esterna” dei barbari con una sorta di dilatazione rovesciata, che non aggredisce più il “fuori”, ma si rivolge all’interno dell’uomo, e si tramuta in pensiero corporale, in analisi, in pacata dissezione dell’io. Questo paradossale allargamento e arricchimento dell’io, compiuto attraverso dei tagli – e vedo ancora campeggiare sullo sfondo i salvifici fori della Morante – viene premiato, ed infine si traduce in un mutamento qualitativo, in una metamorfosi. Talete prima si trasforma in una perfetta figura geometrica, il quadrato, e poi collassa su se stesso, sbriciolandosi in una lieve fiammata di luce. I suoi tagli lo hanno salvato dal destino barbarico del cannibalismo. Questo modo di resistere all’apocalisse non è però indolore. Talete è eroico come la già menzionata volpe che si taglia la zampa pur di conservare la sua libertà, ma sconta la sua scelta a favore della dignità umana con la morte. Si badi bene però come sia proprio da questo gesto follemente ponderato che nasce qualcosa di nuovo: una misurata speranza. Il racconto di Volponi infatti si conclude con una figura ambigua, quella del superstite; è da notare ancora una volta l’intrinseca dialetticità del movimento narrativo: dal terribile conflitto fra soldati imbarbariti da una parte, e il civile Talete dall’altra, scaturisce un tertium, una provvisoria sintesi: un superstite, che però porterà su di sé per sempre i segni della catastrofe appena superata. Vediamo il fuggitivo allontanarsi a cavallo dalla battaglia senza mai distogliere lo sguardo dalle scene di guerra; egli porta con sé un carico di appunti. È evidentemente animato dalla ferma volontà di essere un testimone. Poi, a guerra finita, si stabilisce in un villaggio; è molto stimato e rispettato come abile cavaliere e come erudito. Ma, e qui sta il problema, il superstite non racconta nulla, anzi «tralascia» la narrazione. L’orrore estremo non si può narrare. Aveva detto poco prima Volponi: «Le ultime battaglie e la fine non sono mai state descritte né mai raccontate».20 Ho spesso pensato che nel filosofo e scienziato Talete si possa ravvisare un doppio metaforico dello stesso Volponi; forse in questo strano superstite, privato della parola, si potrebbe scorgere in filigrana la figura di un altro straordinario scrittore italiano che più volte a Volponi è stato accostato: Primo Levi. Levi è stato un testimone impossibile. Sapeva bene che il senso profondo del Lager non era raccontabile, perché chi lo ha davvero compreso ed esperito fino in fondo non è più tornato alla vita civile. Le vere apocalissi, come dicevo all’inizio, non sono narrabili.

Vorrei concludere questo intervento con una nota amaramente ironica. C’è un’ultima apocalisse di Volponi di cui forse si dovrebbe parlare; ma per intenderla quel genitivo «di Volponi» andrebbe per un attimo rovesciato e considerato oggettivo, e non soggettivo; nel senso che lo scrittore Volponi è anche vittima di un’apocalisse. C’è in atto una scomparsa di Volponi. A volte i grandi libri sono stati bruciati; altre volte invece, senza scendere al livello di questi gesti estremi e controproducenti, più semplicemente si è tentato di renderli irriconoscibili agli occhi dei lettori. Di tutto questo Volponi fu facile profeta. C’è ad esempio quell’intensa ma triste pagina delle Mosche, in cui la valorizzazione della narrazione, la sua mercificazione, si traduce nell’immagine davvero apocalittica del racconto come «bancone del supermercato». L’incubo di Volponi era lo scaffale librario in cui i volumi di Mann e Proust diventassero d’un tratto indistinguibili dalle bottigliette d’acqua o dalle boccette dell’ultimo profumo su cui la pubblicità non smette di blaterare. Ma forse Volponi era stato addirittura ottimista. Oggi ad esempio i suoi volumi in libreria non si trovano proprio, o sempre più difficilmente; e quando, in ossequio alla banale e consolatoria sequenzialità dell’ordine alfabetico, lo cerchiamo fra gli scaffali sotto la lettera “V” che cosa troviamo? Un ripiano stracolmo dell’ultimo pezzo di Fabio Volo; e poi… basta. Una cinquantina di copie del libro di Fabio Volo; e nessuna invece del suo più sfortunato vicino di consonante.

Anche questo può essere il segno di un’apocalisse che davvero non possiamo tralasciare.

[Intervento presentato al Convegno Internazionale di studi Il ritorno del trauma. Le apocalissi di Volponi, Urbino, 24 novembre 2012.]

Note

1 W. Benjamin, Das Passagenwerk, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1982, trad. it. di R. Tiedemann I «passages» di Parigi, ed. it. a cura di E. Ganni, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002, p. 555.

2 P. Volponi, Corporale, in Id., Romanzi e prose I, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2002, p. 655.

3 Ivi, p. 934.

4 Ivi, p. 478.

5 P. Volponi, Natura e animale, in Id., Scritti dal margine, Lecce, Manni, 1994, p. 105.

6 Volponi, Corporale, cit., p. 589.

7 Volponi, Natura e animale, cit., p. 103, corsivi miei.

8 Ivi, p. 104.

9 Ibidem, corsivi miei.

10 Ivi, p. 107, corsivi miei.

11 Ivi, p. 104.

12 Ivi, p. 109.

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 104.

15 Ibidem.

16 Ivi, p. 111, corsivo mio.

17 Ivi, p. 110.

18 Ivi, p. 112, corsivo mio.

19 P. Volponi, Talete, in Id., Del naturale e dell’artificiale, Ancona, Il lavoro editoriale, 1999, p. 193.

20 Ivi, p. 194.