Nel suo libro di memorie Hitch 22,1 Christopher Hitchens, nato nel ’49, racconta un episodio avvenuto alla metà degli anni ’70. Attivista di sinistra, marxista eterodosso e brillante esponente della gauche oxoniense, Hitch si trova alla Camera dei Lord dove viene presentato il libro di un Pari e dove sopraggiunge, da poco eletta leader del Partito Conservatore, Margaret Thatcher. «Mi sentivo refrattario alla signora Thatcher per molti aspetti, – scrive Hitchens – dal momento che con tutto il suo irrefrenabile sostegno al “libero mercato” sembrava essere una convinta alleata del regime colonialista bianco, autoritario e protezionista della Rhodesia».2 Avviene così che proprio sul tema della Rhodesia si accende una discussione tra i due: Hitchens è convinto delle proprie ragioni, ma la futura Iron Lady «continuò a difendere il suo sbaglio con un’energia talmente implacabile che alla fine le diedi partita vinta e accennai anche un inchino per sottolineare la mia rinuncia». E qui viene il bello, perché la Thatcher se ne esce a questo punto con una sorprendente richiesta: «No, – disse lei – si inchini di più!»; e quando l’interlocutore obbedisce, tuttavia essa ancora non si accontenta: «No, no […] Molto di più!». Questo il finale dell’incontro:
Libro godibile e convincente nella prima parte, con il ritratto della famiglia e degli ambienti della formazione dell’autore, Hitch 22 nel prosieguo perde smalto e scivola progressivamente sul piano del giornalismo predicatorio, che conduce il lettore, attraverso la fin de siècle e l’inizio del secondo Millennio (visti questi in chiave prevalente, se non esclusiva, di “geopolitica”), sino alle soglie della prematura fine di Hitchens, già gravemente malato al momento in cui ne intraprese la scrittura (scomparve nel dicembre 2011, a sessantadue anni). Con ciò, tutto l’insieme è a suo modo esemplare, e non solo e non tanto per i contenuti manifesti e le opinioni del giornalista, ma in primo luogo per la parabola che espone, e per la galleria di ritratti che ne trama lo svolgimento, in cui il brio estroverso, da esperto affabulatore, e l’ampiezza di riferimenti (di ordine letterario, storico e ideologico) di Hitchens innescano dialettiche che trascendono il piano soggettivo (le sue stesse intenzioni e premesse), sorvolando il crinale epocale nei suoi luoghi più esposti e controversi. Quanto ai temi “essenziali” su cui la Thatcher aveva (o avrebbe avuto) ragione, invece, essi restano indefiniti: nonostante l’ampio spazio dedicato in Hitch 22 ai temi politici, non è detto in modo esplicito quali essi siano, anche se dalla svolta del cambio di cittadinanza, il “salto del fosso” con cui Hitchens diventa americano (e in genere osserva il mondo virare nel settembre 2001), possiamo intuire quanto basta. Il cuore del libro è comunque negli anni di Yvonne e del Comandante (la madre ed il padre di Hitchens), e poi nel periodo di Oxford: a quegli anni va ricondotta anche, a veder bene, la genesi della «sensazione» avvertita dopo la sculacciata di Thatcher. Per chi è passato da quelle pagine, infatti, non è difficile intendere come l’episodio s’inserisca in un contrappunto di ordine sia psicologico che sociologico che è parte integrante, e forse elettiva del suo significato: se la generazione del ’68 può specchiarsi nella vicenda del figlio ribelle di una madre frustrata, tenera e discretamente trasgressiva, che muore suicida insieme all’amante in un hotel di Atene, e di un padre che incarna ethos e valori della Royal Navy, la Signora di Ferro interviene a ristabilire l’ordine infranto, assumendo il ruolo dell’educatrice inflessibile – era prassi rituale nelle scuole del Regno bersagliare di nerbate il posteriore degli allievi, un tempo – che non fa sconti e agisce sui sensi di colpa dei “birichini”.
(Due)
Lasciamo Westminster e Hitch, ora, ma restiamo a Londra, dove dalla fine degli anni ’30, ovvero dai tempi dell’Anschluss, abita fino al trasferimento a Zurigo nell’88 Elias Canetti. Insediatasi Thatcher al governo, il vecchio intellettuale – nato nel 1905, Premio Nobel nel 1981 – osserva con sgomento e sarcasmo quanto stava avvenendo nella società inglese. Così commenta, retrospettivamente, in Party sotto le bombe:
In quel periodo (inizio anni ’80), dopo aver insegnato storia sociale europea a Berkeley per un biennio, Tony Judt – uno tra i maggiori storici del nostro tempo, nato un anno prima di Hitchens – ritorna a Oxford. In California alcuni dei suoi studenti, entusiasti delle lezioni su Trotskij e la rivoluzione russa, poco prima gli avevano chiesto di andare «a parlare degli errori di Trotskij, e di come evitarli in futuro, al gruppo della quarta Internazionale a San Francisco»;8 ma non essendoci rivoluzioni in agenda, nonostante gli «interessi culturali immaturi della sinistra dotta post-marxista»,9 Judt non aderì all’invito, indirizzando ad altro i suoi studi e tornando in patria. Arrivato in Inghilterra, si trova «improvvisamente di fronte a una rivoluzione nell’economia politica – promossa dalla destra».10 Così scrive Judt di quel momento, che per l’amica di Canetti costituiva il nuovo rinascimento “elisabettiano”:
(Quattro)
Novembre 2011, Londra. Alla Bbc è organizzato un dibattito sulla crisi italiana. Tra i partecipanti c’è un giornalista italiano, inviato della Rai già da molti anni in Inghilterra. Non uno qualsiasi: laurea alla Sapienza di Roma, negli anni caldi; relatore Lucio Colletti; argomento: Etica ed Economia in Adam Smith.
Tra i partecipanti alla trasmissione l’italiano (Antonio Caprarica) è l’unico a negare quel che tutti denunciano: il Belpaese è sull’orlo del collasso. Amor di patria, s’intende: dentro di sé il navigato giornalista, affabile e con curriculum in regola, sa bene che il declino è innegabile: debito pubblico fuori controllo, industrie boccheggianti quando non dismesse, disoccupazione galoppante; tant’è vero che nella stampa europea si vocifera apertamente di una imminente richiesta di aiuti al Fondo Monetario Internazionale. Ma ecco, d’improvviso una sensazione di déja vu lo assale: non si tratta forse di uno scenario già visto? Dal passato riemerge un fantasma, un altro inverno di molti, molti anni prima. Quello del ’79, quando l’Inghilterra versava in una situazione analoga a quella dell’Italia della débâcle. A microfoni spenti, nella sera londinese un pensiero si fa strada in lui, che via via ripercorre la storia degli anni di Thatcher… – la Governante. Ecco la soluzione, l’esempio che potrebbe guidare il Belpaese fuori dai suoi interminabili guai: la possibile salvezza, il nuovo risorgimento. Ma non basta un articolo per elaborare il parallelismo e dare l’annuncio; ci vuole un libro, un saggio che traguardi Italia e Inghilterra, oggi e ieri. Il titolo è presto trovato, colloquiale e diretto: Ci vorrebbe una Thatcher. Un anno dopo, 2012, è in libreria per i tipi di Sperling Kupfer.
«Tre magnifici lustri in Inghilterra non hanno fatto di me un monarchico – chiedo venia, Maestà! –, ma tanto meno avrei immaginato che potessero accendere la mia ammirazione per una delle donne più detestate della mia remota giovinezza. A noi ex Sessantottini ancora non sazi di utopia socialista Margaret Thatcher gettava in faccia, come un guanto di sfida, il suo proclama: “Non esiste una cosa come la società”».12 Così Antonio Caprarica nell’Introduzione al libro, con successo itinerante tra talk show e Rotary Club. Due citazioni campeggiano in epigrafe: dal discorso di Maggie alla House of Commons del 1980 e dalla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. Chi l’avrebbe mai detto, un Sessantottino folgorato a posteriori da Thatcher? Nulla di strano, anzi: è proprio questo il modo con cui la storia ci viene incontro ai nostri giorni, in forma di flash back. Tra la sculacciata di Westminster e l’illuminazione alla Bbc, un cerchio si chiude: sulle giovinezze di un tempo, sul socialismo e sul Welfare. Inchiniamoci dunque, è venuto il tempo.
Post scriptum
Per uno di quei misteriosi appuntamenti che il destino sa dispensare, nell’inverno 2011 si formava in Italia il “governo dei tecnici” e quasi in contemporanea usciva sugli schermi del mondo il film The Iron Lady, diretto da Phyllida Lloyd e interpretato nel ruolo di Thatcher da Meryl Streep. Quando il Ministero del Lavoro fu affidato a Elsa Fornero, vi fu chi scorse in quest’ultima, forse per una certa sua rigidezza sabauda (oltre che per l’esser donna), una possibile erede della Governante. Ma fu breve illusione: non era passata che qualche settimana, che annunciando il «blocco della perequazione delle pensioni» (4 dicembre 2011) Fornero pianse. Dopo quell’episodio, fu chiaro a tutti i neoliberisti che qualcosa non andava nel governo Monti, nonostante si fosse appena conclusa l’era del Piazzista di Arcore. Ed a nulla valse da parte di Fornero, nell’ottobre 2012, il tentativo di rimettersi almeno verbalmente in carreggiata, invitando i giovani a non essere «choosy» (schifiltosi) nella ricerca di un lavoro. La mancanza di spietatezza era ormai risaputa. Nessuna sculacciatrice ci avrebbe salvato, per il momento.
1 C. Hitchens, Hitch 22, Torino, Einaudi, 2012.
2 Ivi, p. 224.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 E. Canetti, i>Party sotto le bombe, Milano, Adelphi, 2005, p. 194.
6 Ivi, p. 195.
7 Ivi, p. 196.
8 T. Judt, Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 153.
9 Ivi, p. 191.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 A. Caprarica, Ci vorrebbe una Thatcher, Milano, Sperling Kupfer, 2012.