Ho tra le mani il libro di Velio Abati, come tante altre volte. Lo apro e leggo, mi sorprende incredula: mi pare nuovo mai letto prima. Eppure mi dico l’ho già letto prima, e prima ancora. Vado avanti, cambio capitolo, torno indietro: le situazioni, le persone cambiano, l’unità è data dal ritmo, dal passo lento. Il linguaggio è aderente a ciò che si viene raccontando, lingua raffinata sia quando attinge al parlato quotidiano sia quando usa parole antiche e desuete o auliche.
L’abito del docente Velio non lo ha mai dismesso, è il suo modo di leggere la realtà, di interpretare l’idea di un comunismo moderno e colto. Da quando non è più insegnante nelle scuole superiori gli resta la scrittura per svolgere la sua volontà e capacità educativa. I suoi libri e le sue attività richiedono un pubblico, un pubblico partecipe, attivo, capace di farsi coinvolgere.
L’attenzione con la quale è stato accolto il suo ultimo lavoro ci induce a credere che si incominci a sentire l’esigenza di qualcosa di diverso, di distante dal becero chiacchiericcio insulso di una quotidianità in cui si comunica per figurine che evitano di esprimersi con il linguaggio. Le recensioni a quest’ultimo libro di Velio sono attente alla ricchezza dei contenuti e alla varietà linguistica: l’autore ci aveva già abituati a ciò negli altri suoi libri, ma in questo romanzo è ancora più rilevante. Forse oggi il lettore prenderà gusto a leggere queste pagine non sempre semplici, ma tali che ripagano dello sforzo di mettersi in ascolto.
Se Domani (Manni, 2013) era un romanzo che si dispiega nel tempo lentamente, La memoria delle piante (Manni, 2023) è, apparentemente, un racconto breve, potrebbe essere definito, per le dimensioni, un libriccino. Ma l’apparenza inganna. E qualcuno potrebbe pensare che sia un’opera fuori del genere “romanzo” cui dice di appartenere, perché vi si trovano riflessioni apparentemente divaganti su elementi come lo spazio, il tempo, la verità; ma si ingannerebbe e ingannerebbe chi lo seguisse. Le affermazioni di Abati non sono mai concetti astratti, bensì partono dal vissuto e rimangono ben radicate nel tessuto agrario che non solo è il mondo da cui l’autore viene, ma è anche, se non soprattutto, allegoria del mondo degli ultimi, degli umili o se si preferisce delle classi subalterne. Velio appartiene a quel mondo, ma abbracciando il lavoro del docente dà senso, significato anche al lavoro nei campi. Il lavoro viene descritto senza enfasi o rimpianti, ma con una particolare attenzione alle stagioni che vengono, passano e ritornano. Di qui prende vita la pagina intensa in cui, si dice, la verità non è pietra, la verità è fuoco, che avvampa, brucia, esiste in quanto scinde e incenerisce ciò che la fa essere, è verità storica mai data una volta per sempre, frutto della lotta e proprio per questa vera, dove folgora il germoglio di un possibile domani.
Prestiamo attenzione ai termini usati per descrivere la campagna: sterpi, rovi, terra difficile da dissodare; le notti del riposo sono brevi, interrotte dal richiamo al lavoro; la luce spesso è dell’inizio dell’alba o del tramonto, oppure è il sole infocato che arde su chi sta lavorando nei campi. Scelgo qua e là qualche frase per aiutare chi mi sta leggendo a farsi una prima idea di quello che vado sottolineando:
Figure di dolore straziano i giorni, uno dietro l’altro, fino al respiro dell’alba.
Non era ieri che la voce pacata di padre mi svegliava con breve richiamo, come di scusa, di chi già dalle coste brecciose del Podere del Diavolo sa la fatica?
Nella capanna è sceso il silenzio.
Solo lo sfrigolio della fiamma e il sonno dei tuoi fratelli e sorelle, ancora troppo giovani, ci mentova il mondo.
Nessuna tregua hanno dato oggi le folate d’Aquilone, gelide tra i panni, attente a raccattare intorno rami secchi. Dopo giorni d’acqua, hanno spurito il cielo. Tu, da questa ripa magra e sassosa, ripigliando fiato hai indicato di nuovo, in fondo all’orizzonte, il nostro piano fertile, sottile da quassù, tra la luce del mare e del padule.
Hyso e Camara sono figure centrali per comprendere il mondo del lavoro. Sono figure della stessa medaglia. Le pagine in cui si descrive Hyso attraverso le sue stesse parole richiede qualche ampia citazione per restituire il clima assai difficile in cui si trovano i datori di lavoro e chi è costretto ad “acconsentire” alla sottomissione pur di guadagnarsi il pane. Si tratta del capitolo «Figure di dolore», che potremmo anche intitolare a Camara. Capitolo straziante, descrive una ricerca affannata e presaga della fine di Camara. È il capitolo in cui il dolore del lavoro si squaderna completamente nei due lati: sia in quello del caporale sia in quello di Camara preso a emblema del lavoratore nei campi agricoli.
Riposati carne tenera, fiore celeste e superbo, fiore di cardo nel campo.
Troppo grande è il mare profondo. Qui intorno solo il vento dei monti fischia e ulula. Riposati carne tenera, fratello, figlio dolcissimo. Niente sarà dimenticato.
Dov’è il figlio mio fiorito? Ha, da quanto non si sente?
Chi t’ha preso dolce palma? Tu sperso tra la gente.
Chi ti scalda nella notte, te vita mia dolente?
Sì sono un caporale, quelli che chiamano fuori legge perché non campano d’aria. Non c’è verso, mama, di fermarlo l’unica notizia che mi preme da lui, la devo pagare in questo modo. Mi rassegno.
Da chi vanno a chiedere aiuto, quando le mele o l’insalata diventano fango del campo, quando arriva la stagione di capare gli acini nell’uva da tavola, o la raccolta delle olive? Chi sa dove mettere le mani per trovarti un lavoro? Rimane zitto, come se dovessi rispondergli. Gratis, dovrei farlo? E gratis portarti con il furgone? La licenza dovrebbero darci! Io, si batte forte con il dito, io ho studiato, sono andato all’università nella capitale del mio paese. Poi ho capito che il mio avvenire era qui. Il caporale come dico io è un lavoratore sveglio che ha fatto strada e nessuno può pigliarlo per il culo, perché sa di che parla.
Io a quelli, che ci buttano merda addosso manco rispondo al saluto. Ai loro padroni, se s’azzardano di venire a chiedermi, volto il culo. Lontano! Come dalla peste, perché è una catena. La rapina dei padroni che lesinano all’osso paghe impossibili attira caporali ingordi e delinquenti pronti a spellare squadre arraffate tra gli scarti. Si sentono dio, se ne fregano di tutto e di tutti. Non lasciano occasione, come i loro padroni, di pisciare addosso ai loro uomini, trattati peggio delle bestie. O prendi, o lasci. Ma lo sanno che significa o prendi o crepi di fame. O prendi o prendi, ecco qual è la loro legge.
Accanto o sopra tutti i protagonisti c’è Celso con suo padre. Celso fin da ragazzino è andato come garzone, ha sempre lavorato ma mai diresti che sia o sia stato succube, riflette, pensa, critica e soprattutto dubita. Le riflessioni sul tempo, la storia, la verità nascono, prendono forma, urgenza di essere esplicitate da una rabbia per come gli accadimenti accadono, detto in altri termini, contro la subordinazione. Sono certamente riflessioni dell’autore, ma non solo perché nascono in quel contesto, nascono e sono radicate nel mondo del lavoro che si è fatto atroce per responsabilità di chi ne è a capo. E, quando ci si fa interpreti di come tutto sia umano, cioè storico, si arriva a capire che la lotta porta con sé la verità, una verità, si è già detto, storica, mutevole.
Non riposi dunque il vincitore, né disperi lo sconfitto; le verità non si mettono in fila tanto meno le loro guglie, coste e burroni seguono la linea millenaria di cresta dei dominanti.
Dalla tragedia il dolore non sgorga, se a morire è un inetto o un insignificante, da cui, tuttalpiù, può provenire pena. Solo il forte spezzato da altro più forte suscita il pianto; le lacrime qui non lavano il male interiore. Sono l’omaggio all’ipocrisia di chi gode del potere di assegnare al servo la morte sociale e biologica, che, proprio per questo è messo fuori scena. Così, anche quando in certe svolte della storia o per impeto dello scrittore, vengono fatti vestire i panni della tragedia anche al dominato, l’opera diventa altro o, semplicemente, falsa.